mercoledì 23 dicembre 2009

lunedì 21 dicembre 2009

sabato 19 dicembre 2009

Prima o poi ...



Con l’inesorabilità della predestinazione il nostro paese s’avvia allo smantellamento dello stato sociale. Gradualmente, senza possibilità di appello e senza dar spazio al confronto, il governo sta progressivamente scardinando quella politica contrattuale costruita con anni di dure lotte sindacali, che avevano permesso ai lavoratori di accedere a quei diritti che per molti, ancor oggi, sembrano dati per scontati e forse per questo malauguratamente poco apprezzati.
Sarà per questa ragione che molti dipendenti del pubblico impiego non s’accorgono ancora di ciò che sta accadendo alle loro spalle, dietro il loro far “spallucce” ad una situazione che li spingerà, prima o poi, al rango di lacchè o di subalterni di fantozziana memoria, senza ovviamente il corollario di risate a contorno, perché a ridere del malcapitato personaggio non ci saranno loro ad esorcizzare le proprie paure, ma ne saranno parte integrante.
Il paventato decreto Brunetta (D.L. 150/2009) è purtroppo giunto al termine del suo scontato iter parlamentare (scontato come ogni esito di legge presentata dal governo a questo acritico e servile parlamento). Lo ha fatto preceduto da un’avanguardia di pennivendoli e scribacchini che hanno dato fiato e forza a una questione che altrimenti sarebbe stata accantonata tra i luoghi comuni o magari la si sarebbe liquidata con qualche epiteto dal rustico e dal ben più calzante significato.
Ciò nonostante alcuni istituti napoletani, tra cui il Liceo Statale Socio Psico Pedagogico “Artemisia Gentileschi”, stanno mettendo in pratica il progetto del ministro veneto concretizzando un clima di competizione e di sospetto tra gli insegnanti e gli altri operatori della scuola. Si stanno di fatti avviando le sospensioni per scarso rendimento dei docenti con contratto a tempo indeterminato, previste dalla normativa in questione.
Il decreto Brunetta è una spietata e razionale impalcatura fondata però sull’esile ma ben radicato concetto dello statale fannullone. Se è vero però che il luogo comune ha spesso una minima base di verità, questo concetto è anche frutto di un’atavica e malcelata invidia, custodita all’occorrenza da chiunque, non sapendo affrontare i propri fallimenti, voglia contrapporla contro l’altrui benessere o magari coprendo le sue remore, enfatizza quelle degli altri. Sappiamo purtroppo che questa è un’attività antica come il mondo mai però come oggi si era giunti a tanta subdola e raffinata tecnica mediatica, capace di cristallizzare come verità assoluta tanta idiozia, anche nelle menti dei diretti interessati.

giovedì 3 dicembre 2009

Ladrão que rouba ladrão tem cem anos de perdão
-proverbio brasiliano-

domenica 29 novembre 2009

giovedì 26 novembre 2009

Empatia occidentale



Ieri (25/11), stranamente, è stata trasmessa su più reti nazionali, la notizia di un sito antagonista che pubblicava gli SMS dell'11 settembre. Fin qui niente di nuovo, negli otto anni trascorsi dal tragico evento ne hanno fatte di cotte e di crude, dette di tutti i colori e se n’è pensato di tutto di più sull’argomento in questione.
Mi ha pervaso però, fino a stamattina, il pensiero del perché di quest'estemporaneo revival dell’assalto alle torri gemelle.
Vi assicuro che, normalmente penso anche ad altre cose, più amene ed effimere col sopraggiungere dell’aurora, ma stamattina, come dicevo, al sorgere del sole, ascoltando la rassegna della stampa estera di Radio Rai 3, ho sciolto l’arcano.
A Obama servono quarantamila nuovi soldati!
Glieli ha chiesti il suo generale in campo, costretto al ripescaggio dei riservisti di una recalcitrante guardia nazionale. Solo che, il presidente dei molti sogni e delle dure realtà, non è riuscito a racimolare che una trentina di migliaia di uomini in armi, e il resto?
No problem! Ghe pensi mi!
Ci pensiamo noi, gli avrà detto al telefono l’omino buffo, rassicurando l’emulo di Kennedy (anche per quel che concerne la guerra!) che la strenua lotta all’infedele continuerà senza quartiere anche grazie a noi baldi italioti.
Ecco quindi, il perché di tanto affanno di mamma RAI e delle consorelle del biscione, ancora toccate dall’enfasi dei passati avvenimenti. Queste, all’unisono, decidono di rispolverare una notizia che tale non è.
Lo scopo di tutto ciò è probabilmente imputabile alla scelta di giustificare l’azione del nostro governo, che incontrerà a breve, nella persona del ministro Frattini, il segretario di stato americano Hillary Clinton. Stabiliranno, in accordo con i pochi alleati europei ancora disponibili, i tempi e le modalità per la fornitura di truppe per colmare il disavanzo statunitense.
Qui da noi invece, lo stato sociale è agli sgoccioli, scuola, sanità, pensioni e tutti gli ammortizzatori sociali sopravvissuti all’ondata liberista degli scorsi anni, non sono più conquiste scontate, ma l’inviare truppe all’estero a morire e a uccidere, non si sa ancor bene per chi o per che cosa, sembra che sia ancora di moda, e non solo per chi attualmente ci governa. Ovviamente ci si riferisce a un qualcosa di serio per cui combattere, magari non in contraddizione con l’articolo 11 della nostra Costituzione, un che di concreto e non preventivamente deciso a tavolino in maniera unilaterale! Un qualcosa che sia discusso in parlamento (ammesso che ne valga ancora la pena e che ce ne sia la volontà) e non dato per scontato come lo è la compiacenza per lo zio d’America. Un po’ come è scontata l’acqua di Gaeta, che se aumenta per i comuni mortali, ciò non può accadere per lo zio Sam, che non si scomoda nemmeno a intervenire nel contenzioso che ha visto protagonista in questi giorni alcune unità navali a stelle e strisce nel golfo laziale.
Gli entusiasti del primo presidente di colore della storia degli States non battono ciglio, anche quando gli viene conferito il primo premio Nobel preventivo della storia (quante belle cose avrebbero potuto fare con quei soldi del premio le tante ONG che concretamente lavorano sul campo!), e ancor meno quando questi aumenta le truppe sul fronte.
Ecco perché tutto quello che riguarda la strage dell’undici settembre 2001, risulta essere un altro dei tanti dogmi dei nostri tempi, tanti e troppi, poiché il futuribile positivismo della nostra era, mal si coniuga con le nostre paure millenariste. Anche perché di quell’evento si è accettato tutto e acriticamente, dove, più delle ragioni che hanno causato tanto scempio di vite e destini ha potuto il bagno mediatico ed emozionale che ci ha fatto condividere le sorti di quei poveracci delle Twin Towers (molte delle vittime erano infatti inservienti o colletti bianchi di basso inquadramento, che lavoravano presto la mattina per guadagnarsi il magro stipendio dell’uomo comune, e che per giunta, una parte di essi, ironia della sorte, era anche mussulmana. Tutto questo però non ha mai fatto testo nell’esegesi dei martiri newyorkesi, come non lo hanno mai fatto tutti quelli brutti, sporchi e cattivi come coloro che sono diversi dal canone occidentale!), mai nessuno o quasi, neanche a notte fonda (forse talvolta tra le cose mai viste di Enrico Ghezzi?) ha accennato alle sorti dei civili, vittime della nostra rappresaglia in Mesopotamia o in Battriana. Eppure, sono anch’essi uomini e donne che soffrono e periscono per colpe non proprie, e quindi perché nel gran varietà della sofferenza non c’è mai spazio per coloro che continuano a subire l’ira, non si sa fin quanto giustificata, dell’occidente?

lunedì 16 novembre 2009

martedì 3 novembre 2009

luce



«Torno ai lavatoi, porto i panni nella cesta, nel buio delle scale qualcuno spia il passaggio. Li sento pure nello scuro gli occhi degli altri, perché quando guardano toccano, fanno un poco di corrente d’aria che passa sotto la porta. Mi viene il pensiero che è Maria. Il palazzo è vecchio, per le scale di sera passano gli spiriti. Senza il corpo hanno nostalgia solo delle mani e si buttano addosso alle persone solo per desiderio di toccare. Con tutta la rincorsa che ci mettono a me arriva uno sfioramento. Ora che è estate si strusciano in faccia, mi asciugano il sudore. Nei palazzi vecchi gli spiriti si trovano bene. Quando qualcuno però dice che li ha visti è bugia, gli spiriti si possono solo toccare, quando vogliono loro.»

Erri De Luca da Montedidio



Eroi per casa

“Eroe: Chi sa lottare con eccezionale coraggio e generosità, fino al cosciente sacrificio di sé, per una ragione o un ideale ritenuti validi e giusti” dallo Zingarelli 2004, pag. 643 A freddo, lontano dal clamore e l’emotività di certi momenti dove a muoversi è più il cuore che la ragione, vorrei soffermarmi su un qualcosa che ha attanagliato non poco la mia coscienza, di uomo e di cittadino. Ho cercato di analizzare bene il mio pensiero, ripulendolo da ogni preconcetto. Ho spronato la mia voglia di capire il significato degli eventi, provando, qualora fosse possibile, a immedesimarmi anche in chi aveva perso i propri cari in maniera tanto barbara e cruenta. Ma in tutta sincerità non riesco ancora ad comprendere la retorica prodotta in occasione della morte dei soldati italiani delle nostre missioni all’estero. Mi rendo conto che in uno stato, di qualsiasi tipologia socio-politica si tratti, ci sia il bisogno di punti di riferimento ben saldi, che nel migliore dei casi ne consolidano l’unità nazionale. Quindi sopratutto quando si verificano eventi tanto luttuosi come gli attacchi da parte di mafia e terrorismo o come quelli accaduti nei recenti eventi parabellici in oriente, è opportuno schierarsi in maniera compatta per far fronte alla complessa situazione. Rimango però perplesso allorquando lo stesso stato non sembra riuscire ad affrontare altre emergenze pur rilevanti come quella delle morti sul lavoro, che, contrariamente a talebani e soci, che in Italia non c’hanno mai messo piede, risultano offrire un necrologio di tipo bellico e inesorabilmente quotidiano. Tale accostamento, ventilato in sordina, lo scorso settembre, nei giorni dell’enfasi patriottica, paragonava la triste sorte dei giovani meridionali morti a Kabul con quella dei conterranei periti qui da noi, sul loro posto di lavoro. Credo sia opportuno evidenziare due aspetti fondamentali della questione, il primo è quello legato al fatto che se i soldati italiani si trovano su quei fronti lo è stato perché qualcuno ve li ha mandati, e quel qualcuno (entità in vero alquanto trasversale) deve giustificarne la presenza, così come la loro morte in quelle destinazioni sperdute, così lontane dalla nostra cultura e dalla nostra quotidianità. Si noti inoltre che l’esercito italiano in giro per il mondo, ufficialmente per motivi di salvaguardia della pace (definita asetticamente e ipocritamente peacekeeping), non è appunto lì per proteggere il territorio italiano. Si combatte e si uccide non in nome del Popolo Italiano e della Costituzione che ci rappresenta e tutela, ma in virtù di accordi internazionali, che sembrerebbero imporre al nostro paese la presenza in quei luoghi tanto distanti da noi e forse dai nostri interessi. È opinabile quindi che l’apoteosi patriottica dello scorso settembre servisse a coprire, con la spessa coltre dell’emotività, l’anomalia tutta italiana delle cosiddette missioni di pace, che pace non portano, né agli altri né a noi. Il secondo aspetto è quello della ragione per la quale questi ragazzi, in buona parte del sud, decidono d’arruolarsi nell’esercito e volontariamente decidono di partire per missioni tanto rischiose e inutili. Il mestiere del soldato è da sempre vincolato al pericolo e quindi chi s’arruola, teoricamente, sa a cosa va incontro, ma è anche vero che il benessere del dopoguerra, salvo che in sporadiche occasioni, ci aveva abituati ad un esercito più dispensatore di posti di lavoro che effettivamente operativo sul campo. I ragazzacci di buona famiglia venivano mandati a completare i loro barcollanti studi sotto le armi e lì se ne forgiava il carattere ribelle e gli si garantiva una tranquilla carriera dallo stipendio sicuro e dagli scarsi rischi. Strada simile seguivano le classi meno abbienti ambendo al posto fisso nell’esercito o nell’Arma, ingrossandone le fila in cambio del salario e dell’elevazione sociale. Il mutato scacchiere internazionale ha però voluto che anche l’Italia versasse il suo contributo di vite umane alla causa dell’ordine mondiale o di chissà quale altra ragione occulta. Va comunque notato che chi va volontariamente in missione (ma non sarebbero da escludere comunque eventuali pressioni interne, in un mondo che, si ricordi, solo da poco ha fatto i conti col suo “nonnismo” e con altre simili aberrazioni) lo fa anche per le indennità di rischio che rimpinguano il salario non propriamente florido del soldato (in genere le indennità ammontano al doppio dello stipendio normale, raggiungendo un compenso di circa 5.000 € mensili. Si veda comunque a tal riguardo la Legge 13 marzo 2008, n. 45 art. 4), fermo restando, che nessuno stipendio gratificherebbe il rischio tanto grande di ammazzare e farsi ammazzare. Infatti le fumose “regole d’ingaggio” che fino a qualche mese fa c’imponevano a limitarci ad azioni di legittima difesa ora sembra che siano cambiate o che si sia sul punto di farlo, sta di fatto che i nostri soldati sono stati più volte impegnati in vere e proprie battaglie negli ultimi tempi. Quindi l’immagine delle scuole e degli ospedali che pur fanno parte dell’operato italiano, dovranno fare i conti con le vittime, anche civili, degli scontri che si sono susseguiti quest’estate in Afghanistan, tra le nostre truppe e quelle dei talebani. Mi rendo conto che questa mia opinione susciterà non poche critiche, tale è il dogma dell’intangibilità delle forze armate (mi son sempre chiesto perché davanti a tanta apologia per chi perde la vita in servizio, non corrisponda un inversamente proporzionale trattamento per chi infanga invece la divisa che altri portano con onore), mi chiedo comunque perché non meritino altrettanta celebrazione e ufficialità le vittime del lavoro. Il lavoro che, in un modo o nell’altro, fa grande questo paese e visto anche che la nostra è una Repubblica fondata ancora su questo sacrosanto principio e non sulla ripudiata guerra. Perché questo non è accaduto come invece è stato fatto col presentatore televisivo Mike Bongiorno, forse perché, contrariamente al re del quiz e alle missioni militari, il lavoro è un qualcosa di fisiologico per un paese e che quindi anche le vittime, tragico a dirsi, lo divengono automaticamente. Mentre, le bare col tricolore che rientrano in patria in diretta televisiva, risultano molto più cospicue nell’economia spicciola della propaganda, dei governi attuali e di quelli passati. Ma un esecutivo che si rispetti, che non si nasconde dietro parole stantie come patria, onore e gloria, ingaggia battaglie ben più dure e realistiche di quelle che, lontanamente mediatiche, si svolgono ai quattro capi del mondo, affronta strategie in grado di risolvere i veri grandi problemi del Paese e non quelli della provincialistica visione del ruolo dell’Italia nel mondo. Si risolvono prima i problemi a casa e poi s’affronta tutto il resto. L’Italia dei primi del novecento vantava le sue prime colonie, e intanto, mentre Roma coltivava assurdi sogni di gloria, i suoi figli emigravano nelle Americhe perché a casa morivano di fame. Oggi allo stesso modo mentre disoccupazione e delinquenza organizzata spopolano lungo la Penisola, qualcun altro sogna un ruolo di prestigio internazionale per l’ennesima vittoria monca, per una nuova Versailles da ascrivere al novero della nazione. Si resta comunque sconcertati davanti allo spot, dal sapore tutto hollywoodiano, allestito per la festa delle forze armate del 4 novembre. Meraviglia l’edulcorata immagine che s’offre al Paese, in aperto contrasto con la raccapricciante realtà di un fronte tanto lontano quanto inutile, almeno per noi persone comuni. Noi persone comuni che però abbiamo bisogno di eroi, di santi, martiri e geni, per poter credere che esista un mondo migliore di quello in cui viviamo, e che esista qualcuno migliore anche di noi, capace di elevarsi dalle meschinità quotidiane e che, magari, allo stesso tempo, giustifichi anche le nostre di miserie, che rappresenti l’archetipo di ciò che bisognerebbe essere e che mai saremo e che quindi è giusto non emulare perché troppo lontano dalla realtà.

lunedì 26 ottobre 2009

martedì 20 ottobre 2009

lunedì 12 ottobre 2009

mercoledì 7 ottobre 2009

Burqa e dintorni

“Si vede che era uno sfogo segreto della verità, una confidenza domestica; il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune” Alessandro Manzoni, I promessi sposi capitolo XXXII
La lega non è nient’altro che la cartina tornasole del nostro paese, il partito del carroccio non fa che mettere apertamente in evidenza tutto quello che molti altri, a destra come a sinistra, e perché no, anche al centro, sottacciono o fanno finta di non vedere.
L’esplicita tendenza da parte di quel di Pontida a sconvolgere le regole scritte e le norme consolidate di questo nostro assopito paese, va, se non condiviso riconosciuto come sincero atto di realtà politica.
I due opposti schieramenti infatti ci hanno abituato da tempo a rimedi pro forma e dalla limitata durata cronologica, o addirittura legati alle forti emozioni del momento, come è accaduto per i provvedimenti in materia di codice della strada o relativi all’ecologia.
Allo stesso tempo, troppo legati all’immanente presenza della chiesa e dei suoi dettami, non riescono a porre in essere tutto quello che realmente avrebbero voluto realizzare dei loro programmi elettorali, ammesso che li si volesse realmente attuare e non soltanto sventolarne il vessillo.
La lega invece sembra tastare bene un terreno che oltre all’esserle congeniale e farlo suo, sembra proprio appartenergli visceralmente. Insomma la lega è il popolo, almeno per larghe righe quello che il popolo è, crede e teme.
Per questo, quelle che sembrano delle semplici sparate alla Bossi, non sono altro che il riflesso di una diffusa opinione pubblica, espressione di quel senso comune di manzoniana memoria che spesso e volentieri si sostituisce all’ormai non più ovvio buon senso, che tanto ci aveva, a torto o ragione, contraddistinto nel mondo. Probabilmente è anche legato a questo il suo grande successo elettorale e quindi non solo ascrivibile agli improbabili moti irredentisti o alle sue celtiche aspirazioni.
Da questo si giunge all’ultima trovata leghista, quella di una proposta di legge contro il burka (non ci è dato comprendere al momento se il termine in questione sia genericamente rivolto a tutti i tipi di velo o allo specifico indumento integrale). Cavalcando così il senso d’incomprensione generale scaturito anche dalla contrapposizione culturale, e prendendo spunto da una legge già esistente, la Reale del 22 maggio 1975 in materia di “tutela dell'ordine pubblico e identificabilità delle persone” (che regola l'uso del casco e di altri elementi potenzialmente atti a non rendere riconoscibili i cittadini e tra l’altro sottoposta ad una consultazione referendaria nel 1978 con esito negativo), si infonde quest’ennesima paura da nuovo millennio.
Lo scontato e reiterato diniego al razzismo da parte degli interessati incomincia a essere, ora più che mai, oltre che ipocrita, irritante, visto che se è giusto che la gente protegga la sua salute con un casco è da ritenere altrettanto giusto che chi ritenga, in piena libertà, d’andare in giro in burka possa farlo tranquillamente, rispettando il suo credo religioso. Altrimenti che dire degli occhialoni a moscone tanto di moda oggi, le folte barbe incolte e le fluenti chiome davanti agli occhi, li mandiamo tutti in prigione perché non riconoscibili?
È evidente dunque, che ancora una volta la lega ha scoperchiato una realtà nascosta e assai dura da metterne in evidenza, l’Italia non è più quell’ospitale paese pronto ad accogliere e tollerare tutto e tutti. Il nostro chiuderci in noi stessi oppressi dalle nostre tante paure e difesi dalle nostre esigue e inconsistenti difese mediatiche, mal tolleriamo la presenza di quelle misteriose macchie scure che s’aggirano tra i nostri mercatini rionali o che incontriamo alle fermate dei bus. Automaticamente, loro, assieme a rom e cinesi divengono il catalizzatore di tutte le nostre paure, perché sconosciute. ma attaccarli non sarà la soluzione alle nostre angosce.
Infine, in piena alleanza d’intenti c’è ancora chi, soprattutto a sinistra, sostiene che il tradizionale indumento sia denigrante per le donne che lo vestono, un simbolo estremo di sottomissione all’imposizione maschile.
Vero! E sentiamo, fuorviando qualsiasi dubbio, la necessità di ribadirlo, e sperare che nessun credo debba, per essere praticato, mortificare il corpo e l’anima del suo seguace, ma allo stesso tempo rimane fondamentale la libertà di scelta del singolo individuo.
Sembra quasi il biblico discorso della trave e la pagliuzza, che dire allora della situazione delle nostre donne che altrettanto “liberamente” mortificano i loro corpi e le loro menti per accedere a quel che normalmente le spetterebbe?
Donne, che per realizzare le proprie aspirazioni devono dare in cambio il proprio corpo, o subire molestie insostenibili per chiunque, e questo solo perché femmine.
Perché non fare allora una legge contro la chirurgia plastica a nostro avviso ancora più estrema di un pur mutabile burka.
Un provocazione, in vero, ma allora dov’è finita la libertà personale, di vestire o svestire liberamente il proprio corpo, seguire liberamente la propria religione, vivere a proprio piacimento il proprio corpo?
La foto è di James Nachtwey fotografata su National Geographic Italia - ottobre 2009

sabato 3 ottobre 2009

Il dissesto delle coscienze

La Campania ha il 50,3 % del suo territorio a rischio idrogeologico.
I recenti e tragici fatti di Messina hanno riproposto all’assopita attenzione dell’opinione pubblica un problema che riguarderebbe tutto il territorio nazionale.
Usiamo il condizionale poiché l’evidente precarietà della struttura geologica della penisola cozza con i provvedimenti attuati o negati dallo stato in tutte le sue declinazioni.

Ieri sera, il ministro Prestigiacomo e il sindaco di Messina Giuseppe Buzzanca, durante la rubrica del Tg1, “Tv7”, tra un elogio e un ammiccamento all’immagine di un premier deus ex machina, ribadivano, sulla falsa riga di Bertolaso, il fatto che qualcosa di illecito era stato realmente fatto in quei luoghi.
La ministra, in una sorta di trans, frutto forse della stanchezza, vista anche l’ora tarda, veniva a stento frenata dal giornalista Pino Scaccia nel suo panegirico senza fine e senza senso; che stesse lì non solo perché siciliana e ministro dell’ambiente ma anche perché volenterosa di voler dimostrare di saper fare qualcosa in più che lo shopping ministeriale?
Il sindaco di Messina invece, con la solita litania, del -sono qui da poco-, affermava la necessità di soffermarsi non su quello che era stato fatto (le costruzioni abusive accennate dagli esperti presenti) ma su quello che si poteva fare con i fondi mai stanziati dal governo, per il riassetto dei costoni rocciosi e per la riforestazione delle aree interessate dalle frane.
Francamente aggirare l’ostacolo in questo modo, con indagini non ancora iniziate, con i morti ancora da seppellire e con l’evidenza delle case costruite nelle fiumane, sa di calcolo premeditato più che affermazione a caldo. Magari il primo cittadino di Messina prevedeva la possibilità di elargire nuovi e utili (a future cause elettorali) posti di lavoro per gli addetti forestali, per il rimboschimento delle pendici di quei monti ai quali magari essi stessi avevano dato fuoco tempo addietro, nella speranza che li si richiamasse per la piantumazione delle utili essenze arboree o in virtù di una nuova costruzione abusiva vista mare.
Sta di fatto che stiamo parlando non solo di servitori dello stato, il ministro dell’ambiente, il sindaco interessato e il direttore della Protezione Civile. Ma anche di persone del governo, Bertolaso incluso.
Questo aggiunge gravità al fatto, che tutti, direttamente o indirettamente, sono complici dei reiterati condoni edilizi dei governi berlusconi. Non si tratta di natura matrigna o di un’astratta forza del mare che agisce contro gli inermi cittadini, ma dell’evidente violazioni delle leggi della natura e dell’umano buon senso al fine del consenso e del batter cassa.
La cosa più oscena in questo tragico contesto, è la finta (si spera!) ingenuità con la quale si afferma l’evidenza, ormai arcaica, non solo del dissesto idrogeologico del nostro paese, dove ormai a ogni pioggia, piccola o grande che sia, si sfocia quasi sempre nel danno o nella tragedia, ma anche la palese realtà dell’abusivismo che vige regolarmente in Italia perché plagiato dall’impunità, e lo si fa come si trattasse di un qualcosa ad essi avulso. A Questo va aggiunto un sistema idraulico incapace di sostenere, per obsoleta struttura o per il non previsto aumento delle cubature condonate, gli improvvisi e soverchianti afflussi d’acqua piovana.
Nella nostra regione Campania poi non si può stare certo tranquilli, il ricordo di Sarno del ’98 rimane il più eclatante, ma vadano ricordate anche le vittime di Pozzano nel 1997 e di Ischia nel 2006, e il computo di simili tragedie è limitato ovviamente per difetto, ciò nonostante non sembra che le cose siano più di tanto cambiate.
Colpisce l’impunità delle affermazioni sentite ieri alla radio e in tv, partorite da quelle coscienze disseppellite dalle sagge affermazioni del Presidente Napolitano. Costoro, forse sicuri di non avere niente a che fare con tutto ciò, sanno che in questo paese, dalle molteplici autorità e dalle poche responsabilità, spesso si risale a ritroso, nella ricerca dei rei ma senza trovare mai una figura imputabile. Dove se son tutti colpevoli nessuno lo è veramente, o almeno così ci si vuol far credere.
È nostra opinione che invece siamo tutti colpevoli, quando in assenza di denuncia o in presenza di convenienza, lasciamo che l’acqua scorra ancora una volta verso il mare, trascinando con sé nell’oblio delle sue profondità le umane coscienze.
QUANDO NON SO CHE DIRE PREFERISCO TACERE

martedì 29 settembre 2009

giovedì 10 settembre 2009