giovedì 30 giugno 2011


Chi si contenta gode ma quanto è difficile!

domenica 26 giugno 2011

mercoledì 22 giugno 2011

'A 75



Givinò! Givinottoo! Ciovaanee! Pass’accà ‘a sittantacinche? Così, con bonaria insistenza, mi riporta alla realtà una vecchiarella che mi proietta di nuovo nel caos assordante di Piazza Garibaldi. È strano constatare che quando si è assorti nei propri pensieri si riesca ad isolarsi dal mondo, anche in quello chiassoso ed eterogeneo di una piazza napoletana.
Nei dieci anni di frequentazioni universitarie ho imparato a conoscere e riconoscere ogni sampietrino di quei luoghi, ogni spazio vuoto, ogni macchia d’asfalto che delineava la mia linea di calpestio da Piazza Garibaldi lungo tutto il Rettifilo, fino all’angolo con via Mezzocannone e oltre, in quel microcosmo di vicoli che segna l’essenza della mia città.
“Givinò ma state rummenno? – Signo’! E che è? Sì, passa accà o purmanno! – Sì ho capito, ma voi non vi alterate, io volevo solo sapero si, ‘a settantacinque, si ferma qua! – Sissignora, se avete pazienza e se siamo fortunati sta arrivanno.” Ormai sono tre quarti d’ora che aspetto il pullman che mi porterà verso casa e calcolato il traffico siamo lì, lì per vederlo spuntare, dietro la Statua dell’eroe dei due mondi; alta, sbiancata e verdognola per l’ossidazione del bronzo che impettita ci guarda dall’alto, con sguardo fiero e pensieroso.
“Obbiglioco sta arrivanno!” Non l’avessi mai detto! La vecchiarella, che pareva camminasse a stento, si prodiga ora in uno scatto da centometrista e con delicatezza da panzer irrompe nel bus, tramortendo con i colpi bassi delle sue ricolme buste di plastica i rivali del posto a sedere, che parimenti partono all’assalto dell’agognato mezzo. Inutile dire, che tutti salgono da dove gli pare, la maggior parte dalla porta centrale e da quella posteriore, anche perché, anche se non gliene frega niente, è sempre meglio non far vedere al conduttore che il biglietto non ce l’hai.
“Capoo! Nu poco a porta, ‘a signora ha lassato ‘e buste afora, ‘nmiezze ‘e porte!” La fauna, all’interno, è eterogenea, il 175, o meglio la sua linea, parte da Pollena Trocchia e arriva tutt’oggi fino a Napoli, passando per Massa, San Sebastiano e San Giorgio, serve a chi deve andare a svolgere commissioni in città o vi si reca a studiare come facevo io tra gli anni ottanta e novanta del secolo scorso. Buona parte dei passeggeri era composta da persone anziane, che non avendo o non potendo condurre un’autovettura si affidavano a quel precario mezzo pubblico, che allora apparteneva all’azienda pubblica dell’ATAN. Tra i pendolari c’erano anche molti studenti delle superiori che per lo più salivano a San Giorgio, per tornare a casa, più a monte, erano i più fastidiosi perché con gli zainetti Invicta, che regolarmente portavano in spalla, intasavano il già congestionato ambiente dell’automezzo. Quasi sempre si mettevano davanti all’uscita e non si spostavano neanche per farti passare, perché troppo impegnati in estemporanee “posteggie” alle loro coetanee “filoniste”.
Ah! Che bello quando c’era il bigliettaio, personaggio d’altri tempi! Un uomo tra il vigile e l’arbitro di calcio che dirimeva le più disparate questioni di trasporto urbano, come quelle del posto a sedere, o redarguiva chi faceva finta di aver dimenticato la sigaretta accesa tra le labbra e deliberatamente appestava il mezzo. Oppure “cazziava” chi dichiarava il possesso di un abbonamento mai avuto o un biglietto singolo promosso a perenne passaggio per le pubbliche vie. Ricordo una volta un vecchietto che fino a pochi minuti prima s’era lamentato del governo ladro, fu beccato in pieno da un controllo, al quale il bigliettaio cedeva inesorabilmente il comando. In un primo momento di sbigottimento, lo spaesato nonnino passò a fare lo gnorri, per poi esporre al cospetto di quei più che impassibili, annoiati caronti, la tessera del partito comunista regolarmente scaduta, quella della CGIL e il codice fiscale.
Di capo me ne ricordo uno epico! Con tanto di divisa e berretto d’ordinanza e dalla ferrea fede marxista, col quale si discorreva del più, del meno e di politica, per ingannare l’attesa, quando il traffico irrimediabilmente ci bloccava sullo svincolo Porto/Ferrovia dell’A1, in entrata in città, là dove un’atavica “cazzimma” creava tre corsie in una. Spesso, l’uomo dal simpatico baffetto e dalla barba incolta, non mi faceva neanche pagare il biglietto, per simpatia, per riconoscenza dell’attenzione che gli davo, un bollino di carta giallognola che stappava dal blocchetto serrato da due morsetti e che valeva il prezzo dell’amicizia.
Lo rividi molti anni dopo, quando il 175 da tempo non aveva più il bigliettaio e le casse dell’attuale ANM gravitavano attorno alle sorti del consorzio Unico e sulla solerzia dei controllori, ora infami e implacabili più che mai. Lui, incanutito dagli anni, mi riconobbe a stento o fece solo finta di riconoscermi, nel breve tragitto nell’ascensore del parcheggio Brin, dove ora staziona il 175, ma fa lo stesso, la vita va avanti stanca e inesorabile come il tragitto di un bus di linea.
Il bello di quei pullman, e solo quello, era che nelle interminabili attese si socializzava in una maniera incredibile. Si attaccava bottone anche con la più recalcitrante delle ragazze, il tempo doveva pur passare? Si scoprivano interessi comuni, amicizie affini e parentele di terzo grado, in poche parole “s’asceva a parienti”. C’era chi si isolava col suo walkman ma altri organizzavano partite di calcetto per la sera stessa o si studiava, avvantaggiandosi il lavoro per casa. A quei tempi il telefonino non s’era ancora imposto come genere di largo consumo e quindi nessuno ingannava il tempo in altro modo fuorché con la chiacchiera, tranne il cavaliere solitario delle cuffiette, che ascoltava, con aria seria e compunta, chissà quale brano, “e comme sa pensava! Ma che se senteva ‘e Credence!?”
C’era l’abitudine poi di raggiungere il pullman in mezzo alla piazza, quando faceva ancora lì il suo stazionamento, in modo da accaparrarsi i sedici posti a sedere del FIAT Iveco arancione allestito Menarini e vedere la faccia di chi, alla prima fermata, se li trovava là tutti seduti e gaudenti. C’era però un inconveniente, quel contesto diventava anche l’ambito palcoscenico di tutta quella corte dei miracoli che risultava essere quella piazza; ti toccava così subire gli assalti dei Rom che ti elemosinavano qualcosa, con la loro collezione di santini. Era poi il momento dei tossicodipendenti, che ti vendevano accendini, fazzoletti e buste per gli alimenti ma c’erano anche venditori ambulanti di pelacarote ed ex carcerati che in un modo o nell’altro t’appioppavano paia di calzini spaiati.
Quando il traffico era tale che le auto spegnevano i motori, di quelli causati dalla concomitanza delle feste natalizie e magari coadiuvati dalla mensile manifestazione dei Disoccupati Organizzati e di qualche lavoro in corso, allora dicevo, le strade erano due: o la Circumvesuviana o gli abusivi.
La Vesuviana, com’era più comodo chiamarla, è una ferrovia secondaria che ha il suo terminale là dove giungeva la Napoli-Portici, la prima linea ferroviaria italiana e che mi avrebbe portato più lontano da casa del 175, anche se più vicino di dov’ero, lì, nella bolgia infernale di Piazza Garibaldi ma rimaneva sempre la mia estrema ratio e quasi sempre optavo per gli abusivi, tutto sommato un ambiente più simpatico e meno insulso di quel treno fatto di impiegati saccenti e signore sangiorgesi in vena di shopping.
Gli abusivi erano i pulmini, i “purmandini”, Ford Transit primo modello color ruggine, nel senso che non avevano più vernice o spesso minuscoli FIAT 850, ai quali, tutti insieme appassionatamente, letteralmente abbracciati, con i pro e i contro della situazione, si ricorreva quando l’attesa del mezzo ufficiale sembrava ormai vana.
In verità, conoscendo l’atavico ritardo della mobilità pubblica partenopea, questi liberi impresari di se stessi spesso anticipavano il bus di linea e con strade alternative e con accondiscendenti fermate, allettavano l’utenza. I prezzi erano di poco più bassi del biglietto dell’ATÀN e con urla più da fruttivendolo che da autista (mestieri che spesso e stranamente coincidevano) richiamavano a se i deambulanti clienti. “‘A Volla, ‘O Riooone! ‘O Rione INCÌS, San Gioggiooo! San Gio’! Jamma ca ce ne jammo! Tanto o purmanno nun passa!”

Di Ciro Teodonno http://www.lospeaker.it/il-racconto-a-sittantacinche/

Kate Winslet - El Cuarto De Tula - Romance & Cigarettes

Napoli: Eruzione del Vesuvio (1944)

Eruption Of Mt Vesuvius 1944

Eruzione vesuvio 1944

giovedì 16 giugno 2011

venerdì 10 giugno 2011

NON SONO IO RAZZISTA, SONO LORO CHE SONO ZINGARI!

Una riflessione su quanto l’incertezza ci accomuni tutti in una psicosi di massa, dove il senso critico e il comune buon senso latitano in favore del pregiudizio.

Mai come in questi tempi si impongono nel nostro contesto sociale stereotipi e luoghi comuni e mai come oggi si diffondono in maniera tanto rapida e purtroppo credibile. Il vettore telematico, internet su tutti, è acquisito, soprattutto presso i giovani come una sorta di verbo. Quante volte ci saremmo sentiti dire, l’ho trovato su internet, stava scritto su Wikipedia e così via, un po’ come una volta si affermava acriticamente, l’ha detto la televisione.

Ad ogni modo, di questi tempi, non avrei mai pensato di dover constatare quanto luogo comune aleggi tra la nostra società che, nonostante l’avanzare della tecnologia, persevera nel portare avanti certi pregiudizi.

L’esempio dei rom calza a pennello. I rom, quelli che ci ostiniamo a chiamare, con mal celato disprezzo ancora zingari, è per me il più eclatante e lo è, non solo per il fatto che si attribuiscono a questa etnia caratteristiche e colpe peculiari (perché, per fortuna, pregi e difetti non lo sono per nessuno) ma anche perché, loro, ultimi tra gli ultimi, mettono in luce un annullamento del raziocinio e del senso critico più forte che in ogni altro contesto.

Inizierei con un esempio recente, ma che, a suo modo, contiene molto dell’antico pregiudizio verso i nomadi, ovvero il fatto che essi rubino soltanto. Risulta chiaro che essendo esseri umani e quindi anche loro soggetti a sbagliare, esisteranno ladri anche tra rom ma sembra assurdo che, ogni qual volta si parli di furti in casa, rapimenti reali o presunti che siano e scomparse di minori, si pensi sempre, solo e in primo luogo a loro; spesso poi confondendoli con diverse etnie e spesso avallando storie poco credibili e che magari coprono malefatte altrui e più genuinamente nostrane.

Da giorni, nel Vesuviano circolano nuovamente delle fotocopie con dei segni riconducibili, secondo la didascalia, a un “codice segreto degli zingari”, e che questi ultimi userebbero per segnalare le case più o meno “visitabili” dai loro compagni malfattori e zigani. È evidente che tale codice, se così diffuso sarà tutt’altro che segreto (sono almeno una decina d’anni che, a più riprese, circola attraverso internet in una sorta di catena di Sant’Antonio ma ne esistono esempi anteriori e in altri paesi europei). Oltre tutto, che beneficio otterrebbero i nostri vicini rom a mettersi in evidenza, in un contesto che li vede già nell’occhio del ciclone e additati come maggiori sospettati? Ma ripeto, in questo contesto la ragione c’entra ben poco, perché prevale la granitica certezza del pregiudizio che sorregge la fragile impalcatura della nostra coscienza e soprattutto ci accomuna nella nostra incertezza rispetto a un’attualità tutt’altro che consolatoria.

In questo contesto poi si aggiungono programmi televisivi come le Iene, che oggi hanno maggiore valenza della forza pubblica e delle istituzioni e, mi ripeto, della stessa ragione.

C’è poi chi vuole a tutti i costi vedere qualcosa e non si dà pace, non si rassegna al fatto che, come le cinture di sicurezza stampate sulle magliette a Napoli (per saperne di più http://www.ciaravolo.it/maglietta.html), così i codici degli zingari non sono altro che una leggenda metropolitana; certificata! Ecco così che, come chi vuole a tutti i costi vedere Padre Pio o il Volto Santo in una macchia d’umidità sul soffitto, c’è chi vede, allo stesso modo, croci e simboli, tanto elementari che chiunque potrebbe averli segnati e per i più svariati scopi e casualità.

Ma tanto è inutile, è come quando volevi spiegare che la spazzatura a Napoli (e l’accostamento non è casuale, visti i luoghi comuni che ci vedono relegati in una classifica lievemente al di sopra di nomadi e cinesi) c’era, anche quando Berlusconi diceva il contrario, era troppo bello poterlo credere e così vale per i rom; è sembrato bello avere a disposizione qualcuno più disgraziato di te, da additare per le storture del mondo. Per molti è gratificante trovare un capro espiatorio con cui prendersela, tanto loro, i rom, sono talmente distanti dalla nostra cultura, da ogni apparato socio-politico, che quasi nessuno spenderà forze e parole in loro difesa, senza essere tacciato di illuso, buonista o quanto peggio. Del resto, l’ultima campagna elettorale non è certo andata più di tanto lontano da simili concetti.

Come mia abitudine cerco di sondare le opinioni di chi mi è attorno parlandogli delle mie perplessità, e c’è chi mi garantisce di averli visti quei segni, chi ne ha sentito parlare da fonte certissima e chi mi guarda con sospetto e sufficienza.
Non pago di ciò, decido di recarmi presso la forza pubblica. Mi reco al commissariato di polizia più vicino, dove, con grande stupore, noto, attaccata ad un muro una fotocopia del codice degli zingari. Chiedo spiegazione a chi mi accoglie e mi si dice che a loro non risultano segnalazioni a riguardo e nessuno dei furti di questi ultimi tempi ha avuto correlazioni col fantomatico codice. “E la fotocopia?” – “l’avranno messa lì per eventuali riscontri!”. Vabbè! Mi consigliano di rivolgermi ai più informati carabinieri.

Così faccio, i militari mi confermano che nessuno dei furti avvenuti di recente è collegato a segni o simboli di chicchessia o qualsivoglia natura, anzi, mi dicono che per loro è tutta una bufala e che la gente facilmente si lascia suggestionare, diffondendo così storie, come quella dell’uso del gas soporifero, senza alcun riscontro oggettivo. Del resto risulta difficile ammettere che, mentre ti svaligiavano casa, te la dormivi placidamente.

Allego a compendio del post questa e-mail di G.

Caro Ciro,
poco fa ho letto un articolo sul fantomatico "codice", stavolta apparso a Palermo.
Ne ho scritto una riflessione sul mio GooglePlus, che però tengo a farti leggere.
Buona serata.
G.


Giornalismo qualunquista, superficiale e razzista.
Romina Marceca, della redazione palermitana di "Repubblica", ieri ha scritto un articolo [QUI] su una delle bufale più diffuse e inarrestabili che circola nel nostro Paese, quella di un presunto "codice segreto" (segreto per chi, ormai?) che verrebbe usato dai ladri (ovvero: rom, zingari, nomadi) "per depredare gli appartamenti". Si tratterebbe di un elenco di simboli che i malfattori inciderebbero sui portoni degli appartamenti, ma dei quali non s'è mai vista nemmeno una fotografia. Già questo basterebbe per suggerire molta cautela, ma invece l'articolista è piena di certezze e si lancia andare ad una serie di affermazioni di cui sarebbe interessante vedere le prove. Il pezzo è una sequenza imbarazzante (e irritante) di stereotipi e pregiudizi, di cui è semplice riconoscere alcuni elementi ricorrenti:

è in corso un'ondata di furti ("È allarme in città per i furti in appartamenti da parte delle zingare nel salotto della città"): la storia del fantomatico "codice" riemerge sempre in concomitanza con un presunto acuirsi dei crimini; questo è un fenomeno ciclico che ha a che fare più con una percezione generale di crisi che con dati e percentuali concrete;

i ladri sono gli "altri" (i marginali, ovviamente, cioè rom, stranieri, donne, per il cui sospetto non serve alcuna prova: "I militari, proprio due giorni fa, hanno arrestato due croate di 22 e 24 anni. Stavano tentando di aprire la porta di casa di un anziano in via Emerico Amari");

i ladri, anzi le ladre, sono particolarmente intelligenti, delle vere e proprie "criminal minds":

fanno leva sulla nostra benevolenza ("Ma perché in azione entrano sempre più spesso le nomadi, soprattutto incinte? È una scelta tattica. In carcere restano appena 24 ore per le loro condizioni di donne gravide e destano meno sospetti degli uomini, anche perché si portano dietro i bambini")

e sulla nostra impreparazione (usano un codice "segreto", appunto: "È il codice utilizzato dalle ladre rom per derubare gli appartamenti. Prima dei raid le nomadi incidono sulle porte e i citofoni alcuni simboli fatti di cerchi, linee e lettere. E da qualche giorno utilizzano anche il mercurocromo per rendere indelebile il loro passaggio"),

inoltre vestono in maniera strategica ("Hanno gonne lunghissime sotto le quali nascondono di tutto: dai bottini agli arnesi per entrare nelle case, fino ai loro bambini che mandano all'assalto per poi proteggerli durante la fuga")

e sono dotate di caparbietà e acume ("Sono abilissime e veloci. E soprattutto non si perdono d'animo. Riescono a restare per ore davanti a un palazzo per riuscire a carpire quanto più possono sugli inquilini"; per loro le porte blindate non hanno segreti: "Utilizzano le bottiglie di plastica, ad esempio quelle degli shampoo: le tagliano a metà, le appiattiscono e le inseriscono a mo' di scheda tra l'alloggio del chiavistello e lo stipite della porta"; addirittura "Le rom non temerebbero nemmeno i cani, che vengono narcotizzati durante i colpi");

chi racconta questi fatti è sempre certo della loro autenticità, ma (quasi) mai ne è testimone oculare ("I miei vicini di casa hanno visto due zingare che segnavano la mia porta di casa mentre io ero dentro da sola e la mia famiglia era fuori. Hanno segnato anche altre due portee qualche citofono. Abbiamo avvisato i carabinieri che ci hanno detto di stare attentissimi perché lo fanno quando hanno intenzione di entrare in casa").

Qualche mese fa l'ondata di furti da parte dei rom mieteva vittime nell'area est della conurbazione napoletana. Anche allora si parlò del "codice" dei rom (esattamente lo stesso di questo palermitano). Ciro Teodonno su "Il mediano" ne scrisse un pezzo molto diverso da quello di Romina Marceca, intitolandolo opportunamente "Non sono io razzista, sono loro che sono zingari!" [QUI]. Oltre a raccontare le dinamiche del pregiudizio, Teodonno si è correttamente impegnato a controllare le sue fonti recandosi dai carabinieri: "i militari confermano che nessuno dei furti avvenuti di recente è collegato a segni o simboli di chicchessia o qualsivoglia natura, anzi, dicono che per loro è tutta una bufala e che la gente facilmente si lascia suggestionare, diffondendo così storie, come quella dell’uso del gas soporifero, senza alcun riscontro oggettivo".
Concludo evidenziando che sia nel caso napoletano (in particolare di San Sebastiano al Vesuvio), sia in quello palermitano, il "codice" (e tutto ciò che porta con sé) è emerso in concomitanza con le elezioni amministrative locali.

mercoledì 8 giugno 2011

lunedì 6 giugno 2011

sabato 4 giugno 2011

venerdì 3 giugno 2011