mercoledì 30 giugno 2010

Lettera a Don


Caro Don, il fatto dell’avere dignità solo se si lavora non sta né in cielo né in terra, detto poi da un uomo di chiesa mi lascia senza parole; quando poi si menziona un laicismo fondamentalista da un pulpito che, per quanto aperto ed ecumenico possa esser diventato, s’affida ancora a dogmi e misteri, l’affermazione sembra alquanto irrisoria. L’uomo non è forse unico per la sua essenza divina e per tale degno d’esistere? O Dio fa differenza tra chi lavora e chi no?
Sì, il lavoro, il lavoro, sempre la solita retorica, dietro la quale ci si nasconde pur di non pronunciare le scomode parole di sfruttamento, morte e imbrutimento. Sarà che dall’Eden c’hanno cacciato imponendoci di guadagnarci da vivere col frutto del sudore della nostra fronte ma non voglio vivere per lavorare.
Sono abbastanza realista, conosco la situazione locale e per fortuna, anche se precariamente, lavoro ma allo stesso tempo non posso certo affermare ch’io sia il mio lavoro, io sono, esisto in quanto persona non in quanto lavoratore caro Don. Non si può relegare il complesso concetto di uomo nello stretto ambito professionale e questo né per un laico, né per un credente.
Non si può permettere che le fluttuanti leggi del mercato e soprattutto chi vi sta dietro, cancellino anni di lotte sindacali. Senza parlare poi del valore aggiunto che può dare la consapevolezza di quel che si è e di quel che si fa alla qualità del prodotto lavorativo; la passione per il proprio mestiere, come potrebbe scaturire questa senza la comprensione del fatto che non si è dei semplici tasselli ma unità di un tutto? In vero lei giudica indispensabile la dignità ma, secondo me, lo fa in maniera poco netta, lasciando ampio spazio al pregiudizio del dover sottostare a qualcosa o a qualcuno, sacrificando proprio quel che è più importante per noi, l’imprescindibilità del libero arbitrio.
Lei potrebbe aggiungere che in mancanza dello stabilimento l’alternativa risulterebbe quella malaugurata della camorra, pur se realistica non è questa la strada da seguire perché altrimenti la contingenza potrebbe giustificare tutto e tutti. E, quel rispetto e amor proprio di cui sopra, non possono essere che l’argine maggiore a tutte quelle aberrazioni che potrebbero scaturire dalle difficoltà economiche.
In questi giorni s’è letto è sentito molto su Pomigliano e la FIAT, soprattutto c’è stata una campagna denigratoria verso quella che una volta veniva chiamata classe operaia, questo quando si era ancora orgogliosi d’accompagnare al mezzo di sussistenza anche quel valore morale chiamato appunto dignità. C’è stata una campagna diffamatoria che ha apostrofato i dipendenti di Pomigliano quali fannulloni, drogati e assenteisti, cercando di attuare, a mo’ di mafia, la logica della terra bruciata, applicando il solito luogo comune che dovrebbe render lecita, agli occhi di chi vive solo di televisione o delle frasi fatte la monocultura imperante, la giusta e ineluttabile punizione. In questo scenario s’inseriscono le sue parole che lasciano purtroppo ampio spazio a un’interpretazione arrendevole della questione.
Lei, Don, s’accompagna col professore d’economia che s’esprime con la sua scienza, alla quale sottostò per poca cognizione ma anche per voluta ignoranza e questo sarà anche un mio limite, ma che vien fuori proprio dalla mia scarsa volontà di volermi vedere inquadrato, irreggimentato nelle fredde regole scientiste. Quei dogmi razionali che vanno stavolta di pari passo con i suoi e ai quali sembra, ma qui potrei sbagliare (e lo spero!), lei voglia che gli operai sottostiano.
Lei ha espresso la sua opinione come io faccio ora con la mia, e fin qui siamo al livello delle pure speculazioni filosofiche, che come lei ben sa ed ha espresso col suo ipse dixit non danno da mangiare. Ma lei crede realmente che inficiare il diritto di sciopero gratifichi la già precaria posizione dei dipendenti del Vico o che il perdere lo stipendio dei primi tre giorni di malattia li renda più degni di ricoprire quell’impiego o che infine andare contro le leggi in materia di lavoro apra un circolo virtuoso invece di scatenare una reazione a catena negativa denigrando gli onesti lavoratori di tutto lo stivale? E se nonostante l’accordo, nel gioco al ribasso s’andasse sempre più giù, fino all’abisso della chiusura, com’è successo a Termini Imerese, cosa rimarrebbe alla città e agli operai, certo non più la dignità, quella la si sarebbe già svenduta in precedenza.
Il signor Marchionne l’ha buttata là, un po’ per sondare il terreno e un po’ per vedere come andava a finire, e magari gli sarebbe andata pure bene con il suo sperato 80%. Nel frattempo però mentre il manager bleffava, tutti gli altri, abituati più allo scopone che alle carte francesi, hanno detto di tutto di più, magari sperando d’azzeccare la giusta previsione e vantarsene in seguito. Ci si è trovati poi in una situazione paradossale dove pur di sembrare portatori di verità e di perizia nel campo specifico si è avuto addirittura il capovolgimento di fronte, dove elementi del centro-destra come lo stesso presidente della regione hanno criticato la proposta del Lingotto mentre, esponenti del centro-sinistra come Veltroni ne auspicavano la necessaria attuazione.
Tutto questo sulle spalle e le vite degli operai.
Un caro e sincero saluto

lunedì 28 giugno 2010

lunedì 21 giugno 2010

Black was the night



We stopped in the unimaginable softness. It was as hot as the inside of a baker's oven on a June night in New Orleans. All up and down the street whole families were sitting around in the dark, chatting; occasional girls came by, but extremely young and only curious to see what we looked like. They were barefoot and dirty. We leaned on the wooden porch of a broken-down general store with sacks of flour and fresh pineapple rotting with flies on the counter. There was one oil lamp in here, and outside a few more brown lights, and the rest all black, black, black. Now of course we were so tired we had to sleep at once and moved the car a few yards down a dirt road to the backside of town. It was so incredibly hot it was impossible to sleep.



So Dean took a blanket and laid it out on the soft, hot sand in the road and flopped out. Stan was stretched on the front seat of the Ford with both doors open for a draft, but there wasn't even the faintest puff of a wind. I, in the back seat, suffered in a pool of sweat. I got out of the car and stood swaying in the blackness. The whole town had instantly gone to bed; the only noise now was barking dogs. How could I ever sleep? Thousands of mosquitoes had already bitten all of us on chest and arms and ankles. Then a bright idea came to me: I jumped up on the steel roof of the car and stretched out flat on my back. Still there was no breeze, but the steel had an element of coolness in it and dried my back of sweat, clotting up thousands of dead bugs into cakes on my skin, and I realized the jungle takes you over and you become it. Lying on the top of the car with my face to the black sky was like lying in a closed trunk on a summer night. For the first time in my life the weather was not something that touched me, that caressed me, froze or sweated me, but became me. The atmosphere and I became the same. Soft infinitesimal showers of microscopic bugs fanned down on my face as I slept, and they were extremely pleasant and soothing. The sky was starless, utterly unseen and heavy. I could lie there all night long with my face exposed to the heavens, and it would do me no more harm than a velvet drape drawn over me. The dead bugs mingled with my blood; the live mosquitoes exchanged further portions; I began to tingle all over and to smell of the rank, hot, and rotten jungle, all over from hair and face to feet and toes. Of course I was barefoot. To minimize the sweat I put on my bug-smeared T-shirt and lay back again. A huddle of darkness on the blacker road showed where Dean was sleeping. I could hear him snoring. Stan was snoring too.



Occasionally a dim light flashed in town, and this was the sheriff making his rounds with a weak flashlight and mumbling to himself in the jungle night. Then I saw his light jiggling toward us and heard his footfalls coming soft on the mats of sand and vegetation. He stopped and flashed the car. I sat up and looked at him. In a quivering, almost querulous, and extremely tender voice he said, "Dormiendo?" indicating Dean in the road. I knew this meant "sleep."
"Si, dormiendo."
"Bueno, bueno" he said to himself and with reluctance and sadness turned away and went back to his lonely rounds. Such lovely policemen God hath never wrought in America. No suspicions, no fuss, no bother: he was the guardian of the sleeping town, period.



I went back to my bed of steel and stretched out with my arms spread. I didn't even know if branches or open sky were directly above me, and it made no difference. I opened my mouth to it and drew deep breaths of jungle atmosphere. It was not air, never air, but the palpable and living emanation of trees and swamp. I stayed awake. Roosters began to crow the dawn across the brakes somewhere. Still no air, no breeze, no dew, but the same Tropic of Cancer heaviness held us all pinned to earth, where we belonged and tingled. There was no sign of dawn in the skies. Suddenly I heard the dogs barking furiously across the dark, and then I heard the faint clip-clop of a horse's hooves. It came closer and closer. What kind of mad rider in the night would this be? Then I saw an apparition: a wild horse, white as a ghost, came trotting down the road directly toward Dean. Behind him the dogs yammered and contended. I couldn't see them, they were dirty old jungle dogs, but the horse was white as snow and immense and almost phosphorescent and easy to see. I felt no panic for Dean. The horse saw him and trotted right by his head, passed the car like a ship, whinnied softly, and continued on through town, bedeviled by the dogs, and clip-clopped back to the jungle on the other side, and all I heard was the faint hoofbeat fading away in the woods. The dogs subsided and sat to lick themselves. What was this horse? What myth and ghost, what spirit? I told Dean about it when he woke up. He thought I'd been dreaming. Then he recalled faintly dreaming of a white horse, and I told him it had been no dream. Stan Shephard slowly woke up. The faintest movements, and we were sweating profusely again. It was still pitch dark. "Let's start the car and blow some air!" I cried. "I'm dying of heat."

Jack Kerouak from On the road

INVICTUS

Out of the night that covers me,
Black as the pit from pole to pole,
I thank whatever gods may be
For my unconquerable soul.

In the fell clutch of circumstance
I have not winced nor cried aloud.
Under the bludgeonings of chance
My head is bloody, but unbowed.

Beyond this place of wrath and tears
Looms but the Horror of the shade,
And yet the menace of the years
Finds and shall find me unafraid.

It matters not how strait the gate,
How charged with punishments the scroll,
I am the master of my fate:
I am the captain of my soul.

William Ernest Henley (1849-1903)

venerdì 18 giugno 2010

RIFLESSIONI SUL CASO POMIGLIANO




La questione degli stabilimenti FIAT di Pomigliano D’Arco mette in risalto una questione che, anni addietro, quando i diritti sanciti dalla Costituzione e dallo Statuto dei Lavoratori, sembravano inalienabili, sarebbe parsa appartenere a qualcosa di remoto e improponibile.
Si riportano, sulla stampa locale, le affermazioni della giunta comunale pomiglianese che, parafrasando l’andante imperante, sostiene che “piccoli egoismi sindacali o sterili battaglie ideologiche” frenerebbero lo sviluppo di un’area già di per sé depressa.
A me sembra, più che altro, che si voglia enfatizzare, con tali affermazioni, l’attualità più che la precarietà che si prospetta per il futuro di Pomigliano, nel senso che, sfruttando l’onda emotiva suscitata dal dictat di Marchionne e l’evergreen della crisi, senza mai perder d’occhio l’esiguo ma pur sempre remunerativo spazio temporale che separa una legislazione dall’altra, non si vuol considerare il danno che sul lungo periodo procurerà l’accondiscendenza a tali intimazioni. Una sorta di campa cavallo che l’erba cresce, ovvero: - ora saremo ricordati tra quelli che hanno permesso che la FIAT restasse a Pomigliano, domani, quando l’ennesima crisi penderà sul capo degli operai, si vedrà ed eventualmente se lo piangerà qualcun altro. - Pura pragmatica politica.
Sembra poi che le tanto paventate crisi penalizzino più gli stipendiati, pubblici e privati, che i capitani d’industria, che pretendono ancor più libertà di quanta già non ne abbiano ricevuta, da questo e dagli altri governi succedutisi in questo mare magnum di crisi globali. Non gli bastano certo i quattro morti al giorno sul posto di lavoro, non gli bastano certo proroghe, sanatorie, condoni, incentivi e scudi fiscali ma ora vogliono pure l’abolizione dell’articolo 41 della Costituzione (http://www.senato.it/istituzione/29375/131289/131314/131321/articolo.htm) perché, secondo loro, il mercato non sarebbe tutelato dalla nostra Carta Costituzionale, a loro dire obsoleta e vincolante (quella USA risale al 1789!).
Altro che sterili egoismi e battaglie ideologiche mi vien di pensare, il luogo comune vuole relegare ancora una volta la lotta sindacale a un inutile passatempo ad uso di pochi imboscati e accondiscendenti eletti; ormai si è dimenticato però che questa ci ha portato ai diritti di cui tutti adesso usufruiamo e che giudichiamo imprescindibili e, fino a poco fa, indiscutibili.
Se non ci fossero state le lotte sindacali si starebbe ancora a lavorare in condizioni disumane e morire per un qualcosa che dovrebbe invece aiutarci a vivere, ma su questo sappiamo che purtroppo c’è ancora molto da fare. Basterebbe ricordare cos’accadde quando il passato governo Prodi tentò timidamente di regolamentare e attualizzare la sicurezza sul luogo di lavoro, non tutti ricordano forse il sollevarsi di scudi di CONFINDUSTRIA e chi per lei e come naufragò l’iniziativa legislativa.
Ma si sa, se la gente ha deciso di non voler più vedere la spazzatura per le strade del napoletano è probabile che i più non vedano la portata di un eventuale accordo, dove si prevede tra l’altro di ridimensionare anche il diritto di sciopero pur di veder trasferita la Panda all’ombra del Vesuvio. Del resto come, parimenti, la cecità impera per l’immondizia di Palermo, s’è persa ogni notizia su Termini Imerese, prima vittima sacrificale del tu vuò fa’ l’americano del Marchionne, triste monito ai morituri della dura legge del mercato.
Va detto che la fabbrica d’automobili torinese non è industria normale, e non solo per il suo peculiare radicamento al territorio infatti, i decenni di sovvenzioni statali fruiti dall’opificio degli Agnelli, non possono esimerla dai suoi impegni e questo solo perché c’è la sempiterna crisi in atto, crisi che, si sottolinei, non hanno certo creato i lavoratori.
Se l’industria del Lingotto ha quindi superato la prova degli anni, delle crisi e degli investimenti sbagliati non lo è stato certo esclusivamente per il valore intrinseco dei suoi prodotti, ma anche perché è stata sovente considerata come patrimonio nazionale e non solo dei suoi azionisti. Per questo quando si parla di lei sarebbe opportuno non enfatizzare sulle presumibili libertà di mercato ma sulla questione tutta italiana delle sovvenzioni di stato, limitate soltanto dalle nuove regole europee.
Quello della FIAT resta comunque un vero e proprio ricatto! Non si può rinunciare a ciò che si è conquistato col sangue e il sudore dei lavoratori. È evidente che quello della FIAT non è che il primo passo verso un gioco al ribasso che pregiudicherà progressivamente lo Statuto dei Lavoratori e tutti quei diritti sacrosanti che ci separano dalla servitù.
Quanti seguiranno la strada intrapresa dall’industria torinese se questa vincesse? È facile istaurare una campagna stampa contro i fannulloni, veri e presunti, soprattutto quando si hanno mezzi e amicizie per farlo, e per invogliare la pubblica opinione ad accondiscendere alla nuova teoria del baratto dei diritti ma se è vero che al mondo esistono gli assenteisti e i medici compiacenti (tra l’altro facilmente identificabili e sanzionabili se questo fosse un mondo privo di opportunismo), è anche vero che esistono i padroni, che sfruttano e che colgono la palla al balzo per fare quel che vogliono, nascondendosi dietro il famigerato dito.
Quella della FIAT è una sorta di “monocoltura” che come l’edilizia ha monopolizzato il nostro territorio, senza la quale, sembra che non esistano altre speranze o orizzonti occupazionali; l’inventiva e il valore di un popolo li si possono vedere proprio in questi frangenti. Che si lotti allora per i propri diritti finché se ne avranno forza e dignità, altrimenti che vada a farsi friggere altrove ‘sta FIAT che ha spolpato finché l’è convenuto operai e sussidi statali. Qual è stato il risultato di questa politica, e quali saranno le conseguenze se questa sorta d’accordo unilaterale passasse? E siamo realmente convinti che quelle auto voglia proprio costruirle in Polonia? Magari negli States ha imparato a giocare a poker e di conseguenza a bleffare.
Ci hanno inculcato che anche con un diploma, una laurea e con tante specializzazioni dovremo imparare a reinventarci un nuovo cammino professionale, anche a cinquant’anni e forse più, se il prezzo è lo sfruttamento, in cambio di un telefonino o uno schermo piatto allora preferisco reinventarmi e osservare con orgoglio un limpido tramonto invece di annullarmi davanti a un piatto schermo televisivo.

mercoledì 16 giugno 2010

lunedì 7 giugno 2010

venerdì 4 giugno 2010

mercoledì 2 giugno 2010