domenica 12 dicembre 2010

sabato 27 novembre 2010

utopia

"Lei è all'orizzonte" dice Fernando Birri

"Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi.

Cammino per dieci passi e l'orizzonte si sposta dieci passi più in là.

Per quanto io cammini, non la raggiungerò mai.

A cosa serve l'utopia?

Serve proprio a questo: a camminare."


e. galeano

venerdì 29 ottobre 2010

LA LOGICA DELL’UOMO FORTE


Già in passato abbiamo sottolineato come gli uomini abbiano troppo spesso avuto bisogno di santi ed eroi per delegare impegni e doveri, ritenuti oltremodo gravosi per le loro gracili spalle. Gli ultimi eventi sociali e politici sembrano però mostrare un salto di qualità, tutto italiano, in questa tendenza nel demandare ad altri quello che spesso toccherebbe a noi.
Se all’indomani delle elezioni del 2006, quando il nostro primo ministro perse, per poche migliaia di voti, il confronto elettorale, tra l’altro con una legge fatta unilateralmente ad hoc, per se e per i suoi, nessuno ci poteva credere. Con l’aggravante poi di un voto degli italiani all’estero, tanto voluto da lui e il suo governo, ma sopravalutato e senza considerare l’assenza di propaganda oltreoceano, e che avrebbe fatto la differenza nello scrutinio finale. Davanti a questo scenario, i più avrebbero pensato a un suo ritiro, ma ovviamente non fu così.
In un paese normale, una batosta del genere, avrebbe stroncato chiunque, se non altro per la figuraccia ottenuta. L’effetto, senza paraocchi, sarebbe stato lo stesso attribuibile a una squadra di calcio che non riesce a vincere la finale del campionato, pur giocando in superiorità numerica e con l’arbitro a favore. Non riesce a vincere, anzi soccombe, e magari anche per un autogol.
Ma tutto questo non basta per abbattere il cavaliere, anzi incomincia proprio da questa sconfitta a costruire la sua vittoria di due anni dopo, in effetti la squadra avversaria è sempre rimasta in inferiorità numerica, penalizzata non solo da un arbitro parziale ma anche da molti giocatori venduti.
Oltre tutto, dal 2008 ad oggi, l’uomo di Arcore ha subito una serie d’attacchi senza pari che, reali o fittizi, avrebbero steso chiunque, in Italia come all’estero. Pur avendo un apparato mediatico, RAI compresa, da monopolio stalinista e un partito radicato ormai meglio dei carabinieri in tutto il territorio nazionale, non ci si spiega come costui, uomo dalle sette vite, possa aver superato indenne i pur forti attacchi di magistratura e opposizione, ma anche quelli di una moglie inconsolabile, delle accuse di satirismo e pedofilia e degli sgambetti degli ex amici. Anzi questi lo hanno rafforzato più dei suoi stessi alleati, più dei suoi segugi, più dei guastatori da talk-show, di quelli che non ti fanno mai parlare, per intenderci. Ma lui continua a vincere e una dopo l’altra, dopo aver sfruttato ad arte la crisi della spazzatura a Napoli, vince le amministrative e gli ultimi confronti regionali e provinciali.
Il mio pensiero è comunque molto simile a quello espresso in passato sugli eroi, stavolta dirottato sull’immagine dell’uomo forte che nella penisola ha sempre riscosso un notevole successo popolare. Basti pensare, senza menzionare il ventennio, al culto di personaggi come Togliatti e De Gasperi nell’immediato dopoguerra, al Bettino Craxi degli anni “80 ed ecco poi, non a caso, lui, l’uomo delle televisioni, colui che sostiene d’essersi fatto da sé!
Così, come si è da sempre data in procura la propria ignavia a santi e martiri nonché a geni ed eroi di tutte le risme e di tutte le cause, ora si sceglie qualcosa di più vicino e di più terreno, un uomo in carne ed ossa, capace di prendere le decisioni anche per noi. Qualcuno che ci rassicuri, magari attraverso i nostri schermi ultrapiatti, che tutto va bene, garantendoci che, anche stavolta, non ci sporcheremo le mani e che, in più, non dovremo neanche sforzarci nel capire il perché il mondo giri intorno a noi. Tutto ciò nonostante ci avessero detto che nel giardino d’Europa tutto andava bene e che la crisi non c’era più e che per le strade di Napoli non ci sarebbe stata più immondizia e così via. Ma qualcosa comunque non tornava, qualcuno rischiava di uscire dal torpore mediatico, rischiando addirittura di pensare e far notare che quelle cose non erano vere. Allora, ancora una volta scatta fuori la genialità del self-made man, caccia il suo asso dalla manica, estrinseca ancora un suo duplicato, visto che, nonostante le sue auree aspirazioni, non è ancora riuscito ad ottenere il dono dell’ubiquità! Ecco allora il superbertolaso, una sua emanazione, per transustanziazione ovviamente, una gemmazione dalla sua genialità, capace anche da solo, ovvero senza segugi e lacchè, grazie solo alla sua aura di perfezione e al suo golfino d’ordinanza, di mostrare a tutti quello che non c’è, o meglio quello che sudiciamente c’è ancora ma non si deve vedere.
La fantasmagorica mitosi attecchisce talmente tanto che, i napoletani stessi, hanno creduto che, la tradizionale nostrana monnezza, fosse davvero sparita dalla strada, anche quando questa s’accumulava proditoriamente sotto i ponti e nelle stradine di campagna, o nelle piazzole di sosta delle superstrade o in qualche vicoletto malfamato del centro. Non c’era, l'ha detto lui, non c’è, e se c’è la messa la camorra, l’ha detto superbertolaso! Come potrebbe mentire un uomo tanto retto e puro, e poi c’ha pure la divisa, è un uomo serio e impegnato, non è un politico!
Ora, non che stimi la camorra, che minimizzo come faccio senza maiuscole per molti dei personaggi infimi che popolano i miei sfoghi giornalistici, ma una cosa è certa, essa non è sicuramente stupida, ed è tanto scaltra quanto vorace! La delinquenza organizzata, come ogni mente pensante sa, non ha certo bisogno di clamore alcuno per svolgere le sue attività, tantomeno quello mediatico e ama agire nell’ombra per attuare i suoi loschi traffici. Non si capisce quindi il perché e il per come le mafie debbano permettere ai dimostranti di Terzigno di attirare tanto la pubblica opinione quando loro hanno agito indisturbati per decenni senza che i nuovi lazzari scendessero in piazza a protestare.
Probabilmente i dimostranti hanno fatto proprio il contrario di quanto li si accusa, differenziandosi proprio da quella corruzione che ha invece permesso di creare tante discariche non a norma e pericolose per la salute pubblica. Hanno svegliato anche se temporaneamente la pubblica opinione, dal sonno televisivo o da qualche casa prodiga di sangue e particolari raccapriccianti.
Mi duole dirlo ma anche con la rivolta violenta, forse per gli stessi laidi motivi, si è scoperta una realtà per molti dura da accettare, si è scoperto che a Napoli, dall’estate del 2008 e a maggior ragione dal dicembre 2010, data della presunta fine dell’emergenza, non è cambiato nulla.
È evidente che il concetto non rientra nella visione delle cose di chi ci governa e di tutti coloro che credono nei dogmi o nelle favole, se poi si è sposata la laicità allora si potrebbe sospettare che qualcuno stia mentendo e possiamo immaginarne pure il perché.
Ma la smania di credere in qualcuno è tanto forte, la smania di demandare è così viscerale che anche il centro-sinistra ha attinto ad una sua rosa di superuomini, ed ecco che spuntano i sindaci sceriffo. Ed ecco i fondamentalisti del PD.
Il sindaco di Salerno De Luca è salito agli onori della cronaca grazie all’immagine di una città pulita e dove la raccolta differenziata funziona, in un periodo dove si spacciava tutta la Campania come un’enorme pattumiera, senza conoscere realtà come Àtena Lucana o Mercato San Severino con percentuali di raccolta differenziata da far invidia alle più blasonate realtà settentrionali.
Tutto sommato, volendo essere precisi, e visto che nessuno a voglia di esserlo, la città di Salerno conta una popolazione di 139.899 abitanti e un territorio di 58,96 km², contro i 960.247 abitanti del comune di Napoli e una superficie di 117,27 km². Ovviamente il divario se rapportato tra le due province si allarga ulteriormente a sfavore della città di Partenope, trovandoci con una popolazione di 3.079.304 di abitanti e una superficie di soli 1.171 km² in quella all’ombra del Vesuvio e una popolazione di 1.107.504 anime su un territorio di ben 4.918 km².
Ora, il De Luca avrà lavorato anche bene ma ci sarebbe da chiedersi cosa avrebbe fatto in un realtà più complessa come quella napoletana. Inoltre e questo per non far torto ai propri antagonisti, lo stesso sindaco ha un procedimento penale a suo carico, per truffa ai danni dello stato e falso, una condanna in primo grado e poi, guarda un po’, una prescrizione per un imputazione per sversamento di rifiuti!
Da Veltroni a Bersani, da Franceschini al rampante sindaco di Firenze Renzi non vedo sicuramente forza alcuna ma senz’altro l’immagine deformata dell’omino di Arcore. L’unica cosa che li accomuna è la monomania per il presidente del Milan, se lo rimbalzano l’uno contro l’altro chi come male assoluto e chi come male relativo; e lui sta sempre là a rider di loro e di noi tutti.
Non parliamo poi di Marchionne! Un altro dio sceso in terra! Centurie di italioti, di destra e di sinistra ne osannano le virtù, e un po’ come per il divo Cassano, una volta che hai azzeccato un gol o un passaggio giusto entri direttamente nell’olimpo e non ne scendi più.
E che fa! E che c’entra se si manda in mezzo alla strada qualche migliaio di operai o se si snatura il diritto di sciopero, la colpa non è sua ma è dei sindacati che fanno il loro lavoro. Ahi contessa! Ma cosa vorranno mai questi operai? Lui il Marchionne sa parlare ma anche se dicesse baggianate avrà anche lui i suoi luogotenenti in casacca RCS che ne intesseranno le lodi e poi che volete? C’ha il golfino anche lui!
S’è teorizzato molto sulla fiducia, per non chiamarlo amore, che gli italiani nutrono per il fondatore del PDL, il sogno di rassomigliargli nell’immagine da vincente che si ritrova; l’aver emancipato alcune aree politiche della destra tenute, nell’angolo dal dopoguerra; la speranza di una rinascita della democrazia cristiana; la voglia di impunità! Ma una cosa sopra tutte, la rassicurazione di una vita tranquilla, senza problemi, senza disoccupazione, senza precariato, senza cassintegrati che scioperano. Un paese vincente nel mondo e al passo con i grandi, nello sport e nell’economia, dove l’opulenta bellezza deve imperare come nelle sue reti TV.
Peccato che lui stesso non possa battere la forza di gravità e così come le sue rughe di ottantenne prima o poi cascheranno definitivamente come il sipario sulla sua farsa. Bisogna solo sperare che non sia troppo tardi anche per noi.

lunedì 25 ottobre 2010

Cambio di turno alla Rotonda della Panoramica a Boscoreale



GRAZIE JUDITH
In questi giorni di ribalta mediatica gli insorti di Terzigno hanno ottenuto almeno un risultato importante. Anche se offuscati da una cortina mediatica fatta di cronaca voyeuristica, pettegolezzi e di controinformazione commissionata ad hoc, gli eventi, legati alle discariche, hanno invece messo in luce un qualcosa di molto importante. Lo stato agisce in un contesto di illegalità.



Ma dov’è quest’illegalità se lo stesso fa richiamo alla legittimità dell’apertura della nuova discarica in virtù di una legge approvata dal parlamento?
La legge in questione è la legge speciale 90 del 2008 ma anche la 195 del 2009 che fa richiamo alla precedente per concludere, almeno per la propaganda, la crisi dei rifiuti. La 90 individua la discarica di cava Vitiello quale sito idoneo per lo smaltimento dei rifiuti ma la 195, ironicamente, la esclude per la conclusione della crisi, lo scorso dicembre.



Ora se non si volesse ragionare e mettere da parte il raziocinio davanti un talk-show o una partita di calcio, basterebbe semplicemente ricordare, senza far ricorso a ragionamenti particolari, che lo stesso stato, per ragioni di emergenza nazionale, aveva messo in deroga ogni tipo di legge relativa alla difesa ambientale e aveva decretato all’uopo su ogni tipo d’urgenza, legata a questa ed altre situazioni ritenute emergenti. Allo stesso tempo finita la crisi, anche in questo caso per decreto legge, l’esecutivo pone fine a qualsiasi azione relativa alla fase d’emergenza.
Adesso sta per fare lo stesso, basta poco del resto a far approvare un decreto legge che non troverà ostruzione alcuna per una visione univoca della questione.
Ora, e questo è il nocciolo del discorso, perché aprire una nuova discarica se la crisi è finita?



È chiaro che chi ha seguito la questione non ha avvertito nessuna soluzione di continuità tra l’acuirsi della crisi del 2008 e il 2010 ma il negare l’evidenza dei fatti, ovvero che lo stesso governo contraddice se stesso piuttosto che mentire, allora significa, che oltre a mostrare imperizia, evidenzia anche una certa noncuranza per chi, se non l’ha votato, è da esso comunque governato.
La spazzatura non c’è perché non deve esserci! Questo è il punto, o meglio, il puntiglio in quel di Arcore, proprio oggi infatti, Silvio Berlusconi, dichiara che la puzza, i miasmi saranno eliminati in 10 giorni, forse per lui è solo questo il problema, non tutto quello che c’è sotto, amianto, scorie radioattive e sporcizia morale! Magari anche tutto questo sarà eliminato per decreto legge!
La forza di tali contraddittorie affermazioni sta nel fatto che, con buona pace del premier, non esiste contraddittorio alcuno!



Non c’è stata infatti finora una stampa o una televisione, a livello nazionale, che abbia chiarito a pieno questi semplici ma fondamentali passaggi. Ciò significa non solo che esiste una stampa faziosa ma anche che non esiste un’attenzione vera, convinta e attiva su Terzigno e le sue discariche.
La scorsa primavera, la commissaria europea Judith Merkies affermò durante il suo sopralluogo nella SARI: “La Campania è anche una regione dell'Unione europea e patrimonio mondiale che va mantenuto per voi e per noi.”



Ecco, io avrei voluto che questa frase fosse stata pronunciata da un italiano, magari senza immergere le mani nei liquami della discarica come fece la Merkies, cosa tra l’altro mai vista fare ad alcun politico italiano!
Non pretendo del resto che siano costoro a sollevare le nostre miserrime sorti, non mi sono mai aspettato gran che dalla nostra classe politica, anche se a lei spetterebbe farlo ma mi sarebbe bastato anche un giornalista, un industriale, uno di quegli intellettuali prezzolati e salottieri, un uomo o una donna qualsiasi, intervistato per strada. E invece no! Tutti concordi sulla predestinazione cromosomica delle nostre disavventure! Vien quasi voglia di emigrare, anche e solo per questo, ma purtroppo c’è altro!



Gianni Riotta, direttore del Sole24ore ha, stamattina, sostenuto, durante la rassegna stampa di Prima Pagina su RAI Radio 3 che la colpa è tutto sommato anche di noi napoletani se ci troviamo in questa situazione, perché alla fine, all’atto elettorale, premiamo sempre gli stessi politici. Orbene il decano giornalista, inviato negli USA e professore a Princeton, avrà forse dimenticato il fatto che di elezioni ce ne sono state ben tre dalla crisi del 2008. Infatti, dopo un forte apporto elettorale dato al premier, la Campania, scottata e plagiata dalla crisi della spazzatura, ha, via via consegnato provincia e regione nelle mani del centro-destra, quindi, la scelta, per inutile che sia stata, è stata fatta!
Probabilmente, Riotta giudica opportuno soffermarsi sull’unico o forse più emblematico baluardo sinistrorso della Campania, quello della Jervolino, che si presta, magari più per assonanza che per sostanza alle nefandezze di un Bassolino. Questa è la politica, questa è purtroppo anche l’informazione.



Pensate ch’io sia pessimista? Eppure considerare il fatto che i politici e i galoppini dell’informazione ci hanno descritti come antropologicamente rissosi, collusi con la mafia, arretrati, sporchi e tutta una sfilza di offese che altro non hanno fatto che nascondere, nel migliore dei casi, la loro inettitudine, mi fa star male.
L’osannato Bertolaso, dall’alto della sua divisa e dal basso della sua coscienza, si chiedeva, in una delle sue ormai proverbiali e infelici uscite, dove fossero i cittadini di Chiaiano quando la mafia sversava abusivamente nelle discariche, e perché solo allora, a dir suo, mostravano tanto senso critico e opposizione nei confronti dello stato?
Affermazioni di questo tipo delineano lo spessore del personaggio e potrebbero non meritare risposta alcuna, per quanto tardiva essa possa essere ma siccome non sembra ne abbia avute e siccome l’appiattimento informativo non sembra aver mai voluto chiarire nulla di tutto ciò, è bene ricordare, col rosso in volto per la banalità delle mie affermazioni. Ma è bene farlo.
In un paese civile è lo stato quello che dovrebbe sancire la legalità e difendere i cittadini dal malaffare! Altrimenti sarebbe il far west!
E inoltre se uno stato sovrano s’arroga taluni poteri esclusivi deve pur dimostrare una sua coerenza attuativa, un po’ come un genitore o un insegnante che deve mostrare qual è la retta via. Ma è ormai chiaro che tutto ciò non vale per questo nostro strano paese e il genitore si comporta peggio del ragazzino.
Siamo in presenza di uno stato patrigno, che ancora una volta si dimostra essere parte integrante del suo stesso sfascio, ma al momento opportuno, quello della resa dei conti, incolpa sempre qualcun altro. E c’è di più, contrariamente a quanto accade negli stadi, quando c’è una dimostrazione di dissenso, si mobilita tutta la forza dell’ordine. Un energumeno qualsiasi può aizzare la folla in maniera pressocché indisturbata, mettendo a ferro e fuoco una città; o un commissariato della capitale viene tenuto sotto assedio da eguali delinquenti o ancora, altrove, gli emuli degli stessi danno fuoco ad un’auto del seguito del ministro degli interni ma per i bardi di regime sono sempre “i soliti imbecilli”. Contrariamente, in questo contesto, tu stato mandi il meglio delle tue forze a picchiare i padri di famiglia, a Terzigno come a Cagliari a Genova come a Napoli. Questo perché si osa dissentire, gridare per essere ascoltati, per salvaguardare non semplicemente il luogo dove si vive ma la stessa salute.
Allora come spesso accade nel nostro paese, purtroppo inquinato dalla logica mafiosa, il dissenso viene bollato con l’ignominia, e, se lo si è fatto con i propri compagni di camino lo si è fatto e si farà ancora con maggior lena contro coloro che fanno purtroppo solo numero.
Non può esserci giustizia là dove prevale solo ed esclusivamente l’interesse.

Le foto e il video sono di Ciro Teodonno, si prega di menzionare l'autore qualora si utilizassero

domenica 24 ottobre 2010

Rotonda di Boscoreale



Sarebbe opportuno, quando si esprimono giudizi o quando si commentano certi eventi, andare a verificare se quello che si afferma o si suppone corrisponda a verità. Sarebbe, a maggior ragione, opportuno quando questo rientra nei compiti di qualcuno che veste i panni istituzionali, e, ovviamente, anche quando si fa parte del mondo dell’informazione.
Per cui, ieri pomeriggio, ci siamo recati all’ormai famigerata rotonda della Panoramica di Boscoreale, lì dove il popolo del dissenso manifesta ormai da settimane. Lo definiamo popolo non per retorica ma per il semplice fatto che abbiamo potuto riscontrare in quel luogo disgraziato la presenza di tutti.
Giovani e anziani, operai e intellettuali, famiglie intere e persone singole, curiosi e motivati, giornalisti delle più note testate nazionali e tanti free-lance, poliziotti, carabinieri, corpo forestale dello stato e giovani rissosi, in verità ragazzotti sfaccendati e nulla più. Insomma c’era uno spaccato della nostra società di inizio millennio, coinvolta e contrapposta all’unico assente della giornata, la politica.



In effetti i politici, in primo luogo i sindaci, si trovavano in riunione, in prefettura con l’ineffabile Bertolaso ma in genere solo quelli che hanno la coscienza pulita si sono impegnati, non solo con le parole ma anche con i fatti, in questa nefasta situazione.
L’atmosfera, ieri pomeriggio, verso le quattro era alquanto serena, gremita di padri con i figli, cicloturisti, curiosi per l’evento ormai mediatico; ragazze che commentano qualche esotico personaggio o l’avvenenza di qualche giornalista, ma soprattutto si dialoga, si parla molto, anche con le stesse forze dell’ordine, i toni non sono in verità sempre concilianti ma la rabbia è tanta e si cerca di far capire loro le proprie ragioni, si raccontano le proprie storie di malattia e sofferenza, non solo di disagio per i miasmi provenienti dalla discarica, ma quello di uno spaccato di realtà dove si muore per cancro più che in ogni altro luogo d’Italia.



Tutto sommato, se non fosse per il paesaggio da intifada che ci circonda il clima è tranquillo, da fiera paesana. I segni degli scontri sono però dappertutto, gli involucri dei lacrimogeni, mostrine strappate, caschi rotti, i marciapiedi non esistono più, l’asfalto è terra frammista a sassi ed è difficile camminare senza inciampare, e poi spazzatura, tanta, residui della nostra civiltà ovunque.
L’accesso al paese vesuviano è stato un qualcosa che rimarrà a lungo nei nostri ricordi, la colonna degli autocompattatori bruciati, in fila come carcasse di mammut accasciati al suolo, non lascia certo impassibili, evocano le immagini di Londonderry, nella Belfast degli anni “70. Un luogo dove lo stato era visto come un elemento estraneo, lontano, traditore e anche da questo punto di vista, all’ombra del Vesuvio, non si è molto lontani dallo stesso concetto.



Ore 18.30, il vento cambia, la tramontana, ‘o viento ‘e terra come lo si chiama dalle nostre parti ci riporta alla dura realtà, ci fa capire, distratti dalle chiacchiere, il perché siamo lì. La puzza è immonda, indescrivibile per chi non l’abbia provata prima, ci invade poco alla volta, si insinua tra di noi un acre odore di percolato, la gola incomincia a bruciare è necessaria una mascherina.
Col calare della sera e della puzza s’incupiscono gli animi, capannelli di persone si asserragliano davanti al fitto cordone di carabinieri e poliziotti che blocca la via d’accesso alla SARI. Ci sono alcune persone, che abbiamo identificato come graduati delle forze dell’ordine, che dialogano con i presenti, si cerca sempre di far capire, come accade da giorni, le proprie ragioni, ma i poliziotti consigliano soprattutto di isolare i facinorosi, quelli che allo scoccare della mezzanotte tagliano i fili della luce e innescano la miccia della guerriglia. Uno dei graduati incomincia a dire che la colpa non è di chi sta lì ma degli “sciacalli” della stampa e questo scatena le rimostranze di noi giornalisti presenti che invitiamo tutti a non generalizzare per non cadere nello stesso errore di cui sono vittime più o meno tutti in questo paese.



Si ritorna alla calma, ormai il fetore ce lo sentiamo addosso, tra i vestiti, e in questo ci sentiamo ancora più vicini alle popolazioni di Terzigno e Boscoreale che subiscono in prima persona le conseguenze della putrefazione del cosiddetto umido, che non dovrebbe trovarsi in quel luogo e, più di tutti, patiscono tutto quello che c’è e non si vede e che stanzia nelle viscere della discarica.
Cala una forte umidità e il freddo si fa sentire, sono già sei ore che ci troviamo qui; opportunisticamente appaiono i primi rivenditori di generi alimentari, per lo più birre e patatine ma anche qualche panino, c’è chi sostiene che a breve distanza ci sia anche un “panzarottaro”!



Si accendono almeno un paio di estemporanei e consolatori falò, che rinfrancano i più freddolosi e fanno più gruppo. Qui si assembrano anche alcuni giovani che ci intrattengono con belle canzoni della più antica tradizione partenopea. Girando per la piazza, emblematicamente rappresentata dall’olivo al centro della rotatoria, scegliamo di soffermarci davanti a un fuoco acceso da alcune donne, in verità è la stanchezza che ci ha consigliato di sederci sul vicino muretto, ma è anche il momento opportuno per scambiare quattro chiacchiere davanti ad un elemento conciliante più che mai.



“Fanne vedè pe’ televisio’ sulamente chello ca bbonno lloro”
“Ajer ‘a ssera c’hanno regnuto e mazzate!”
“Anche e femmene e sittant’anne!”
“Mia figlia tene ‘o cancro ma sta pure essa acà!”
Questi erano alcuni commenti delle donne anziane, ma c’erano anche giovani mamme, ragazze con i fidanzati, anche delle famiglie, dall’apparenza e dall’accento, slave che partecipavano attivamente e manifestavano per un qualcosa che ormai sentivano anch’esse proprio.
La calma piatta viene sconvolta verso le dieci, quando c’è il cambio di turno al posto di blocco. È qui che la rabbia s’acuisce, non c’è nessun atto violento ma le offese non mancano, prevale la derisione con applausi e fischi verso chi, per poco più di 1000 euro al mese si frappone tra loro e la salvaguardia dei loro diritti di cittadini. È un passaggio senza fine di auto della polizia, cellulari dei carabinieri, fuoristrada della forestale, è un inveire continuo: “e che munnezza!”.
Passano a piedi coloro che sostituiranno i colleghi che da poco hanno lasciato la posizione, a tartaruga, con gli scudi alti, in posizione di difesa, quasi come se s’aspettassero che qualcosa o qualcuno li colpisse da un momento all’altro, ma niente, fuorché lo sberleffo: “e che sfilata e moda!”.



Ritorna la stasi, anche perché incominciano ad arrivare le prime notizie da Napoli ma qualcuno teme che siano solo voci infondate per lasciare libero il passaggio a nuovi scarichi di immondizia. Il comunicato ufficiale arriva verso le undici quando Gigino Casciello, il portavoce di uno dei comitati di protesta, comunica quanto deciso in prefettura. La Vitiello sarà “congelata” a tempo indeterminato, e la SARI accoglierà solo i rifiuti dei 18 comuni della zona rossa, a patto che si interrompa ogni tipo di manifestazione.
La risposta al pur effettivo risultato ottenuto non è di giubilo e lo stesso Casciello, appoggiato dall’unanimità dei presenti, invita a non lasciare il presidio e seguire nella lotta fin quando non sarà scongiurata e in maniera definitiva la possibilità di utilizzare come discarica la cava Vitiello.
È il termine a tempo indeterminato che non convince i cittadini, scottati da non poche false promesse e tantissimi voltafaccia da parte della politica. Si teme che tra le righe dell’accordo possa inoltre esserci qualche inghippo di troppo. Ecco perché si vogliono risposte chiare e definitive.



Si attendono i sindaci, che giungono solo verso la mezza, sono solo tre, quelli di Boscoreale, molto contestato, Boscotrecase prontamente dileguatosi e quello di Trecase, manca il convitato di pietra, il sindaco amico di Berlusconi, il sindaco di Terzigno Auricchio, e come avrebbe potuto esserci, vista cotanta amicizia e atteggiamenti a dir poco equivoci rispetto alla vicenda delle discariche?
I comitati ribadiscono, se pure con alcuni distinguo, la lotta, mentre nel frattempo all’una e un quarto del mattino ricomincia la battaglia, che si risolve stavolta molto prima del previsto, con il solito sfascio, e cinque arresti.
Ormai è tardi, si torna a casa attraverso un paesaggio spettrale, l’autunnale nebbiolina si confonde col fumo appiccato alla spazzatura, facciamo lo slalom tra gli sbarramenti, fatti di immondizia e di cassonetti ribaltati, fino a San Giuseppe, dove guadagniamo la 268 per tornare a casa.
Domani è un altro giorno, di lotta.




Le foto (esclusa quella della bozza dell'accordo, fonte internet) sono di Ciro Teodonno, si prega di menzionare l'autore qualora le si utilizassero

lunedì 18 ottobre 2010

Mutria





Le foto sono di Ciro Teodonno si prega di menzionare l'autore

venerdì 24 settembre 2010

Viscount



Nelle cose umane è a volte così difficile stabilire le priorità delle cose che facciamo. É realmente difficile valutare l’importanza dell’impronta, più o meno grande, che lasciamo al nostro passaggio su questa nostra piccola terra, grande come le nostre aspirazioni, ma anche ridotta come le nostre vedute. É anche vero, che se non ci fossimo, questa non sembrerebbe più desolata o meno autosufficiente di quanto non lo sarebbe in assenza di ogni altra sua parte. Ma resta il fatto che pur sempre le apparteniamo come ogni sua piccola particella e quindi segniamo il nostro passaggio per chi voglia carpirne l’eventuale significato.
Abbiamo dunque la tendenza di registrare ciò che, talvolta soggettivamente, ci risulta essere degno di memoria, esaltando, in maniera spesso acritica o parziale, eventi storici, o che noi definiamo tali, forse più per commemorare noi stessi che l’evento stesso.
Spesso, i piccoli eventi quotidiani, quelli che ai nostri giorni, vengono rapidamente archiviati per l’eccessiva rapidità della cronaca, non conservano per più di una settimana quell’orma che meriterebbe un ricordo ben maggiore di quanto la velocità tecnologica e commerciale le riserva, se non altro perché legata a quel valore fondamentalmente condiviso che è la vita umana.
La nostra presunzione ha spesso relegato, per pratica tassonomia, al computo delle unità o all’altisonante nomenclatura le vite passate dei nostri simili. Sotto il nostro sterile sguardo sono scorsi antecedenti e paralleli gli altrui fremiti, le altrui passioni. Spesso però la nostra tenera corazza epidermica e quella meno tangibile sintetizzata nell’anima è risultata ben più coriacea all’altro e al microcosmo che questi rappresentava.
Prima, prima che la televisione s’imponesse a tutti noi, come il verbo assoluto, e molto più avanti della presunta infallibilità di internet, c’era la memoria a dare valore al ricordo di un evento. C’era infatti la possibilità di prolungarlo ai posteri, che, magari sotto forma edulcorata, talvolta sostanzialmente modificata, trasmetteva al futuro una storia. Questa però manteneva, nonostante le modifiche, quel valore umano che lo rendeva universalmente accettabile a tutti e per questo prezioso e degno d’esser trasmesso.



Del fatto di cui vorrei parlarvi, molto più recente rispetto alla storia delle genti partenopee a cui appartengo, ha di importante l’umana pietà verso chi c’è simile e le altrettanto umane bassezze che costellano le nostre vicissitudini.
È un evento, accaduto nel 1964, che se non fosse per la memoria di quegl’uomini che ne furono testimoni, oggi se ne sarebbe persa quasi ogni traccia.
Infatti la pur utile rete, nuova frontiera dell’informazione, ha trattenuto ben poca roba tra le sue maglie e solo il ricordo di chi era bambino o poco più che un uomo all’epoca dei fatti di cui vi narrerò, potrà dare la dignità della memoria a coloro che persero il loro bene più prezioso.



Pasqua dalle nostre parti, alle pendici del Vesuvio, dove il tempo imita la variabilità dei umori locali, non è sempre sinonimo di primavera e quell’anno l’inverno s’abbarbicò con quel che gli rimaneva e con tutta la sua enfasi all’incipiente primavera.
La notte del 28 marzo 1964 era Sabato Santo e su Napoli imperversava una tempesta in piena regola. Si sa che quando piove, da noi, sia in città che in campagna non c’è da scherzare, i canali, i lagni che i lungimiranti Borbone, ebbero a costruire lungo le pendici del Somma, possono divenire più che torrenti in piena ed essere perciò molto pericolosi. La città poi, col suo sottosuolo di groviera, ha ben che temere, e guardare dove mettere i piedi, per il cittadino napoletano, risulterà più che utile, opportuno.
La quiete vesuviana di quel Sabato Santo era scossa solo dal fragore del temporale, e solo i pochi anziani che s’apprestavano alla funzione di mezzanotte scrutavano il cielo sperando in una schiarita. Qualcun altro s’affrettava a tornare a casa per festeggiare la Pasqua in famiglia, altri invece, come pochi ragazzini sfaccendati e sereni per le vacanze scolastiche, s’attardavano sotto una grondaia gocciolante a chiacchierare con gli amici più grandi della piazza.
Questo era lo spaccato della quotidianità di paesi come Massa, Pollena Trocchia o San Sebastiano all’epoca del boom economico, quando sperare aveva ancora un suo fondamento.
Ben poca cosa rispetto a chi invece lo viveva già a pieno regime, sfruttando l’onda lunga che dalle tenebre del dopoguerra ci conduceva verso un mondo nuovo e la speranza di esservi partecipe, almeno in un sua piccola parte, era la cosa più gratificante.
L’aeroporto di Capodichino, sabato 28 marzo, era anch’esso bersagliato dagli strali di Giove pluvio e come se ciò non bastasse, a dimostrazione del nuovo clima cosmopolita che vivevano la città e la nazione, il traffico aereo era notevole. I voli di linea cedevano il passo a quelli militari degli statunitensi che richiedevano un ordine di priorità per snellire il traffico dello scalo napoletano.
La montagna, ‘a Muntagna, come la chiamano i locali, il Monte Somma come è normalmente denominato, per differenziarlo dal più recente Gran Cono del Vesuvio (anche se in realtà non è che la parte più antica del medesimo vulcano), quella sera era coperta da una spessa coltre di nubi, che ne avrebbero celato l’esistenza a tutti coloro che non ne avessero memorizzato l’arcigna sagoma nella memoria marchiata a fuoco dalla linea crestata dei Cognoli.
Quella sera quando Aniello s’accingeva a riposare dopo una serata tranquilla in compagnia d’amici, agevolato da qualche bicchierino riposava. Verso mezzanotte fu però svegliato dal suono delle sirene.
Aniello si precipitò in piazza e nel trambusto capì che era accaduto qualcosa di grave, molto grave, ma da dove proveniva quel bagliore? «da chiana de resinare!» La stessa gravità che intesero tutti quelli che ebbero udito il sordo boato, come le donne fuori la chiesa dell’Assunta a Massa, stupite davanti il bagliore delle fiamme intervallato dalle nubi e gli scrosci d’acqua, così come a San Sebastiano, Raffaele, investito della sua carica istituzionale avvertì i carabinier della locale stazione, anche Guido, comandante della stazione dei carabinieri di Cercola, capì tutto vedendo la striscia di fuoco squarciare il fianco del Somma. Ben presto s'intese che il fragore che aveva scosso la notte vesuviana era stato causato dallo schianto di un aereo, un bimotore Viscount dell’Alitalia col suo carico umano di quarantacinque persone.
Nelle prime ore del mattino intervennero “le autorità”, i carabinieri, i vigili del fuoco, ma nessuno sapeva come giungere là dove l’aereo o quel che ne rimaneva ardeva ancora nonostante la pioggia incessante. La zona in questione, identificata all’epoca col toponimo, ormai in disuso della Cresta del Cardo, era situata a circa 670 metri, presso le sorgenti delle Chianatelle, polle pressoché prosciugate dalla natura e dall’umana incuria, sul versante pollenese del Somma. Un luogo impervio e la notte di tempesta non ne agevolava certo l’accesso. Fu necessario allora la guida di persone esperte del per raggiungere il luogo del disastro.
Aniello, esperto cacciatore di beccacce, lo era, lo era quando ‘a Muntagna era parte integrale della vita sociale ed economica dei paesi del comprensorio e non un’appendice sconosciuta o il riflesso di una storia raccontata troppe volte per sentirla propria. Quelli come lui la frequentavano con rispetto, si muovevano in un contesto che conoscevano perfettamente e non perché gli fosse stato inculcato sterilmente da qualcuno ma perché vi erano nati e l’amavano come qualcosa di proprio, di visceralmente sentito e di conseguenza amato, era il loro mondo insomma.
Aniello, allora trentenne, si propose di accompagnare le avanguardie dei soccorsi sfruttando la sua conoscenza dei luoghi. Alla luce delle fotocellule ci s’incamminarono verso il punto dell’impatto, le fiamme guidarono poi il cammino verso il triste scenario che i soccorritori trovarono sulle pendici della caldera.
Brandelli di carne umana apparivano tra le lamiere contorte e fumanti di quel che rimaneva del velivolo, corpi semicarbonizzati pendevano dalla folta vegetazione, un caos di bagliore e tenebra, di carne e metallo di acqua e fuoco.
Non era certo lo scenario che i presenti s’aspettavano di vedere quel Sabato Santo, e che avrebbero ricordato sicuramente per tutta la vita.
Luciano, quel mattino non avrebbe infatti immaginato di presenziare, oltre a quello strazio di membra umane, anche a qualcosa di meno truculento ma ben più raccapricciante della stessa morte, benché drammatica come quella che s’era prefigurata quella notte di Pasqua del “64. Era la morte della dignità umana che s’era abbassata ad infimi atti di sciacallaggio, stimolati dalle notizie del ritrovamento di denaro e preziosi tra le carcasse. C’è chi racconta che qualcuno avesse addirittura tagliato le dita ai cadaveri per privarli degli anelli, Luciano, allora primo appuntato, fu costretto a usare la sua pistola d’ordinanza per intimorire coloro che, neanche il rispetto per la morte, frenava nella loro bassezza.
C’è chi li maledice ancora, più che per l’ignominia apportata alla comunità, per l’abisso al quale s’era portato l’animo umano.
Le prime luci di quel giorno di Pasqua non rasserenarono l’animo di Aniello e Luciano, e Michele e Luigi, così come quello di tutti coloro che speravano di trovare un superstite in quella che sembrava essere la più grande delle tragedie per l’empatia del momento.
La boscaglia di castagni e lecci, sconvolta si apriva davanti i loro occhi, i monconi carbonizzati delle robinie, le roverelle spezzate, come le vite di quegli uomini e quelle donne, non aprivano alcuno spiraglio alla comprensione di quella tragedia, incomprensibile come fu al momento del ritrovamento del cadavere di una bambina tra le ginestre ancora fumanti, intatta, nel suo vestitino, nel suo sonno letale, stigmatizzato da quel rivolo di sangue che le colorava il ceruleo viso di bambola, Luciano si commuove ancora al ricordo di quella visione, forse ancora più angosciante perché ancora non toccata e non consunta dalla morte.
I giornali del 31 marzo svelarono le dimensioni del disastro e incominciarono a porre le prime domande.
L’aereo, proveniente da Torino Caselle, dopo uno scalo a Roma Ciampino, era diretto proprio a Napoli e portava il suo carico umano di speranze, sogni e aspettative. Molti dei passeggeri infatti si recavano nella città partenopea per trascorrere le vacanze pasquali, ma non tutti erano semplici turisti, c’erano Tom e Robert graduati della marina statunitense, ma anche Lawrence con sua moglie Fay e i loro figli Jill e Steven e molti altri che per lavoro o per seguire i propri cari trovarono la morte sul volo AZ-45.





Pasquale era il comandante ed era uomo esperto e ben conosceva la rotta, tanto da lasciare quella sera la procedura strumentale d’atterraggio (Instrumental Landing System) e virare manualmente sulla baia di Napoli per dar tempo agli aerei dell’aviazione statunitense d’atterrare. Cosa sia accaduto non ci è dato sapere, probabile l’errore umano, ma come spiegarlo? Allora non esistevano le scatole nere che solo di lì a poco saranno istallate sugli aerei, il tutto rimane quindi avvolto nel folto mistero di quella notte.
Chiacchierando con un amico toscano, durante un’escursione sul Somma, appresi che sull’Amiata, antico cratere vulcanico, è interdetta la navigazione aerea proprio a causa delle forti variazioni magnetiche dovute alla natura del terreno. È plausibile allora un’ipotesi del genere anche per quest’incidente? Che sia impazzita la strumentazione di bordo del Viscount quella sera?
Non sono un esperto e non voglio neanche paventare tesi alla Voyager ma voglio solo registrare un evento e una possibilità che spero, qualcuno più esperto di me possa acclarare. Aggiungo a queste notizie anche la testimonianza di Umberto che con gli ultimi bagliori del secondo conflitto mondiale, era al seguito degli alleati. Umberto notò strane interferenze elettromagnetiche sulle strumentazioni radio questo man mano che saliva verso il cono, passato Colle Umberto.
Altro elemento di non secondaria importanza è quello di un altro incidente aereo, precedente al disastro di Pasqua. Qui le notizie sono però più scarne poiché l’aereo in questione apparteneva alle forze aeree degli Stati Uniti d’America e se si escludono i comunicati stampa e le romanzate cronache dell’epoca anche in questo caso ci si può solo affidare ai testimoni diretti dell’avvenuto e comprovare la rischiosità, almeno statistica, del Somma di quei tempi.



Il Dakota C47 delle forze armate USA era giunto alle ore 22.02 di sabato 16 febbraio 1958 presso l’aeroporto di Capodichino, proveniente da Wiesbaden e diretto a Instanbul. Dopo aver fatto regolare scalo per il rifornimento di carburante riprendeva il suo viaggio alla volta del prossimo scalo greco. Ma alle ore 22.30, secondo il Mattino del 20 febbraio, si perdevano i contatti col bimotore e con il suo carico di 16 uomini a bordo.



In questo caso la cronaca combacia con la testimonianza del nostro Aniello, caro amico e fonte infinita di ricordi, che ci immette d’improvviso in un passato recente quando possedere un binocolo significava ancora avere un oggetto da tramandare ai propri figli e non di facile reperibilità. Mercoledì 19, uno strano luccichio che proveniva dal lato nord-est dei Cognoli aveva attratto l’attenzione di un altro Raffaele, vigile urbano di Pollena, che procuratosi l’allora raro strumento ottico era riuscito a scorgere, tra la neve che da un paio di giorni ricopriva la Montagna, il timone dell’aereo, a mo’ di banderuola sventolava mosso dal vento e rifletteva la luce solare.



Fu così che, dopo quattro giorni di inutili ricerche congiunte Italia/USA, si era finalmente trovato l’aeroplano. Inutile dire che la curiosità dei locali era tanta e tale che spinse in molti lungo le pendici del Somma. Aniello ricorda ancora che i più si sistemarono, a riverente e prudente distanza sugli speroni rocciosi dell’antica caldera per osservare le operazioni di recupero delle salme dei militari, tutti deceduti nell’impatto e descritti da un cronista di allora come i calchi di Pompei. Un’altra cosa che attrasse l’attenzione dei presenti fu il recupero di alcune strane sacche la cui visione collegata alla sproporzionata reazione dei militari che indirizzarono a scopo intimidatorio dei colpi d’arma da fuoco verso i curiosi, lasciò supporre che fosse qualcosa di prezioso o sicuramente importante.



Delle 45 vittime del Viscount tre erano bambini, cinque i membri dell’equipaggio, sei di loro non furono mai identificati, tre non furono mai trovati, probabilmente annientati dalla forte esplosione e dando adito a storie di strane scomparse che mai potranno essere spiegate se non con la fantasia. I sei corpi e i nomi dei tre dispersi dimorano probabilmente ancora al cimitero di Poggioreale e sopravvivono ormai solo nel ricordo di Aniello, Luciano, di Stefano e di quei ragazzini che, increduli e incuriositi, affrontarono l’iniziazione del contatto con la morte, che li avrebbe portati nel mondo dei grandi, della dura realtà, ma, allo steso tempo, sarebbero stati i vettori del ricordo, il vincolo che unisce ogni uomo alla storia di tutta l’umanità.

Le foto dei quotidiani dell'epoca sono state gentilmente concesse dalle emeroteche Vittorio Emanuele II e del Banco di Napoli. La medaglia da Stefano Sorrentino, bambino all'epoca dei fatti e che ricevette l'oggetto da uno zio intervenuto tra i primi sul luogo del disastro e pietoso custode dei resti dimenticati delle vittime.

domenica 19 settembre 2010

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Le foto sono di Ciro Teodonno si prega di menzionare l'autore

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