martedì 29 settembre 2009

giovedì 10 settembre 2009

venerdì 4 settembre 2009

L'Italia non è un' espressione geografica?


Se vivessi in un contesto come quello statunitense dove ogni casa ha la sua bandiera esposta e dove anche alla partitella domenicale suonano l’inno nazionale, assisterei con un po’ d’imbarazzo davanti a tanto sciovinismo, soprattutto se non ne fossi parte integrante.
Ma assistere alla questione sollevata, per i 150 anni dell’unità d’Italia, lascia letteralmente sconfortati.
Il precedente governo Prodi, aveva previsto grandi celebrazioni per la commemorazione dell’unificazione nazionale, con addirittura la previsione di adeguamenti infrastrutturali in occasione dell’evento, ma sembra che tutto ciò non piaccia al nostro altrettanto patriottico governo.
L’intenzione è quella della sobrietà, del risparmio, del limitarsi alle semplici cerimonie formali, del resto è risaputo, c’è la crisi!
Usando quel tanto di cervello che basta, giusto per non farlo ammuffire, verrebbe da chiedersi se avessero, per assurdo, in concomitanza dei mondiali di calcio del “90, negato a Montezemolo i soldi per le infrastrutture, dicendogli che tanto per le partite di calcio i campi c’erano e bastavano (cosa forse vera, ma alla FIAT non si comanda!), cosa sarebbe accaduto?
E se si fosse soltanto ventilata una simile ipotesi per le Olimpiadi invernali di Torino o per qualsiasi altra manifestazione sportiva organizzata nel Bel Paese, sarebbe stata data per fondata, plausibile?
Si sa che il nostro paese spolvera il tricolore soltanto ai mondiali di calcio, per sentirsi un tutt’uno davanti alle eventuali imprese azzurre, ed è anche risaputo che durante le feste nazionali si tira fuori più la fornacella che la bandiera, ma un minimo di ritegno nazionale ci vuole, anche per salvare le nostre modeste patriottiche apparenze. Del resto, l’Italia sembra ancora essere una nazione e poi, se si andasse appresso a tutte le crisi, reali o fittizie, non si farebbe più nulla in questo paese, vista anche l’innata capacità ad attirare sfiga che si ritrova il suo brillante primo ministro.
Non che celebrare col cemento l’unità d’Italia sia necessario e imprescindibile, ci basterebbero anche i voli delle Frecce Tricolori, ammesso che Gheddafi ce lo consenta ancora, o qualche bel concerto al Quirinale. Ci si chiede poi, il perché, per cacciare i soldi, lo stato abbia bisogno esclusivamente dell’evento da celebrare o della causa di forza maggiore, per adeguare una strada, un monumento una piazza a uno stato più consono a un paese civile.
Ma in tutto questo, perché porsi il problema proprio in questo caso e non altrimenti?
Sarà anche questo l’ennesimo scotto governativo da pagare alla lega?

giovedì 3 settembre 2009

“La scuola non è un ammortizzatore sociale”


“La scuola non è un ammortizzatore sociale”. Con questa frase si liquida, con disprezzo e superficialità, la questione del precariato scolastico, da buona parte dei rappresentanti di governo o da chi ne intesse le trame attraverso gli organi di stampa e quelli televisivi. Non si sa quanto ignari di ridurre, a un motto di sette parole, la vita di migliaia di persone e trattare l’argomento con ottusa banalità.
A questo punto sarebbe opportuno chiedersi, in base a simili affermazioni, se la nostra nazione abbia ancora uno stato sociale, e anche, se le pubbliche selezioni abbiano ancora un valore legale, altrimenti non si spiegherebbero tali insulse dichiarazioni, reiterate da un’informazione partigiana e da un elettorato intorpidito nel pensiero e nella coscienza.
Analiticamente come sostanzialmente, in questa frase non sussistono né logica né quanto meno opportunità, non ha alcun fondamento, per i seguenti motivi:
il primo, perché, se esiste un precariato nella scuola lo si deve ai governi che si sono succeduti, in primis quello attuale, che non hanno investito a fondo quanto dovevano nel mondo della scuola. Inoltre va specificato che tutti coloro che hanno superato un concorso e qualsiasi altra pubblica selezione, riconosciuta dalle leggi della Repubblica, hanno tutto il diritto di esser precari, o meglio, hanno tutto il diritto di sperare, di ottenere ciò che gli spetta per merito e che lo stato non è stato capace di offrire per sua negligenza.
La possibilità di permanere in quelle liste che gli permetteranno di raggiungere un posto di lavoro, degno di questo nome, sarà un limbo non un premio per chi invece dovrebbe accedere per via diretta a posti di lavoro che esistono, e che non vengono portati a ruolo per batter cassa, lasciati alla mercé anche del più fortunato o del più ammanigliato, nella sempiterna lotta tra poveri.
In seconda istanza lo Stato dovrebbe garantire a chiunque fosse tagliato fuori, suo malgrado, dall’attività lavorativa tutta una serie di misure tali da favorirne il nuovo inserimento e la sussistenza nel periodo di contingenza, ma, mentre persiste questa situazione, ci si impegna ad inviare l’esercito a sedare il disordine internazionale, perché è di una grande nazione l’obbligo di dare il suo contributo all’”ordine” mondiale, dimenticando che lo è ancor più la cura dei propri affari interni.
Sembra inverosimile l’atteggiamento che si oppone ai precari come quelli di Napoli e Benevento, che si accalcano per far valere i propri diritti fuori le porte dell’ufficio scolastico provinciale, tenuti a bada come delinquenti da polizia e carabinieri.
Sembra quasi irrisoria la tendenza a sorvolare con poche, miserrime battute, sull’atteggiamento di chi è costretto a umiliarsi e portare all’estremo, con azioni plateali, la propria disperazione. La reazione di chi normalmente ama stare tra i banchi di scuola a dialogare con i ragazzi e dare il meglio per la crescita di questo paese, e che si vede invece negare la sua attività professionale, in base al pregiudizio e il luogo comune, è vista come un atto improprio e ingiustificato. Ci si chiede se costoro non siano da considerare quali cittadini italiani, se questi non vadano relegati anch’essi nel computo dei disoccupati. Mettere tanta gente per strada non arricchirà certo il paese e lo si sta facendo con estrema disinvoltura.
Perché mai, quando a salire sul lastrico sono stati gli operai delle fabbriche li si è accompagnati, anche se con lo spirito, al successo delle loro iniziative e quando invece a farlo sono gli insegnanti li si guarda con lo sdegno e la sufficienza che si rivolge a un mendicante?
Si è calcolato che nei prossimi anni ci sarà nella scuola una perdita tra le 25.000 e le 35.000 unità a causa dei provvedimenti intrapresi dal governo (fonte CGIL), cifre da Termini Imerese e Pomigliano D’Arco (circa 22.000 posti a rischio tra diretto e indotto nei due poli industriali meridionali), ma quando fu messa in discussione la priorità delle industrie automobilistiche, si mobilitò l’Italia intera, come era giusto fare, e come ci si aspetterebbe si facesse adesso nei confronti di coloro che saranno penalizzati dai tagli nella scuola.
Andrebbe, questo se non bastasse, capita la frustrazione di chi, padri, madri, giovani che vogliono crearsi una famiglia, dopo anni di studio e attesa, con uno stipendio di poco superiore ai 1.000 € al mese, vede definitivamente cadere, non solo l’ipotesi di un miglioramento futuro, verso quel ruolo che gli avrebbe potuto dare nuovi diritti e la sicurezza di un lavoro stabile, ma addirittura l’eventualità di rimanere disoccupato per i drastici provvedimenti che hanno rivoluzionato lo scenario scolastico nazionale.

mercoledì 2 settembre 2009

Futuro remoto


In genere, dalle nostre parti come ovunque, si pensa sempre due volte prima di gridare al lupo, al lupo. Nessuno si assume la responsabilità di procurare allarme preventivamente, anzi, talvolta, si preferisce sottacerlo, sperando che la cosa non accada, o che succeda il più tardi possibile, magari quel tanto da far sfumare colpa o corresponsabilità.
Per questo ci si meraviglia, e ci si chiede come mai, si sia creato tanto scalpore intorno la paventata diffusione dell’influenza da H1N1, la cosiddetta influenza suina.
Inutile dire che a fronte delle 2.185 vittime mondiali, sui 209.438 contagi accertati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (cifre di agosto), basterebbe contrapporre le migliaia di morti annui in Italia per la “comune” influenza invernale (da una recente analisi sulla mortalità attribuibile all’influenza in Italia, condotta dal 1970 al 2001, è infatti emerso che ogni anno si verificano in media 8.000 decessi per tutte le cause che da essa scaturiscono, di cui circa 1000 per polmonite. L’84% di questi, pari rispettivamente a 6700 e quindi una media di 900 decessi per anno, riguarda gli ultrasessantaquattrenni - dati Cnesps, Iss) che sembra non facciano più di tanto scalpore. Si sa poi, che quando a farci paura è un qualcosa di ignoto o addirittura invisibile come un virus è sicuro che la psicosi troverà il suo terreno più fertile per diffondersi più della malattia stessa.
A tutto ciò va sottolineato l’effetto mediatico che sta riscuotendo la diffusione del contagio, che pandemico non è, o per lo meno, non lo è ancora rispetto alla normale diffusione della stagionale influenza che ogni anno ci colpisce.
Se ben si ricorda, andando a ritroso nel tempo, c’era stata prima l’influenza atipica, poi si passò alla SARS, poi ancora all’aviaria che assieme alla sindrome della mucca pazza, che anche se influenza non era, portò lo stesso tanti danni all’industria zootecnica italiana, ed ebbero come unico vero effetto la contrazione del mercato specifico. Oggi, rimanendo in tema animale, abbiamo quella suina, e anche stavolta di esotica provenienza, ingrediente ideale per un miscuglio perfetto di paure ancestrali, che ben diffuse dai mezzi di comunicazione attanagliano e confondono le menti italiche di questo finale di stagione.
L’anticipo con cui ci viene presentata l’influenza ha un che di nuovo, ma allo stesso tempo lascia presagire qualcosa di più subdolo, la possibilità che qualcuno, stavolta, come nelle passate e ininfluenti (almeno per chi non soffriva già di determinate patologie) epidemiche edizioni, possa approfittare del procurato allarme e lucrare economicamente con i vaccini.
È anche vero che in un doppio gioco, tra l’allarmistico e il rassicurante, i mezzi di comunicazione di massa ricoprono un ruolo fondamentale in questo contesto, diffondono la paura, ma poi lavandosene le mani sostengono quasi il contrario di quanto in precedenza affermato, come se la cosa non fosse partita proprio da loro.
Oggi poi sembrava che ci fosse stata la prima vittima italiana, manco a farlo apposta a Napoli. Quasi auspicata dagli addetti all’informazione, in questi ultimi scampoli d’estate, ma per fortuna del cinquantenne napoletano stavolta i menagramo della notizia dovranno ancora attendere.
Sembra, che nonostante l’opportuna attitudine al raziocinio, si cerchi, per ragioni non difficilmente immaginabili, di creare il caso ad ogni costo, si cerca di procurare scalpore per vendere meglio la notizia. Tutto questo, quando non ci sia addirittura un esplicito appoggio alla propaganda del politico di turno.
Infatti si sa, l’autunno è caldo, come ad ogni ripresa di stagione, con le sue tensioni sociali che si ripropongono ad ogni riavvio settembrino, e quindi, è opportuno creare diversivi, che sulla base del poco di vero che comportano, vi ci si ricama tutto il possibile per distogliere l’attenzione da problemi ben più reali e ben più visibili.

La lotta del bene contro il male, il saraceno che incombe alle porte dell’occidente, le nuove pestilenze è questo che c’aspetta per il prossimo futuro?

http://www.who.int/csr/don/2009_08_28/en/index.html
http://gamapserver.who.int/h1n1/geographic-spread/h1n1_geographic-spread.html