lunedì 30 marzo 2009

"La Città involontaria"



Nel segno della nostra scarsa, per non dir nulla, memoria storica; a testimonianza della poca volontà di lettura e rilettura, quantomeno critica della nostra città; la quasi totale assenza di contatto tra chi ci ha preceduto e l’attualità.
Ho appena finito di leggere Il mare non bagna Napoli di Anna Maria Ortese. Devo dire che la lettura di questa raccolta di racconti (anche se la sua unità stilistica ne rende riduttiva la classificazione) del 1953 ha rafforzato in me la convinzione di una città coinvolta in un vortice continuo di avvenimenti che si ripetono, ora come allora, senza il riscontro dell’esperienza vissuta, senza un’assennata volontà al miglioramento.
Napoli un dejà-vu continuo, immersa nella sua circolarità temporale che contrasta nettamente con la linearità del resto del paese e dell’Occidente. La devastante analisi che l’autrice ne fa a tutti livelli ci offre un quadro che poco si distacca dalla nostra contemporaneità, e che nonostante le verdi colline del Vomero, da lei più volte citate, non ci siano più, offre immagini esemplari di un disfacimento continuo e infinito.





L’esempio dei Granili, sorta di 167 ante litteram, abbattuti nel dopoguerra, come le Vele di Secondigliano negli anni ‘90, perché luogo malsano più che fatiscente, può essere emblematico. L’immagine di certi luoghi viene sfruttata al meglio per scopi propagandistici, nella loro edificazione; nella loro degenerazione; nella loro demolizione. Come se poi fosse la casa, l’edificio, la cosa a fare l’uomo. Come se poi non fosse l’essere umano col suo agire l’unico creatore delle sue miserie. Come non vedere in questi intenti la mal celata voglia speculativa di personaggi dalla labile coscienza e dalla capiente tasca? Questi luoghi che in un modo o nell’altro hanno rappresentato la nostra storia, divengono talvolta il catalizzatore del male, hanno ricoperto il ruolo del cane da bastonare in virtù di un padrone inattaccabile, quando ovviamente e non di rado ha imperato la malafede e il malaffare. Hanno rischiato di subire analogo destino anche i famigerati Quartieri Spagnoli, salvati dell’Unesco qualificandoli assieme a tutto il centro storico (e non solo il centro antico come atri avrebbero voluto) quali bene dell’umanità. Salvando almeno questa parte della città dagli atti meramente speculativi iniziati negli anni del dopoguerra dove si prevedeva tra l’altro lo sventramento del centro storico in una smania da risanamento di ancestrale memoria.
La sorte della Ortese, successiva al libro, è stata quella di tutti coloro che secondo indole o per onestà intellettuale (questi ultimi sempre più rari di questi tempi) vedono la realtà per quella che è, senza remore ideologiche od opportunistiche. Chi ama conosce, sostengo io, come è vero il suo viceversa. E questa, a mio parere, imprescindibile dicotomia può mostrare con lucidità la realtà che di volta in volta ci si presenta. Come quando un padre che ama suo figlio riesce a vederne oltre che i pregi soprattutto i difetti, perché sa che tale atteggiamento, per quanto duro possa essere, potrà essergli di giovamento e farlo crescere migliore e più consapevole di se stesso.
Tale attitudine, è dote malvista se non d’impiccio a chi è abituato a far di necessità virtù con i propri interessi. Fin quando ciò appartiene all’umana indole e al suo animalesco istinto si rientra in un certo ordine d’idee che spesso è accettato se non condiviso, ma ovviamente se generalizzata, l’umana tendenza all’egoismo sfocerebbe nella bestialità. E questo, nella sua storia, Partenope l’ha visto più volte. L’opportunismo della classe dirigente ha spesso dato sfogo al popolo, liberandolo da tutti quei freni sociali che normalmente fungono da collante là dove civiltà e diritto coesistono pacificamente. Il popolo, la plebe, il volgo, i lazzari, i cafoni, e sotto tutte le sue spoglie reali e da cartolina. L’unico che può definirsi realmente napoletano, perché possa piacere o no è l’unico, stretto in una morsa matrigna, che a Napoli ci vive, perché è lui che è Napoli.

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