venerdì 22 gennaio 2010

Il Camino Di Ciro Estate 2008

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giovedì 14 gennaio 2010

L'abito dell'ipocrisia


"Todas las gentes lo vieron desnudo y, como sabían que el que no viera la tela era por no ser hijo de su padre, creyendo cada uno que, aunque él no la veía, los demás sí, por miedo a perder la honra, permanecieron callados y ninguno se atrevió a descubrir aquel secreto. Pero un negro, palafrenero del rey, que no tenía honra que perder, se acercó al rey y le dijo: «Señor, a mí me da lo mismo que me tengáis por hijo de mi padre o de otro cualquiera, y por eso os digo que o yo soy ciego, o vais desnudo».

»El rey comenzó a insultarlo, diciendo que, como él no era hijo de su padre, no podía ver la tela.

»Al decir esto el negro, otro que lo oyó dijo lo mismo, y así lo fueron diciendo hasta que el rey y todos los demás perdieron el miedo a reconocer que era la verdad; y así comprendieron el engaño que los pícaros les habían hecho. Y cuando fueron a buscarlos, no los encontraron, pues se habían ido con lo que habían estafado al rey gracias a este engaño."

Dal Libro del Conde de Lucanor, di Don Juan Manuel (1335), frammento del EXEMPLO XXXIL, versione in castigliano contemporaneo.

Ho usato quest'esempio, che risale alle reminiscenze dei miei studi universitari perché mi è sembrato calzante alla situazione di Rosarno, ma anche a quella di Casal di Principe o in altri luoghi dove ancora vige una mafiosita talmente radicata da sembrare naturale.
Come gli africani della storia (diretta antecedente delle versioni dei fratelli Grimm) così i nuovi schiavi del nostro benessere sollevano il velo della nostra ipocrisia e reagiscono contro lo sfruttamento mafioso e quello borghese.
A me sembra che la gente li attacchi non solo perchè sono i più deboli, così come hanno fatto con i Rom, ma anche perché, gli extracomunitari, ribellandosi, hanno messo in luce la nostra vigliaccheria e la nostra accondiscendente partecipazione ad uno scempio che non sempre ci vede vittime ignare e innocenti. Ma come dimostrano gli antichi la storia è vecchia quanto il mondo.

martedì 12 gennaio 2010

Ricerca



Uno degli andanti di questi ultimi tempi è quello della fuga dei cervelli all’estero. Spesso, le cronache e i rari approfondimenti degli organi di informazione, segnalano il successo di un qualche nostro connazionale oltre oceano, così come talvolta, con mal celato vanto, si enfatizza l’apporto dato dai nostri compatrioti a qualche scoperta di rilievo internazionale.
Il messaggio sottinteso che trapela è però quello dell’inadeguatezza del mondo accademico, che lascia andare via le nostre menti migliori, e frustra le aspirazioni di chi invece, stoicamente, decide di restare in madre patria.
Il retroscena della storia è spesso tenuto in secondo piano, dietro un paravento di ipocrisia, quasi che gli allori conseguiti all’estero abbiano il potere di lenire i mali del nostro mondo universitario. Le vicissitudini del ricercatore, che in Italia come all’estero affronta un cammino non certamente facile, vengono spesso attribuite a un radicato nepotismo e al clientelismo, che se pur reale, non giustifica completamente lo sfascio della ricerca, in un paese dalle grandi aspirazioni, quale vorrebbe essere il nostro.
Quello che quasi sempre non vien fuori, nonostante le fiacche e ipocrite polemiche, è l’esiguità dei fondi stanziati per la ricerca, che accomunata nella mala sorte al resto del mondo dell’italica istruzione, la relegano al tredicesimo posto per investimenti nell’Unione Europea (dati Eurostat 2008 aggiornati al 21/12/2009). Nell’Europa a 15 il PIL investito in Italia per la ricerca è stato dell’1,18% contro una media europea sempre sui 15 paesi del 1,99%, l’1,9% sui 27 paesi e ancora l’1,87% dell’area Euro. Il divario si allarga notevolmente se si volge lo sguardo verso Giappone e USA che rispettivamente investono nella ricerca il 3,44 e il 2,62% del loro prodotto interno lordo. E che dire poi della Finlandia, additata in questi ultimi tempi ad esempio per vivacità e organizzazione scolastica! Basta citare il suo 3,72%.
Se poi confrontiamo queste percentuali con quelle degli stanziamenti preposti per la difesa (fonte SIPRI, Stockholm International Peace Research Institute, i dati relativi al 2007) assestano il PIL italiano investito in armamenti all’1,8% e la spesa relativa del 2008 pari a 27,708 milioni di euro. Capiamo dunque quanto bassa sia la concezione del nostro paese per la ricerca e dell’istruzione. Questo in un paese che sulla carta “ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”(art.11 della Costituzione Italiana).