giovedì 29 settembre 2011

"POSSIBLE MISSION"

















Si ringrazia tutta l'allegra combriccola (Corinne, Armando, Claudio, Giampiero, Gaetano e naturalmente la piccola Prisca) per l'aiuto e la simpatia, così come ringrazio Gaetano Cella per le foto e Giampiero Barbato per i video.

mercoledì 28 settembre 2011

GENNARO DI PAOLA, L’ULTIMO PARTIGIANO



Con l’avvicinarsi del sessantottesimo anniversario delle Quattro Giornate di Napoli, abbiamo deciso di parlare con chi ne fu partecipe e cercare di capire se oggi valga ancora la pena commemorare quel momento di riscossa di un popolo.
Commemorare gli eventi del secondo conflitto mondiale sembra oggi inutile, sterile o quanto mai passato all’oblio eppure lo scacchiere mondiale risente ancora dell’esito di quella guerra, dove le nazioni vincitrici dirimono ancora le questioni internazionali in base agli accordi che scaturirono all’indomani di quei tragici eventi.
L’Italia, com’è risaputo, non ne uscì bene ma esiste una pagina della storia di quegl’anni che risolleva ancora con orgoglio l’immagine di un paese e soprattutto di una città complessa come Napoli, regalandocela tutt’altro che imbelle, bensì orgogliosa, e combattiva.



Oggi, in una crisi dei rifiuti, dove il capoluogo langue tra i miasmi di una quotidianità indifferente e i roghi di un’opinione nazionale mercenaria, quella che invoca la soluzione finale e univoca dell’ira vesuviana, siamo partiti alla ricerca di qualcos’altro, qualcosa di più autentico, di onestamente costruttivo e che ci riportasse allo spirito dei giorni delle Quattro Giornate; siamo andati a trovare Gennaro Di Paola, classe 1922, ferroviere in pensione, poeta e cultore della storia locale ma più noto alle cronache come ex partigiano.

Gennaro è persona mite, affabile, nei suoi occhi non si avverte alcun turbamento e nessuna remora da compromesso, ma la certezza di un messaggio da portare avanti quello della pace e della consapevolezza.

Gennaro lo abbiamo incontrato nella sua casa di Massa di Somma, un’abitazione semplice come le sue storie, che ci offre da tramandare a chi verrà dopo di noi.
Il suo sguardo fiero guarda al di là di quella stanza, va oltre, verso l’orizzonte della sua vita, verso i ricordi di quand’era bambino, di quand’era balilla. Ci mostra la sua pagella, non per i voti ma per sottolineare il fatto che, allora, per superare l’anno scolastico, bisognava ottemperare agli obblighi “paramilitari” che l’organizzazione fascista demandava; aveva solo dodici anni.

La loro vita di ragazzi scorreva, tutto sommato tranquilla, sotto l’egida del regime fascista, guidati dall’ipocrita e antitetico motto del libro e del moschetto.
Solo nel 1941 Gennaro e i suoi amici incominciarono a scontrarsi contro una realtà diversa da quella totalitaria e alla quale erano da sempre stati abituati, conobbero Radio Londra, che da bravata giovanile, in cerca di qualcosa di nuovo, immise in quei giovani il seme del dubbio, che purtroppo non riuscì in tempo a germogliare perché prossimi all’arruolamento e alla guerra. Gennaro comunque ricorda i tentativi dell’antifascismo di irridere quel regime, quello che ancor oggi non si vuol riconoscere come autoritario e menziona le irriverenti interferenze radio a disturbo delle apologetiche trasmissioni dell’EIAR e la controinformazione proveniente da Milano e dal allora URSS.

Nel ’42 fu arruolato come aviere e visse la sua guerra sul fronte interno, sotto le bombe e nei fossati a difesa degli aeroporti. «per quel che valeva la vita umana all’epoca!» Il regime seguitava nella sua assurda propaganda «Quando si avanzava erano vittorie strepitose e quando si indietreggiava sul fronte erano definite ritirate strategiche!» Ma la realtà incominciava ad essere evidente, soprattutto quando gli amici incominciarono a non tornare più dal fronte e quelli che ci riuscivano erano feriti o con la malaria, così come quelli che dopo lunghe peripezie riuscivano a tornare dal fronte russo, acclararono uno scenario ben diverso da quello che la propaganda diffondeva. «Non esistevano morti o prigionieri li consideravano tutti dispersi! Erano quelli che non scrivevano più!»

«Il mio antifascismo nasce dal 25 luglio (1943, ndr.)! – esordisce Gennaro - Con la destituzione di Mussolini e lo sbarco degli americani in Sicilia, si pensava che la guerra volgesse al termine ma non fu così. C’era gente che da 5, 6 anni mancava da casa. Dopo quaranta giorni (l’8 settembre, ndr.) ci fu l’armistizio e i tedeschi già cominciavano a vederci come traditori e incominciavano a far entrare divisioni armate in Italia, fino a Napoli. A Napoli passavano con i megafoni fuori le caserme per intimare ai militari di consegnarsi senza le armi, e noi questo aspettavamo in fin dei conti, ma poi incominciarono a fare i prepotenti, incominciarono a distruggere i servizi pubblici, a fare esecuzioni indiscriminate, a saccheggiare, a fare rastrellamenti della popolazione civile. Noi soldati eravamo sbandati, i generali a Napoli erano scomparsi.

Il giorno 12 (settembre, ndr.) ci fu un primo proclama del colonnello Schöll (comandante della piazza militare di Napoli, ndr.) dove si dichiarava la presa della città e si intimava, pena la morte, la consegna di tutte le armi. Successivamente ci “invitano” a presentarci per il lavoro obbligatorio in Germania (il 23 settembre, ndr.), quelli dalla classe del “10 a quella del “25 (fra i 18 e 33 anni, ndr.) e presentarci alla sezione municipale. Già avevamo assistito al loro lavoro di distruzione, gli ospedali erano pieni di feriti, noi militari sapevamo i tedeschi come si comportavano! Allo scadere dell’ingiunzione, all’appello si presentarono solo 150 uomini dei 30.000 calcolati in base all’iscrizione allo stato civile (molte immagini del famoso manifesto portano la cifra di 3.000 e definita da più parti un errore di stampa, se non corretto, ndr.). Abbiamo cercato di nasconderci qualche giorno, le armi le avevamo lasciate nella caserme, e poi gli antifascisti ci informavano costantemente.

Sapere poi che assieme ai tedeschi c’erano anche i fascisti per noi fu una grande delusione, come dire? Sapere che eravamo stati i grandi conquistatori e poi vedere l’inganno! E allora abbiamo cercato di difenderci! Ogni quartiere era insorto, s’erano formati dei nuclei di discussione assieme agli antifascisti ma comunque non c’eravamo presentati, e per forza! Per non essere uccisi dovemmo ricorrere alle armi.

Quello che però metto in risalto, oggi! Quella Napoli di allora … lo sai la storia di Napoli è una cosa tremenda! Negano a questa Napoli tante cose e ‘a monnezza fa storia! Ma quando pensi che trentamila di noi, ma che è successo? Nun ce stevano i telefonini come oggi, nun ce steva niente per comunicare! Nei palazzi, ci si conosceva ed era facile comunicare, ma trentamila che non si presentano davanti alla chiamata tedesca … i napoletani! Si parla sempre dei napoletani ma c’è stato del coraggio o no? Io credo che l’atto più significante fu proprio quello del 26 settembre quando nessuno si presentò, un atto, a mio avviso, più importante delle stesse Quattro Giornate. Non potevamo poi accettare quello che facevano i tedeschi alla nostra città, è lì che nasce qualche cosa, eravamo stati costruiti come dei robot ma qualcosa di nuovo fece scaturire questa reazione. Purtroppo le Quattro Giornate sono state dimenticate per molti anni.»

Quali furono le vostre azioni in quei giorni?

«Mentre noi combattevamo, gli americani si godevano lo spettacolo da Capri. Quando poi vennero la fecero da padrone con le nostre autorità consenzienti. Combattevamo all’Arenella e al Vomero. All’Arenella bloccammo via Domenico Fontana dove ci scontrammo con degli automezzi tedeschi che venivano da nord.»

E le armi dove le prendeste?

«Le armi stavano un poco dappertutto soprattutto nelle caserme dei carabinieri, i tedeschi non riuscirono a prenderle tutte. Io stesso andai alle batteria antiaerea di Sant’Elmo a recuperare otturatori e munizioni per usare i fucili. Il Vomero era circondato e noi temevamo che i tedeschi potessero avere rinforzi da nord come per esempio dalla Pigna, dove c’era la strada che arrivava a Cappella Cangiani. Sentivamo le notizie ma non eravamo contatto tra i vari gruppi di resistenza.»

E i fascisti?

«I fascisti sono una razza peggio dei nazisti! Un episodio che è capitato a me personalmente fu quello della morte di Gennaro Iannuzzi a vico Trone a Materdei. I tedeschi stavano sgomberando una fabbrica e i partigiani li attaccarono, durante lo scontro due di questi morirono e uno era Gennaro amico di famiglia. Lo portarono a casa già morto, ma non potendo stare lì decidemmo di portarlo a Sant’Efremo, tra Via Salvator Rosa e Via Imbriani, dove c’era un convento di suore e dove poteva essere inumato, era il 30 settembre, verso la fine dei combattimenti. Ad un tratto dall’altro lato, da Via Salvator Rosa incominciarono a spararci contro, erano i fascisti!
Poi quando dicono le fucilazioni! Le fucilazioni! A Porro, a Materdei, all’angolo di Via Imbriani, lo fucilarono perché, mentre lo cercavano, incominciò a sparare dal balcone. Lo presero e lo portarono giù e lo fucilarono. Quindi, quello che ci sparava contro, se lo riuscivi a prendere, che gli facevi? Ce jammo a piglià nu cafè? Ti posso solo dire che parecchi di noi rimanemmo molto scossi, a casa tua a difenderti con le armi, non è una cosa semplice. Le famiglie che ti cercavano, i ragazzini sempre dietro …»

La guerra, in seguito, è continuata per voi?

«Lavorai nel porto per gli inglesi, poi fui richiamato, nell’aprile “44, facevamo servizio aggregati agli inglesi.»
Quindi la vostra esperienza partigiana è limitata alle Quattro Giornate …
«Sì, gli americani non ci vollero più, fu così anche con i partigiani del nord, erano convinti che fossero tutti comunisti ma non era così. E c’è stata molta amarezza per questo.»

Dopo le Quattro Giornate, com’è stato il ritorno alla normalità, la classe dirigente fascista per esempio …

«La classe dirigente è rimasta tale e quale! Per cacciare il prefetto ce n’è voluto! Mi ricordo che a Napoli, verso la fine del “46, dopo le prime elezioni amministrative, cercavamo lavoro e facemmo il concorso di vigile urbano. Dopo le visite di rito andammo a colloquio presso l’assessore alla fiscalità, un certo colonnello Verde, il quale pretendeva che il corpo dei vigili fosse un corpo accasermato, armato e monarchico! Denunciammo il tutto a un giornale dell’epoca, La Voce. Così decisi di rinunciare e feci solo per un po’ la guardia giurata, persi però ogni interesse per quel ruolo. Reagimmo a questo perché tutto ci sembrava come prima, soprattutto con gli accordi tra monarchici e democristiani. In tutto questo io ero ancora scosso, incominciavo ad avere una repulsione per le armi, mi ero trovato in situazioni così forti, ti vedi arrivare nu camion e tedeschi, accumience a sparà a tirà bombe, ti trovi davanti a carri armati che difendevano le cabine elettriche, ci sono cose che … non è possibile; la nostra natura ci porta a commettere cose che non penseremmo mai di fare, però le facciamo.»

Cosa direbbe a un ragazzo di oggi, quale monito lascerebbe a un giovane, così lontano da quei fatti?

«Mi auguro che a loro non succeda mai! La nostra infanzia era accompagnata dal moschetto. Dico solo che le guerre producono solo distruzione. Chiunque va alla guerra è un povero chiamato alle armi, all’epoca mia, si scriveva sui muri largo ai giovani e di spazio ne trovarono parecchio per morire nel deserto. Quanti miei compagni di giochi non sono più tornati e penso spesso con nostalgia a come saremmo potuti essere oggi. Ragazzi dite sempre di no alle guerre!»

giovedì 22 settembre 2011

SAN SEBASTIANO. LE CONTRADDIZIONI DELLA FESTA DELLA LEGALITÀ

Un mio articolo di un anno fa, pubblicato su ilmediano.it del 24/09/2010. Ho deciso di pubblicarlo anche sul blog perché ho scoperto che lo stesso fu motivo di dibattito in un'aula liceale, la qual cosa, come giornalista e professore, non può che farmi piacere e gioirne con una punta d'orgoglio. Cliccando sul titolo si ha accesso ad un argomento affine e d'attualità in questi giorni.

Anche quest’anno a San Sebastiano, si celebreranno le giornate della legalità. L’evento si presenta sotto forma di premio nazionale dal titolo: “Per la Cultura della Legalità e per la Sicurezza dei cittadini”.


Ancora una volta nel bel comune di San Sebastiano si celebra il caro estinto della legalità che definirla figlia della speranza è a dir poco irrisorio, soprattutto nei confronti di tutti coloro che ne sentono, da tempo immemorabile, la mancanza.
Ancora una volta si faranno sfilare gli inconsapevoli studenti delle scuole locali. Si prodigheranno in evocative coreografie, che di bello hanno solo la fiduciosa e ingenua operosità dei giovani e di qualche loro insegnante ma nulla più, nulla rispetto a quello che li circonderà una volta usciti dall’artificioso contesto sansebastianese. A nulla varrà tutto ciò, quando dovranno scontrarsi contro la dura realtà di un territorio svuotato da ogni speranza di emancipazione razionale dall’illegalità.

Già in passato si è fatto notare quanto vituperio della democratica convivenza vi fosse anche in questo luogo ameno, si è anche sostenuto quanto importante fosse accompagnare i giovani in un coerente cammino di norme scritte e morali che li tutelassero e aiutassero a crescere, magari migliori di noi. Ma tutto ciò non può essere realizzato con due balletti, un convegno e qualche comparsata, ancor meno con un monumento di dubbia utilità e di opinabile qualità estetica eretto in questi giorni fuori l’edificio comunale in onore di una pace dalle radici poco profonde, qui come altrove nel mondo.

Ben meno soggettivo del nostro gusto estetico risulta essere però l’evidenza che nel piccolo paese vesuviano non sia tutto oro quel che luccica; le periferie languono, per infrastrutture e igiene urbano (mercoledì gli abitanti di viale delle Industrie, hanno dato fuoco ai cumuli di aghi di pino abbandonati da settimane in balia del vento) e il centro, celebrazioni a parte, non sembra godere di ottima salute.
Si obietterà che, se pur lentamente, a San Sebastiano al Vesuvio si effettuano lavori di ristrutturazione della viabilità pubblica e che la raccolta “porta a porta” della differenziata funziona ormai da anni.

Tutto ciò è vero e acquisisce un valore tutto suo qualora si usino a termine di paragone le ben più complesse realtà limitrofe ma ce da chiedersi se tali gentili concessioni non siano altro che l’obbligatorio impegno di un’amministrazione locale e non un’ elargizione a mo’ di favore personale. Questo comportamento risulta essere offensivo quanto la stessa inerzia di chi invece se ne frega dei propri concittadini.
Le stesse scuole da cui provengono quei giovani che accoglieranno l’ospite di turno e che contorneranno le verbose cariche locali nei loro panegirici, versano in condizioni pietose.

Cosa penseranno quei ragazzi quando, rientrati nelle loro aule fatiscenti, la porta non si chiuderà perché le maniglie non esistono, cosa penseranno quando col sopraggiungere dell’inverno saranno costretti a vestire i cappotti in classe per il riscaldamento che non funziona o per gli spifferi della finestra, rotta dall’ultimo atto vandalico e mai riparata.
Come cresceranno questi ragazzotti dalla vita facile, certo non con senso critico; quello, vista l’età, è la famiglia che te lo infonde per prima, altrimenti, il buon senso e le istituzioni civiche daranno il buon esempio quando la ragione sarà tale da captare i diritti e doveri di cittadino. Ma come potranno questi ragazzi di San Sebastiano capire dov’è il limite tra legalità e illegalità quando vivono in contesti di illegalità e di anarchia morale?

Normalmente loro stessi, nella più totale impunità, quando addirittura non li si giustifichi, imbrattano i muri cittadini con vernice spray, disegnando i simboli del consumismo, i logo delle loro marche più prestigiose o col monogramma del dollaro. Scorrazzano per le vie cittadine con i loro motorini e i loro cinquantini senza ritegno e prudenza alcuna. Strappano i libri fuori i cancelli della scuola a fine anno perché vedono in quell’istituzione una sorta d’ imposizione, un qualcosa di inutile dove sono stati costretti a restare per circa nove mesi del loro anno solare e nulla più.
Lo scorso dicembre ci interessammo di un fatto di estorsione avvenuto nella stessa cittadina vesuviana; sottolineammo come l’amministrazione comunale e le istituzioni tutte furono vicine all’esercente taglieggiato. Nonostante tutto però molte cose non tornavano, per esempio il poco clamore dato anche in ambito cittadino all’attentato incendiario perpetrato a danno del bar in questione.

Inoltre la recalcitranza da parte dei proprietari ad essere intervistati e a permettere di fotografare una parte della struttura ci lasciò alquanto perplessi. Il nostro scetticismo fu messo da parte, anche perché la buona fede dei proprietari era supportata dalla garanzia istituzionale. Qualche tempo dopo mi fu fatto notare da alcuni vicini che una parte della struttura in questione, quella che mi si sconsigliava, per questioni “estetiche”, di fotografare, era palesemente abusiva ed effettivamente la struttura prefabbricata ricorda proprio quello stile proto-abusivo così comune dalle nostre parti, quello che ti trasforma una struttura rimovibile gradualmente in abitazione, tutto sotto gli occhi di tutti.

Se confermata questa cosa, di per sé plausibile, visti i molti esempi riscontrabili sul territorio, lascia intendere la concezione di legalità vigente alle nostre latitudini, non certo priva di incongruenze e tendente a puntare il dito sul grosso reato più che sulla quotidiana illegalità. Forse è più facile additare un qualcosa che, pur essendo immensamente più grave, non ha una faccia ben precisa e tutto sommato la si sente lontana ma latente come la morte. Un po’ come il fumatore incallito che non accende le sigarette con lo zippo per non inalare i gas di benzina e nel frattempo, gradualmente, s’avvelena col tabacco. Allo stesso modo non si vuol vedere il marcio che sottostà al nostro tessuto sociale e che spiana il terreno al mortale cancro mafioso.

È comunque risaputo che criticare è molto più facile dell’agire, chi fa è soggetto a critiche come chiunque non resti con le mani in mano, e allora, in questo spirito, sarebbe opportuno proporre qualcosa di più concreto invece delle solite, anche se necessarie parole; orbene, perché non destinare allora i soldi di queste celebrazioni (totem della pace compreso?) con annesso concerto a qualcosa di più utile per la collettività? Magari fornire un’illuminazione, degna di questo nome, a qualche strada, aggiustarne qualcun'altra, aprire finalmente la stazione fotovoltaica di via Panoramica che langue ormai da anni, tutto quello che manca e ci spetterebbe di diritto.

In questo modo, non si accontenterebbero tutti i criticoni di questo mondo ma senz’altro sarebbe un buon inizio. O no?

lunedì 19 settembre 2011

Discariche sebastianesi



Vorrei chiarire brevemente i criteri utilizzati per la definizione di queste mappe (GPS>Google Earth/IGM 1/25.000).
Innanzitutto, quale residente, ho potuto marcare (con i cosiddetti waypoint) quelle discariche che, grazie alla conoscenza del territorio, ho potuto definire permanenti poiché presenti da almeno un anno. La situazione più estesa è quella relativa a via Panoramica, anche se costituita in prevalenza di materiale cartaceo (cartoni e fazzolettini). Le più complesse da smaltire sono invece quelle di Cupa Monaco Aiello e dell'Alveo Buongiovanni, con la presenza di materiale edile che, nel caso di Via Buongiovanni, stanzia lì da più anni. Caso particolare Via Mercalli dove è possibile che la discarica stia in una proprietà privata. A tal proposito non ho segnalato quelle discariche, in alcuni casi ben più consistenti, limitrofe al nostro comune ma site entro i confini di Ercolano e Cercola, come quelle evidenti in Via Monaco Aiello/Ammendola e Via Tufarelli/Madonnelle.
Questo lavoro funge anche da esempio per quello che si può fare, in maniera più estesa e collaborativa in altri comuni del Vesuviano, nonché sulla rete sentieristica vesuviana.

A seguire il link di un'elaborazione interattiva di Gaetano Cella della mia rilevazione, creata con Google Maps(per accedervi cliccate sul titolo del post)

http://maps.google.it/maps/ms?msa=0&msid=207481916151597094787.0004ad6eacdb093a5b638

domenica 18 settembre 2011

Balamo - Eleni Vitali (with Greek/Gypsy lyrics and English interpretation)

Vengo Movie - "Naci en Alamo" clip



Provo una più corretta trascrizione, visto che i sottotitoli francesi traducono "en Alamo" come se fosse "en el amor" cioè nell'amore, esito interessante ma meno filologico del greco "nais balamo" lasciatemi solo! Sembra infatti che la canzone in questione derivi da una versione moderna di un antico canto dei gitani greci e riadattata da Giorgos Katsaris e Dionisis Tsaknis dal titolo Mpalamos.

Nací en Alamo:
No tengo lugar y no tengo paisaje y aun menos tengo patria
con mis dedos hago el fuego y con mi corazón te canto las cuerdas de mi corazón lloran
nací en Alamo, nací en Alamo
no tengo lugar y no tengo paisaje y aun menos tengo patria
nací en Alamo, nací en Alamo
ay cuando canta(n) y con tus dolores, nuestras mujeres te hechizan
ay, ay ay ay, ay ay
nací en Alamo, nací en Alamo
no tengo lugar y no tengo paisaje y aun menos tengo patria

venerdì 16 settembre 2011

giovedì 15 settembre 2011

GAETA, IL FUOCO E LA POLVERE. UN LIBRO PER L’AUTUNNO



La cronaca appassionata del crepuscolo di un regno, vista con gli occhi di un’intraprendente giornalista francese. Una visione limpida e intensa della nostra storia.
L’estate sta finendo e contrariamente alla malinconica e inflazionata canzone, abbiamo intenzione di affrontare l’altrettanto stereotipato autunno caldo con spirito diverso e propositivo.
Come? Non certo col decoder, per vedere partite di calcio che per fortuna, almeno al momento, non ci saranno e non certo per assistere a quegli insulsi e catastroficamente banali film americani; bensì con uno dei più antichi metodi di narrazione, un tutt’altro che scontato buon libro.
Sì, perché, non per voler accelerare i tempi ma esiste ancora chi non si rassegna a smettere di leggere, a prescindere le stagioni, più o meno propizie alla nobile e antica pratica. Ma leggere non per passare il tempo, quello, ahinoi passa inesorabile! Ma per passarlo bene, e passarlo scandito col nostro ritmo, non quello imposto dagli spot, e magari allargarlo, arricchirlo con il filtro della nostra immaginazione senza che sia plagiato da un prezzolato palinsesto televisivo.
Vi consigliamo quindi, prima dell’esaurirsi delle celebrazioni unitarie e per meglio entrare nelle vicissitudini che fecero il nostro paese a scapito di un altro altrettanto nostro, di leggere un bel libro di affine argomento. L’autore è un nostro conterraneo d’adozione ma vesuviano a pieno titolo, l’architetto Aldo Vella.
Il romanzo: Gaeta, il fuoco e la polvere (Edizioni Il Castello - € 10,00), ci porta nelle fasi finali dell’assedio di Gaeta da parte delle forze sabaude e ci immette, con atmosfere tutt’altro che retrò, in un ambito che, se non fosse per la cronologia, risulterebbe affine, per fatti e crudezza, a uno dei tanti scenari bellici della nostra attualità. La cronaca realistica ma non truculenta va parallelamente alle sorti dei suoi personaggi, anch’essi in buona parte assimilabili a una realtà non distante dall’autore e dalla nostra di cittadini meridionali del ventunesimo secolo. Su tutti, a nostro avviso, spicca quella che definiremmo una sorta di “Madame Bovary c’est moi”, il personaggio di Silvie Fraissinet, che entra, nelle fasi cruciali che cambieranno la storia d’Italia, con la dirompente leggerezza che solo una donna può avere. La sua figura, le sue peripezie donano al lettore un piacevole contrasto con il fatale destino della città borbonica e del regno delle Due Sicilie.
Il clima del libro scorre leggero tra un’analisi storica aggiornata, che i personaggi ci offrono così come lo spaccato non meno importante della vita di quel tempo e che è anche e soprattutto radice della nostra attuale essenza.
Abbiamo immaginato questo libro come una foto a colori, magari un’istantanea di quelle muraglie, di quelle barricate, di quegli uomini e di quelle donne, un’immagine più nitida e più realistica di quelle pur se affascinanti, spiritate lastre color seppia, che ci allontanano da quegli eventi dei quali forse, ancor oggi ne viviamo le conseguenze.



Buona lettura

lunedì 12 settembre 2011

Montevergine



‘A JUTA A MONTEVERGINE
Ritorniamo sulle orme dei paranzari. Stavolta ci cimentiamo nell’ascensione del Partenio, in devozione a un’altra Mamma Schiavona, la Madonna di Montevergine.
L’intenzione è quella di sempre, quella di riscoprire le nostre radici ma anche le antiche vie di pellegrinaggio, quelle che spesso, per il mutevole corso degli eventi, passano da fenomeno di massa a sbiadito ricordo, se non addirittura all’oblio più completo.
La passione per il camminare e il rispetto per la spiritualità, che tutto sommato è presente in ognuno di noi, mi ha permesso ancora una volta di entrare facilmente in sintonia con chi condivide le vicissitudini di un pellegrinaggio che se non è un cammino di fede lo è senz’altro di conoscenza e d’amicizia.



Mi sono spesso chiesto se la devozione di Montevergine esistesse ancora e se avesse ancora i fasti di un tempo, dove erano proverbiali lo sfoggio e la platealità dei carri e degli abiti migliori; o perlomeno se avesse il seguito che tutt’oggi si riscontra ai piedi del Somma o se addirittura fosse paragonabile a quella di Pompei. L’unica cosa da fare per capire era quella di farsi pellegrino e andare alla Juta a Montevergine!
La mia ascensione non ha avuto il solidale appoggio logistico ricevuto a Somma per il Sabato dei fuochi, ne è mancato il tempo, ma tutto sommato si è fatto lo stesso amicizia, come accade sempre quando si segue una strada comune e questo a prescindere le motivazioni con le quali ognuno intraprende questo tipo di itinerario.



La sveglia, ancora una volta è da levataccia, 4.00 del mattino, per partire da casa alle 5.00, alla volta di Ospedaletto d’Alpinolo, dove, secondo programma, partirà la processione alla volta del Partenio, alle 5.30, orario che ovviamente, nella più partenopea delle prassi non sarà rispettato da nessuno, me compreso. Parcheggiata l’auto in Piazza Demanio, sotto la fontana del tritone, fatta una sosta “tecnica” al bar di Luciano omone gentile, si parte seguendo le indicazioni dei primi devoti festaioli che incontro.



La strada si inerpica nel buio e ben presto lascia il tranquillo centro abitato di Ospedaletto e diviene un sentiero, lastricato di bianco calcare. Dopo un primo disappunto di solitudine incontro i primi gruppi, con i quali s’incomincia a socializzare presso la cosiddetta Seggia da Maronna, dove tutti hanno misurato il loro fondoschiena nell’incavo della roccia, che leggenda vuole abbia accolto il riposo e le fattezze della Vergine, più probabilmente dovuto al fluire delle acque nei tempi passati; poco prima si erano intravisti i ruderi della Cappella degli Scalzati, dove anticamente, gli audaci pellegrini si liberavano delle scarpe e proseguivano a piedi nudi fino alla vetta.



Il sodalizio avviene con un gruppo di Chiusano, che era partito la sera prima e aveva ormai percorso già una quarantina di chilometri prima d’incontrarmi. L’evidente stanchezza è mascherata dagli uomini del gruppo che con battute e scherzi d’ogni tipo, distraggono i più stanchi della comitiva, in attesa dell’ascesa finale. In questo contesto vengo tirato dentro anch’io, che capendo, sto al gioco e decido di rallentare il passo e accompagnarmi a loro. La salita diventa più irta ma col sorgere del sole si dipana un panorama meraviglioso, di quelli che, senza timore d’aggettivazione, ti fanno sentire altrove, in un luogo più bello, migliore. Dalle nuvole basse spuntano le nostre verdi colline e più in là, il paesaggio è incoronato dal Terminio, dal Faito e fluttuante nell’aria, come non mai sorretto dalle nuvole, il mio Vesuvio.



Per un momento passa la fatica ma è meglio ripartire anche perché c’è chi incomincia a soffrire per la stanchezza; due ragazzi che aprono il gruppo attaccano la salita al suono di un mp3 del loro telefonino, è la Montemaranese e i due caporaballo, a passo di danza, ci guidano con sincrono movimento verso la vetta.



Il sentiero incrocia più volte la strada carrozzabile e le prime auto di devoti. Dopo un’ora circa dalla mia partenza, s’intravvede il campanile dell’Abazia. Il rintocco delle campane della prima messa del giorno ci accoglie, siamo tra i primi ad arrivare, in realtà non molti, neanche una cinquantina, compreso un gruppo di fricchettoni che ha dormito lì tutta la notte (e lo farà anche per buona parte della mattinata) sotto i porticati del cortile interno ed esterno della struttura monastica.



Il gruppo di devoti si disfà, ognuno intento alle sue necessità corporali e spirituali, mentre io, mi ritrovo estatico (per la fatica!) a girovagare per gli ambienti della chiesa e, all’improvviso, mi ritrovo nella navata laterale, mi accorgo che c’è la messa, mi metto un po’ in disparte, dietro l’ultima fila dei banchi, mi sento estraneo ma sereno e ammiro la grande pala dorata della Mamma Schiavona.



Uscendo dalla porta principale vengo accolto dal canto a fronna ‘e limone e dal suono della tammorra, il tempo di volgere lo sguardo alla mia sinistra e in controluce l’immagine pagana di figure danzanti al ritmo incessante delle percussioni mi avvolge. Un che di antico e naturale e bello come le voci che provengono dalla Scala Santa, quelle di un gruppo di devote che intonano, con la scansione dei gradoni, una litania che sa d’arcaico e solenne.



Poco prima nell’entrare nell’edificio sacro avevo notato un ragazzo, dagli abiti che definirei alternativi e dai piedi scalzi che montava quelle scale in ginocchio e soffermandosi con la fronte su ognuno di quei duri pezzi di calcare, pregava intimamente, un’immagine così pura da bastare, per il suo carico emotivo e colmare le ragioni della mia ascensione e della mia ricerca dell’autentico. Quell’autentico che scoprirò poi in quegli hippies partenopei dai piedi scalzi, proprio come i fedeli di un tempo, quelle anime affamate di risposte e di emozioni, immerse nel loro panteismo da ventunesimo secolo, mescolati a volti d’altri tempi; Marie caravaggesche, uomini deformi usciti dai quadri di Velazquez e Ribera, abati Giordaneschi, busti virili d’età repubblicana ma anche suonatori ambulanti, fuoriusciti da un mosaico pompeiano e un uomo azzurro di Picasso.



Verso le 10.00 decido di ritornare a valle, ebbro di tanta emozione e lo rifaccio per la strada dell’andata. Solo una coppia di fidanzatini sfida il caldo incipiente di quest’estate settembrina e sale verso Montevergine, nessuno più incontrerò sul mio cammino.



In uno degli ultimi tornanti vengo attratto da una musica, è il canto tipico d’invocazione alla Madonna, s’accende una speranza. “Una processione! … Ma con questo sole?” E in effetti è una Panda bardata a festa, con altoparlanti e l’effigie della Vergine sul tetto e i volant bianchi che svolazzano. Una fila interminabile di moto e motorini la segue, una con il suono di una sirena guidata da un ragazzone obeso; stordito seguo le macchie scure che rapidamente mi passano davanti, smuovendo la ferma aria di quella soleggiata mattinata, una coppia di centauri si ferma, il ragazzo, a mo’ di sfottò, mi rivolge la parola: “addò ce ne jammo camminanno cumpà?” Li guardo con serena intensità e poi mi volto, seguo il mio cammino verso casa e penso quanto distanti eravamo in quel momento.











La mia riconoscenza a tutti coloro, giovani e vecchi, consapevoli e non, che portano avanti le tradizioni della nostra terra. A tutti coloro che non temono di mostrare la propria fede, a tutti quelli che vorrebbero qualcosa di più vero.

Variazioni sul tema











mercoledì 7 settembre 2011

sabato 3 settembre 2011