sabato 8 marzo 2025

La negazione del vulcano

 


La negazione del vulcano.

Da vesuviano rimango interdetto davanti allo stupore e alle rimostranze dei puteolani per i disagi dovuti al bradisismo. Per carità, tutto il rispetto per i timori di quei cittadini ma, da persona che ci vive sotto a un vulcano, ho imparato a conviverci, rendendomi anche conto che forse, il pericolo maggiore per la mia esistenza, non è tanto la terra con i suoi sussulti ma l'assurda azione dei miei consimili sul territorio. Del resto il bradisismo, nei Campi Flegrei, non è una novità; negli ultimi decenni, di crisi, anche più gravi come quelle degli anni 70 e 80 del secolo scorso, ce ne sono state, perché quindi non si è corso ai ripari prima? Perché oggi si reagisce come se questo fosse un qualcosa di nuovo e inusitato? Forse prima c'era meno consapevolezza di oggi? Meno conoscenza scientifica e tecnica? Non saprei ma ho la forte impressione che, nonostante tutto, ci sia, da parte dei cittadini delle nostre terre arse e, per certi versi anche da parte anche delle autorità che ci governano, una sorta di negazione del vulcano, la negazione della sua stessa esistenza, questo almeno fin quando la terra non si fa sentire.

La fumarola 

Un esempio interessante di tale negazione potrebbe essere quello della fumarola di San Sebastiano al Vesuvio, chi ci arriva oggi, all'apice di via Panoramica Fellapane, e provasse ad allungare la mano tra i santini e i “pagellini messi là dalla pietas popolare, potrà sentire il calore di Madre Terra e, con le giuste condizioni meteo, la si potrà vedere anche "fumare"; trattasi infatti di vapore acqueo, acqua che penetra in profondità ed evapora al contatto con gli strati ignei che si trovano nelle viscere del complesso vulcanico Somma-Vesuvio.

Che quella di via Panoramica Fellapane sia una Fumarola, esistono attestazioni scientifiche, in primis quella del professor Giuseppe Luongo che me lo confermò in una mia intervista di tanti anni fa [1] e lo scrisse pure in una pubblicazione “Due giorni al Vesuvio” (Ed. Parco Nazionale del Vesuvio, 2025, pagg. 25-26). Anche il geochimico Stefano Caliro in una mia richiesta via e-mail mi rispose, in riferimento alla fumarola, asserendo che non trattavasi di evento scaturito da attività antropica. Perché dico questo, perché esiste un storia molto popolare in questa zona che vorrebbe quella fumarola essere in realtà uno "sfiato" della non molto lontana discarica dell'Ammendola e Formisano. Anche alcuni vulcanologi afferenti all'INGV sostengono questa tesi, in netta contrapposizione con i suddetti scienziati dell'ateneo federiciano. Sta di fatto però che la discarica è stata dismessa già nel 1991 e quindi, ammesso e non concesso, in 34 anni i biogas e gli altri miasmi dei terreni sarebbero più che esauriti mentre la fumarola esiste ancora.

L'impressione è quindi quella della negazione di un fenomeno vulcanico, come appunto quello della fumarola, tra l'altro presente in area vesuviana anche ad altitudini simili a quella di San Sebastiano (400 m.slm. c.ca) come a San Vito di Ercolano. Si ha dunque la forte impressione che si preferisca vedere più la discarica dismessa che il vulcano attivo, sì perché un vulcano, con la sua imprevedibilità, con le sue conseguenze per una possibile eruzione in un'area tra le più densamente popolare d'Europa, fa indubbiamente più paura. E allora, cosa si preferisce fare? Lo si annulla con tutti i suoi promemoria geologici e si continua a costruire come se non ci fosse un domani. Sì, esiste una parte del mondo scientifico che pare contemplare la tesi della discarica e la questione pare essere troppo di lana caprina per metterci una parola definitiva ma l'evidenza dei fatti e la persistenza di una voce contrapposta lascia quantomeno il beneficio del dubbio e il fatto stesso che una parte cospicua della società civile, quella più incline alla speculazione edilizia, sposi questa tesi, è oltremodo significativo.

Ad ogni modo il Vulcano e la discarica stanno sempre là, senza che nessuno abbia fatto qualcosa si serio per affrontare entrambe le problematiche.

“L’ospedale del male”

Un altro esempio di negazione del vulcano è quello dell'Ospedale del mare, costruito ai tempi in cui la sua struttura rientrava stranamente in zona gialla, erano tempi in cui la zonizzazione per il rischio vulcanico seguiva i confini amministrativi e non quelli geologici, con aberrazioni che vanno oltre i limiti della logica e della decenza, come ad esempio la città di Pompei, a 12 km dal cratere, in zona rossa e, l'Ospedale del mare ad 8 km e in zona gialla; oppure l’enclave gialla di Pomigliano D’Arco, circondata dalla zona rossa di Sant’Anastasia. Ovviamente oggi, tale ospedale persiste, come era immaginabile, in zona rossa, le cose sono cambiate, i limiti amministrativi sono stati sostituiti dalla linea Gurioli [2] e l'ospedale, ormai costruito, non lo si abbatte di certo perché sta in zona rossa e probabilmente ce n'era comunque bisogno. Una causa di forza maggiore quindi, che abbatte e seppellisce il buon senso e l'ipocrisia delle passate amministrazioni che, nel nome di quel nosocomio e nel suo stesso logo hanno completamente annullato l'immagine del Vesuvio, molto più presente e iconico di un mare che, se non distante, di certo da lì non lo si vede.

Il Vulcano buono

Un ultimo esempio che mi sovviene è un altro tipo di vulcano, il Vulcano buono di Renzo Piano, quello che accoglie l’omonimo centro commerciale nel nolano; ora mi va più che bene che si elevino luoghi generalmente anonimi come i centri commerciali a esempio di grande architettura ma perché chiamarlo buono, perché contrapporre le sue forme stilizzate a quelle naturali del Vesuvio che si vede in lontananza? E chi dovrebbe essere poi quello cattivo, il nostro Vulcano? Ecco, anche in questo caso c’è la negazione insita in quell’antitetico aggettivo, un buono che non può sussistere là dove esiste il triangolo della morte Acerra-Nola-Marigliano [3] perché vi hanno scaricato tonnellate di rifiuti pericolosi che devono scomparire dall’immaginario collettivo, grazie alla bontà illusoria di un insano consumismo.

Le parole non si mettono a caso perché le parole non hanno solo un significato ma anche una forza, un potere evocativo come quello delle immagini ma spesso, dietro di queste esiste un mondo che sta a noi scoprirlo, oppure restare a guardare.

[1] chrome-extension://efaidnbmnnnibpcajpcglclefindmkaj/https://www.vesuvionews.it/notizie/wp-content/uploads/2018/12/ciro.pdf

[2] https://www.ilmediano.com/Il-bluff-della-zona-rossa/

[3] https://www.ilmediano.com/Rifiuti-tossici-a-Vulcano-Buono-presentata-interrogazione-parlamentare/#google_vignette

mercoledì 5 marzo 2025

Donne

 


“Negli occhi hanno gli aeroplani Per volare ad alta quota Dove si respira l'aria E la vita non è vuota Le vedi camminare insieme Nella pioggia o sotto il sole Dentro pomeriggi opachi Senza gioia ne dolore”

 Ascolto un annuncio sulla rete radio nazionale, relativo all’8 marzo. Il quel breve resoconto di tutto ciò che dovrebbe essere una donna in contrapposizione a quello che è stato, ed ahimè continua ad esserlo ancora, ci sono elementi che non possono che indurmi a fare alcune riflessioni a riguardo.

Uso l’esempio di un annuncio, su ciò che ancora può essere considerato un mezzo di comunicazione di massa, per ragionare sulla visione della donna su questi canali, in particolar modo su quelli televisivi, e non faccio riferimento solo alla visione sessista delle nostre pubblicità, tanto discriminatoria dall’esser considerato normale vendere un prodotto qualsiasi assieme al corpo femminile o una parte di esso, ma mi riferisco agli stessi programmi dei palinsesti, statali o privati che siano. In particolar modo quelli che, con una certa enfasi parlano alla pancia degli spettatori come quelli “sportivi”, ma anche molti di quelli considerati informativi, dove la professionista, la giornalista, non deve essere semplicemente professionale, ma ancor di più deve essere bella e, ancor meglio se appariscente. La giornalista deve in pratica cacciar fuori tutta la sua mercanzia e non tutta la sua cultura, che poi se supportata da lauree, formazione, esperienza lavorativa, etc. poco conta, è un corollario alle sue forme e meglio ancora se opulente.

Questo è quanto riguarda il mercato del corpo della donna ma che dire della visione ancor più subdola di quella dell’angelo del focolare? Non sembra che nelle pubblicità attuali ci sia una grande differenza tra gli anni 50 ed oggi, anche perché, da allora, anche la nostra società, pare che non si sia mossa più di tanto. Sì, ci capita di vedere immagini di padri in tutù, vestiti da fatina dei denti, in stile statunitense, uomini che incominciano a cambiare pannolini ma chi si occupa della colazione, del pranzo e della cena, ma anche dello spuntino e della merenda? È e sempre lei, la mamma, la donna, e questo, i pubblicitari lo sanno molto bene, anche meglio di noi.

Sia ben chiaro, da maschietto non disdegno il grande mistero della femminilità, il faro che per ognuno di noi costituisce la presenza di una donna nella nostra vita, ma, immaginando che sia specularmente lo stesso per l’altra metà del cielo, non dimentico che lei è, sopra ogni altra cosa, persona. Non corpo, non madre, non moglie, non sorella ma persona, soggetto libero di agire e pensare da sola e senza condizionamenti altrui.

 I femminicidi, la non accettazione che una persona, in quanto tale, non possa liberamente non voler più vivere con il proprio partner maschile, nasce anche da questo tragico fraintendimento, quello del ruolo ma soprattutto quello della proprietà che l’uno vorrebbe esercitare sull’altra, la cosificazione della persona femminile. “Tu mi appartieni” spesso si sente dire, ma al di là del passionale romanticismo che, se detto così per dire, per affascinare la propria ragazza, ci starebbe pure, spesso lascia purtroppo ad intendere un annullamento di questa, un oggetto che appartiene a noi maschi e non appunto verso una persona con tutti i suoi diritti ma soprattutto una persona nella sua essenza, che è ben altra cosa. Riflettiamoci quindi, quanto il mondo che abbiamo attorno a noi influenza questa maniera di pensare e purtroppo di agire. Quanto gli esempi mostrati in televisione, al cinema (per chi ci va ancora) ma soprattutto in quel mare magnum che è la rete, influenzano, oltre al nostro sostrato socio-familiare, le nostre scelte di maschi, la nostra sessualità, i nostri sentimenti.

 Ho la forte impressione che la donna stessa, figlia di millenni di sudditanza culturale, abbia assorbito parte di quello stesso maschilismo che l’opprime e quindi, se il suo corpo viene venduto, questo viene giustificato dal fatto che il corpo femminile sia più bello di quello maschile e che, se sulla sua persona pendono ancora le scelte familiari è perché la donna è madre. In questi due andanti, una sorta di contentino per la negazione della propria personalità, si intravedono ancora quei bastioni del luogo comune che andrebbero superati assieme per un'equa condivisione delle parti e dei ruoli nella famiglia, nella società e nel mondo.

Ecco, anche se pian pianino ci stiamo avvicinando a questa semplice ma recondita questione, credo che il vero ragionamento per l’8 marzo dovrebbe essere questo, per evitare che anche questa, come anche altre celebrazioni, diventino uno sterile evento commerciale, riducendo, oltre che il corpo, anche la dignità di una donna ad un qualcosa di mercificato. #8marzo #donna #paritàdigenere

 Nessun vocabolo inglese è stato usato a sproposito durante la stesura di questo post


martedì 11 febbraio 2025

Alcune riflessioni sulla Terra dei fuochi

 



Quando scrivo, lo faccio perché sono della vecchia scuola, lo faccio con cognizione di causa, parlo e scrivo con la dignità di chi ha visto e toccato con mano ciò che descrive.

La Terra dei fuochi è stato un concetto per molti astratto, ma è una realtà diffusa che in molti hanno negato o che, davanti all’evidenza dei fatti, hanno provato a ridimensionare, rimandando ad altri responsabilità quanto meno condivise. La Terra dei fuochi nasce in un luogo preciso, nasce tra le province di Napoli e Caserta ma normativamente, con annesso prefetto ad hoc, viene poi allargata ad altri comuni della Campania, includendo buona parte del Vesuviano. Va detto che di terre dei fuochi, in senso lato, lo Stivale ne è pieno ma il caso campano è emblematico e lo è nella misura in cui c’è ancora chi si ostina a negarne non più l’esistenza ma la consistenza e l’ampliamento di questa immane sciagura.

L’errore, o meglio, l’equivoco è legato, oltre alla malafede di molti politici, molti di loro ancora in carica, ma al fatto che, l’inquinamento massivo del territorio sia stato opera esclusiva della camorra, delle cosiddette ecomafie. Ciò è vero e comprovato ma è anche risaputo che la mafia agisce là dove c’è guadagno e anonimato, situazioni che al momento, nelle zone interessate, non sussistono più, vuoi per il clamore mediatico del fenomeno, vuoi per l’assenza di spazi ormai disponibili per nascondere le tonnellate di rifiuti che rimpinguano ancora il nostro territorio. Ma a tutto ciò va sottolineato che le mafie fanno parte del sostrato socioeconomico del nostro paese e pertanto non se ne può parlare come un’entità a se stante, astratta, come in molti fanno, poiché se queste hanno agito liberamente su un territorio così vasto lo hanno fatto perché gli è stato permesso, da una politica compiacente, certo ma una politica scelta da noi e spesso noi stessi abbiamo fatto finta di non sapere e non vedere certe cose, quando non siamo stati i diretti interessati nell’interagire con la criminalità organizzata in maniere diretta o indiretta.

Oggi però, e qui nasce l’equivoco, oggi che le ecomafie probabilmente agiscono altrove e non sono più gli attori principali dello scempio ambientale di quelle zone riconducibili più o meno alla Terra dei fuochi; esiste un qualcosa di più subdolo e sottaciuto che prosegue in maniera lenta e inesorabile la strada intrapresa dalla camorra.

Il suicidio collettivo

Sì, il suicidio collettivo che attuiamo quotidianamente e a nostro scapito, alimentando di nostra mano o demandando ad altri, la Terra dei fuochi. La fonte principale è l’economia sommersa, fenomeno generalizzato dove anonimi opifici ma anche industrie vere e proprie scaricano e sversano illegalmente i loro scarti industriali speciali e pericolosi per non ricaricarne le spese sul loro prodotto finale. Un fenomeno diffuso che, al netto dell’inciviltà, dell’assenza di senso civico, dei rom e degli svuotacantine, è sotto gli occhi di tutti, la linea delle ecomafie è percorsa senza soluzione di continuità, per la serie: la mafia siamo noi.

Ciro Teodonno, Osservatore Civico della Terra dei fuochi, GPG del WWF Italia e ORTAM del CAI

giovedì 30 gennaio 2025

Il cane che si morde la coda

 


Leggo e sento molte persone lamentarsi dell’attuale situazione del mio paese, reduce dal tragico evento legato all’uccisione di un ragazzo che tentava di sedare una lite proprio fuori la nostra casa comunale. Queste lamentele sono frutto, non solo degli ovvi timori della popolazione ma scaturiscono anche dall’indignazione per l’offuscamento dell’immagine del nostro paese, passato da ambita località residenziale a semiperiferia del male, il tutto a furor di social e amplificato da una stampa tendente più al sensazionalismo che all’approfondimento. Tali rimostranze della popolazione ripiombano, ovviamente, sull’attuale amministrazione.

Dal mio punto di vista, una differenza tra il prima e il dopo, io, non la vedo, non vedo oggi come ieri un cambiamento culturale nella classe politica di San Sebastiano al Vesuvio, ma neanche tra la sua popolazione; del resto, buona parte di chi ci governa faceva parte della precedente amministrazione e della precedente opposizione.

Ma, da attualmente ex cronista del territorio, ricordo invece crisi precedenti, molto simili a questa, sia in ambito di cronaca nera sia in ambito di sicurezza generale, si portino alla mente i ben tre omicidi negli ultimi venti anni in zona Capriccio e i tanti atti di violenza minorile accaduti nel corso degli anni. Ho visto lo stracciarsi le vesti delle amministrazioni, l'intervento della chiesa, l'improvviso e ipocrita afflusso si forze dell'ordine con una presenza più simbolica che reale e che è sfumata, così come oggi sfumerà prontamente come l'indignazione della popolazione.

Ricordo anche il modo irrisorio come venivano trattati i miei articoli relativi all’abbandono di alcune aree del paese adibite, ed ancora oggi adibite a rifugio per coppiette e il progressivo allontanamento dalla legalità di quei luoghi, con illeciti minimizzati, con reati sottaciuti e sfociati poi nell’irreparabile, così come è accaduto proprio in piazza Raffaele Capasso, davanti all’edificio comunale, quello che avrebbe dovuto essere il salotto buono del paese.

Oggi i social enfatizzano e amplificano i messaggi, ma sono messaggi effimeri come quelli che inviavano e leggevano in chiesa persone vicine al ragazzo ucciso, durante gli interventi commemorativi di queste ultime settimane, effimeri come tutto, parole al vento, per sentirsi parte, nel migliore dei casi, di un’emozione generale o funzionali, da una parte come dall'altra della politica locale, per imporre la propria ragione. Purtroppo i morti, gli unici che potrebbero con diritto dire qualcosa, non potranno farlo per dare un ordine, almeno morale a questa storia.

A San Sebastiano al Vesuvio ci sono ben quattro presidi delle forze dell'ordine: Vigili Urbani, Carabinieri, Carabinieri Forestali e Carabinieri forestali del CTA (Coordinamento Territoriale per L’Ambiente), ciò nonostante, in una riunione col prefetto, un assessore invocava anche l’intervento dell'esercito, come la panacea di tutti i mali. Sua eccellenza il prefetto di Napoli, dal canto suo, davanti al mio sottolineare l’abbondanza di forze dell’ordine sul territorio, ribadiva le loro differenti mansioni e questo come se un operatore di pubblica sicurezza, in presenza di reati, dovesse agire a compartimenti stagni e non agire là dove fosse realmente necessario, così come è d’abitudine fare durante le manifestazioni per mantenere l’ordine pubblico.

Pare evidente quindi che il problema non è la presenza dello stato sul territorio ma la sua reale azione su questo e il rischio più grave è che la questione si risolva più come un problema di percezione della sicurezza che della sua reale attuazione. Da noi, putroppo, lo stato interviene solo quando è troppo tardi, ovvero quando ci scappa il morto perché quando lo stato mette il naso tra le nostre cose, i nostri piccoli e grandi intrallazzi, ci da fastidio, lo stato lo vogliamo solo quando vogliamo noi, quando ci conviene, perché del resto l'illegalità è ovunque, ce ne nutriamo quotidianamente e non ci accorgiamo che spesso siamo noi stessi ad alimentarla, da quando voltiamo la faccia a quando pensiamo che non siano fatti nostri, a quando alimentiamo quelle piccole illegalità che quando sono lasciate andare diventano grandi ed irrimediabili guai e povero chi ci capita sotto.

mercoledì 8 gennaio 2025

Il solito nemico alle porte

 


Io capisco tutto e tutti, capisco anche che esista una dialettica tra le parti e che, per sostenere le proprie tesi, ognuno cerchi di tirare acqua al proprio mulino. Capisco pure i timori che le persone possano avere nei confronti degli sconosciuti, verso l’ignoto più indotto che reale, e prendo atto delle incognite e delle problematiche che scaturiscono da un’immigrazione spesso ingestibile o mal gestita e soprattutto inarrestabile da che mondo è mondo, ma non accetto la mistificazione della realtà.

Soprattutto non accetto le generalizzazioni, che fanno male sempre a tutti, a chi le subisce ma anche a chi le fa, ma sopra ogni cosa, non posso assistere in silenzio a proclami governativi infondati e che vanno in maniera talvolta opposta ai dati reali, soprattutto quando questi sono quelli ufficiali e prodotti da organi afferenti al governo stesso.

Secondo l’attuale governo, l’Italia è preda di un’invasione straniera e di conseguenza i nostri confini vanno protetti ad ogni costo da questa inesorabile avanzata. Ora, senza volermi soffermare sulle rotte migratorie e dei tanti paesi interessati nei vari anni da questi flussi, e con cifre spesso rilevanti col mutare degli eventi bellici e climatici e non sempre a scapito del nostro paese; situazioni che meriterebbero quindi altro spazio per un approfondimento. Mi rivolgo però ai più recalcitranti negazionisti del neofascismo e chiedo a loro se le affermazioni governative ricordino più il ventennio fascista che una democrazia del ventunesimo secolo. Inoltre, pare, sempre secondo altri ministri, che pure dovrebbero occuparsi più del loro dicastero che del fenomeno migratorio, che a commettere i reati siano gli stranieri più degli italiani quasi come se l’immigrato, l’extracomunitario, il nero, il marocchino, o in qualsiasi altro modo lo si voglia chiamare, sia il male assoluto, ben coadiuvati da una stampa che mette in risalto ogni reato commesso dallo straniero, soprattutto se questo ha la pelle scura e viene dal sud del mondo.

Un modo come un altro per distrarre l’opinione pubblica dalle proprie inadempienze o da quelle politiche economiche meno popolari e meno accattivanti della creazione di un nemico, un nemico che ci distragga da altro. Ma siccome è giusto verificare con dati alla mano quanto sospettato da chi ha un minimo di scetticismo e scarno di preconcetti, si fa notare che la popolazione carceraria italiana, in data 31 gennaio 2024 è costituita da 60.637 detenuti totali di cui 18.985 stranieri; di questi 44.555 sono gli italiani con condanna definitiva e 13.407 gli stranieri.

Ora posta la presunzione di innocenza statutaria nel nostro paese e la presenza di circa 5 milioni di stranieri registrati in Italia, i condannati stranieri per vari reati in Italia sono circa lo 0,27% della popolazione straniera presente nel nostro paese contro un più basso 0,08% dei detenuti italiani e calcolato sulla popolazione totale di circa 59.000.000 di abitanti che, al netto dei su citati 5 milioni di stranieri, non cambia che in maniera infinitesimale. Tutto questo ragionamento vorrebbe dimostrare che, utilizzando il fattore della condanna definitiva come elemento caratterizzante di una presenza criminale nel nostro paese, risulta che nelle nostre carceri è maggiore la presenza degli italiani rispetto a quella degli stranieri. Ovviamente, così come sopra illustrato, le cose cambiano se valutiamo il discorso in base alla percentuale dei condannati in via definitiva stranieri rispetto al numero complessivo della popolazione non italiana presente in Italia.

Ammesse le attenuanti economiche e le normative più restrittive rispetto alla popolazione straniera ed extracomunitaria, potremmo ammettere che, benché maggiore, la percentuale dei condannati stranieri è irrisoria rispetto al contesto globale ma soprattutto se è vero che i reati non caratterizzano il paese di provenienza, l’etnia, etc., come vorrebbe invece qualcuno, a questo punto, se questo fosse una discriminante reale dovremmo incominciare a porci dei seri problemi interni, soprattutto se valutassimo la popolazione carceraria italiana in base alla provenienza regionale interna, dove si evincerebbe un primato della presenza, nelle patrie galere, della popolazione campana e in linea globale quella delle regioni meridionali, almeno valutando l’andamento degli ultimi vent’anni.

Qual è il problema quindi, il reato o chi lo compie? Cosa cambia se sono vittima di un crimine, se a commetterlo è un italiano o uno straniero, se è un umbro o un pugliese, un campano o un valdostano?

1 . https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_14_1.wp?facetNode_1=3_1_6&facetNode_3=1_5_31&facetNode_2=3_1_6_0&previsiousPage=mg_1_14&contentId=SST613918#

2.

https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_14_1.page?contentId=SST459008

3.

https://noi-italia.istat.it/pagina.php?L=0&categoria=4&dove=ITA

martedì 7 gennaio 2025

“Cosa vuol dir sono una donna ormai ... “

 

Inutile appellarsi al buon senso e alla ragione, o ancor peggio alla religione, il nostro è un paese misogino, ed hai voglia di parlare di sante, madonne ed eroine; la donna, per una larga fetta degli abitanti di questo paese, rimane tale, ovvero un essere inferiore, un qualcuno, e a questo punto potremmo dire anche, un qualcosa, che deve stare al suo posto, possibilmente il proverbiale focolare, in famiglia, con i figli, a servire gli uomini e il marito.

Quindi perché, secondo costoro, queste dovrebbero andare in territori pericolosi a fare le giornaliste come Cecilia Sala? Che lascino fare ai maschi queste cose! Perché lavorare per le ONG in territori bellici come fecero Greta e Vanessa? Perché farsi rapire, arrestare, se non di peggio, quando esistono già gli uomini per affrontare le crisi del pianeta? Per non parlare poi dei riscatti e degli altri compromessi che l’agire di queste obbligherà i nostri politici ad affrontare situazioni quanto meno imbarazzanti, salvo essere uomini, maschi o marò. Nel migliore dei casi, ci si troverà davanti ad un paternalismo che lascia trasparire un atteggiamento verso le donne, nei fatti, non tanto distante da quella parte del mondo islamico che additiamo come incivile ma che mettiamo in atto nella sfera privata delle nostre case e delle nostre menti.

L’impressione forte è quella de: “se l’è andata a cercare”. In altre parole, così come una ragazza, secondo purtroppo il senso comune, merita le molestie sessuali se veste abiti succinti o passeggia in orari ritenuti non consoni per una donna in determinati contesti, ritenuti non sicuri; allora lo stesso varrà per quelle donne che decideranno di fare cose da uomini o che fino ad oggi erano appannaggio maschile.

Ecco, nonostante le leggi, talvolta anche all’avanguardia, nonostante un politicamente corretto che parifica la donna all’uomo, esiste un sostrato culturale spesso, denso, ma neanche tanto profondo, che pensa l’esatto contrario, depersonalizzando la donna, incasellandola, non sempre suo malgrado, in contesti ristretti e delimitati a ciò che tradizione comanda, cucina, famiglia e diciamocela tutta, oggetto sessuale; e se la si ama lo si fa come si ama un cane o un qualsiasi altro animale domestico, e pronti a castigarla nel momento in cui questa trasgredisce le regole e sopprimerla quando non serve più, vedasi femminicidio.

mercoledì 1 gennaio 2025

I giovani

 


I giovani, i giovani! Ma cosa sono i giovani? Chi sono? La proiezione del nostro passato, una speranza per il nostro futuro? O semplice e demagogico nepotismo?

Un po’ come accade con le quote rosa, si parla sempre più spesso di giovani all’interno dei gruppi politici e in quelli delle associazioni, ma cosa siano i giovani, così come tanti altri concetti inflazionati dallo sterile parlare per slogan, leggasi anche quello dell’ambientalismo, non è ben chiaro. Ma partiamo innanzitutto dall’aspetto cronologico, a quale fascia d’età stiamo facendo riferimento? Di chi stiamo parlando, degli studenti? E quali studenti? Quelli nell’età dell’obbligo scolastico? I diciottenni? I ventenni? I trentenni? Od oltre, vista la gerontocrazia della classe dirigente italiana?

Relativamente agli studenti, quando si parla delle problematiche italiane, quando si parla di violenza giovanile o di genere, ma anche quando si parla di ambiente e lavoro, si mette in mezzo sempre la scuola, quasi come se questa non facesse nulla a riguardo e come se bastasse questa sola istituzione a mandare avanti l’intera macchina sociale. Temo invece che, più che alla scuola, in balìa degli umori di una politica decontestualizzata da ogni realtà tangibile e di una visione a compartimenti stagni della società, si punti alla massa inerme e quasi sempre acritica dei giovani che affollano le aule scolastiche, più a loro che ai problemi che li attanagliano, plagiandoli e facendone uso e consumo per i propri scopi elettorali e per nascondere le proprie inadempienze morali e istituzionali ed usando la scuola come capro espiatorio per colpe, molto spesso, altrui.

Ma la domanda delle domande, oltre a capire chi è giovane, è: cosa deve fare un giovane per essere considerato tale?

Di certo un ragazzo in età scolare, non può che avere come punto di riferimento gli adulti a lui più vicini, i genitori in primis ma anche i parenti più prossimi, i famosi zii e i cugini più grandi che, nel bene come nel male, hanno praticamente da sempre formato la nostra coscienza sociale e politica in età di pubertà. Questa formazione familiare è, oggi come oggi, ancora forte, anche davanti alla progressiva delegittimazione dell’istituzione scolastica, considerata ormai più un obbligo che una necessità.

Ma anche l’educazione parentale, così come quella scolastica, in famiglie sempre più frazionate, è messa anch’essa seriamente in discussione dall’incalzante e immanente cultura della rete che, attraverso gli smartphone, sta praticamente sostituendo genitori, parenti e affini, in virtù di una velocità e facilità d’accesso alle informazioni senza precedenti ma che non può essere considerata in senso assoluto la fonte per eccellenza, per qualità, scarsa perizia e moralità; sì, la moralità, perché la morale comune, quando applicata e forgiata sulla cultura di un popolo, metteva una volta quasi sempre le cose in regola, certo, con i suoi pro e i suoi contro, ma di certo con regole tutto sommato condivise dall’esperienza e migliori senz’altro del relativismo amorale di internet, quello che non insegna a porre freni ai nostri istinti irrazionali e soprattutto non fa sì che ci sia qualcuno che ponga freno alle sue e nostre aberrazioni, molto spesso enfatizzate in maniera voluta o frutto indiretto della viralità e non della correttezza dell’informazione condivisa, frutto dell’indicizzazione dell’algoritmo.

Al netto di tutto ciò, e nel vano tentativo di capire chi è giovane e chi no, la spesso remunerativa carriera di imitatori, più o meno consapevoli, di questi diversamente vecchi che ci ostiniamo a chiamare giovani, va avanti ben oltre la maggiore età e si spinge fino alla cosiddetta età della ragione. Quest’età potrebbe essere quella nella quale si decide di mettere su famiglia o, quanto meno, quella in cui si decide di prendere in mano il proprio destino e che, ovviamente, come molti sanno, è un’età che si sposta sempre più in avanti e ciò accade per tanti motivi e non sempre vincolati alla contingenza economica. Spesso prevale anche la scarsa volontà di affrontare responsabilità e compromessi, verso i propri partner ma anche verso la stessa società che sconti di certo non te ne fa e quindi meglio essere eterni fidanzati, eterni figli di famiglia, cittadini con diritti ma senza doveri da affrontare.

I Primi complici di questa attitudine, assai diffusa lungo lo Stivale, sono gli stessi genitori che spalleggeranno i propri virgulti fino alla fine dei loro giorni, cosa naturale, per carità, ma al limite del patologico là dove viene a mancare la presa di coscienza che i figli, oltre a non essere angeli asessuati, sono anche persone con precise responsabilità verso se stessi e gli altri. Persone che dovrebbero avere una propria posizione nella società che non fosse esclusivamente quella di figli, persone con un esempio da dare soprattutto in caso di maternità e paternità, attività anche queste demandate a loro volta ad altro o ad altri, chiudendo in tal modo il circolo vizioso della delegittimazione e della deresponsabilizzazione.

Ecco quindi che, in questo nebuloso mondo dei giovani ci troviamo in un ancor più incognito contesto dove non si capisce ancora quale debba essere la funzione dei giovani, se proiezione delle nostre speranze di vecchi (a questo punto ci verrebbe da chiederci chi è vecchio chi?) o strumento demagogico di chi deve riempire programmi elettorali troppo scarni e privi di reali contenuti.

Io ho quasi sessant’anni e non posso, e non voglio essere considerato giovane, e neanche giovanile, non lo voglio, e non solo perché sono cosciente dei miei limiti fisiologici, ma anche e soprattutto perché cosciente di essere il frutto del confronto e dello scontro con chi mi ha preceduto. Sono stato ovviamente giovane per poter stare ancora qui a scrivere di queste amenità, posso farlo quindi in virtù dell’insegnamento ricevuto da chi ha vissuto e chi è nato prima di me, da chi mi ha indicato la strada giusta, ma anche da chi mi ha indicato quella sbagliata ma, sopra ogni cosa, grazie a chi mi ha insegnato a scegliere.

Questa è la funzione del giovane, quella di apprendere a non esserlo più, così come quella di noi vecchi è quella di carpire quella scintilla che accende il fuoco della giovane età e far sì che non sia un fuoco di paglia ma una fiamma continua che alimenti la voglia di crescere, apprendere e costruire un mondo migliore ma soprattutto di insegnare a scegliere, non di indicare la scelta giusta o presunta tale, perché non ne abbiamo né il diritto, né spesso, tanto meno la dignità, ma perché le scelte sono tali solo se personali. Le scelte sono la presa di responsabilità che rendono i ragazzi uomini o viceversa nel caso contrario, perché nella vita vince chi sceglie, non chi attende che lo facciano paternalisticamente gli altri per loro.