lunedì 2 maggio 2011
La paranza del Sabato dei Fuochi, 30 04 2011
Difficilmente mi sento parte di qualcosa, ma stavolta ci sono arrivato molto vicino e il merito non è solo mio. Lo devo infatti a quell’insieme di persone che prendono il nome di paranza. La mia avventura di paranzaro di stramacchio incomincia venerdì 29, quando vengo invitato dai membri della Paranza del Sabato dei Fuochi per assistere ai preparativi della festa che dà inizio alle celebrazioni in onore della Mamma Schiavona. Il contesto è goliardico ma non si lascia nulla al caso nel giorno più importante dell’anno.
Arrivo a Casamale, antico e affascinante quartiere sommese, parcheggio l’auto e risalgo via della Giudecca, dove mi viene incontro Lucio Merone che sarà mio mentore ed affabile guida in questi due intensi giorni di festa. Entriamo in una curtina dove persone di tutte le età sono già in piena fase organizzativa. Una prima immagine m’inquieta ed è quella del montone di zaini militari, di quelli in Cordura che ormai sembra non s’usino più e che svelano lo spettro che grava su di me e la mia schiena ad ogni escursione, il peso dello zaino! Non m’arrendo però e faccio finta di niente, anche perché vedo più in là, in mezzo al cortile, decine di taniche da cinque litri, ricolme di vino rosso.
Ecco il lato positivo delle mie avventure montane, quel meraviglioso nettare che apre i cuori e unisce i popoli, e vai! Incomincio a familiarizzare con i più espansivi del gruppo, cerco di rendermi utile, voglio essere, almeno per quei giorni, partecipe, per quanto possibile, alle loro passioni. Temo sempre di cozzare contro l’altrui suscettibilità e c’è in effetti qualcuno che, senza tante smancerie, mi fa notare la mia temporaneità in quel contesto e in una frenetica attività organizzativa tira avanti sbottando qualcosa, più pensata che detta; magari coltivando intimamente il suo sogno di futuro capo paranza. In realtà l’accoglienza è totale mi si offre un ottimo mirto e si chiacchiera in maniera giocosa.
Gli sfottò tra i più anziani sono poi esilaranti, quanto più vetusta è l’età, tanto più è guascone lo scherno e si va avanti così, tra risate e pulizia della verdura, riempimento degli zaini e organizzazione dei carichi, io, scelgo uno zaino a caso (bugia!) e gli sistemo le bretelle, in modo da non doverlo fare l’indomani al buio, gli inserisco anche una targhetta di cartoncino con su scritto: Ciro Teodonno – Il Mediano. Chissà che fine avrà fatto quello zaino! A preparativi ultimati ci si saluta e giusto il tempo di risalire in macchina che si va a portare gli omaggi alla paranza D’Ognundo, sul Tuoro della Nuvesca, un terrazzamento panoramico, dove è stata costruita una cappella dalle linee essenziali, come la gente che incontro e con la quale rompo subito il ghiaccio col vino che mi offrono, genuino come la loro passione.
Tre botti e mezzo di gara pirotecnica e scuorno per la fetecchia al masto fuochista! Poi nuovamente via, verso casa a dormire. Sabato 30 aprile, ore 3.00, mi sveglio all’orrido suono di una stramaledettissima sveglia, mi alzo meccanicamente, già m’ero svegliato un’ora prima per il nervosismo, mi vesto rapidamente in perfetto stile escursionistico, prendo il mio monospalla con tutto il necessaire per la giornata e parto, senza passare per il bagno, ahi! Come farò lassù, maledetta regolarità! Entro in macchina senza manco guardare il cielo, ancora tenebroso ma quando entro dentro m’accorgo che il parabrezza incomincia a riempirsi di goccioline, e due! Pure la pioggia, si mette proprio bene!
Arrivo quasi puntuale all’appuntamento, grazie a una 268 praticamente deserta. Lucio Merone s’affaccia dal bagno di casa con una faccia da Babbo Natale di schiuma da barba e mi dice d’attendere qualche minuto. Partiamo e raggiungiamo Casamale dove con una staffetta di auto raggiungiamo Castiello, qui ci sono altre persone ad attenderci, ora si passa ai fuoristrada per raggiungere la Traversa, il nostro punto di partenza per l’ascensione vera e propria. L’auto, una vecchia FIAT Campagnola 4x4, puntellata di ruggine tanto da renderla trasparente stenta a partire, entriamo tutti dentro, stipati uno addosso all’altro ma alla prima salita la carriola si riferma, non c’è più gas!
Ora si passa a una breve parentesi animistica, dove l’anziano autista nonché provetto cuoco, Pasquale De Simone ‘O Ciccolillo, inveirà con le più fantasmagoriche bestemmie verso il malconcio arnese. Caccia fuori una tanichetta di benzina e gliela versa nel serbatoio, con incoraggiamenti da bordello di città portuale, si rimonta, non parte! Tutti giù a spingere, la batteria è moribonda. E vai! Meglio del bob olimpionico ma stavolta son fregato, la più giovane età ed esperienza dei miei compagni di viaggio mi relegherà in ultima posizione, vicino a una portiera che definirla tale è un eufemismo, si aprirà ben tre volte prima della Traversa ma all’arrivo abbiamo dovuto aprirla a calci e ovviamente a bestemmie per uscirne fuori.
Ora all’ancor flebile luce del giorno, sono circa le sei, mi tocca prendere lo zaino che la sorte m’ha assegnato, quello del pane! Poteva andarmi peggio, c’era quello delle cozze, inumanamente pesante e alquanto puzzolente, chissà a chi è toccato? Siamo tutti pronti, c’è anche qualche ragazzino e delle donne, come apertura alla modernità e alla scarsità di danzatori. In fila indiana si parte lungo il sentiero, che zigzagando sale verso i 1.131 metri del Somma. La pioggia non ha mai smesso di farci compagnia ma per fortuna al momento non è incessante. La mia militanza nel CAI e un’innata brachicardia mi permettono di far bella figura con i presenti, che, nonostante carico e stazza, mi vedono montare di buona lena e fiatone accettabile, lungo le ripide e scivolose pendici sommane.
Al fine, in molto meno di un’ora giungiamo al cospetto della Mamma Schiavona, che ci accoglie nella sua esigua ma accogliente cappella del Ciglio. È questo il momento più commovente, quando un po’ tutti s’abbandonano ad una fede sincera, tutti, in buona parte uomini, s’inginocchiano, baciano, pregano intimamente quella mamma universale dai semplici lineamenti, quasi naif, ma dai significati ben più intimi di una normale esteriorità, è probabilmente la ragion d’essere di un sentimento comune, che al di là di ogni raziocinio unisce e lo fa anche con me che son miscredente.
Tempo di riprendersi dall’emozione e dallo sforzo che ci si industria subito per accendere un fuoco che sarà provvidenziale per il resto della fredda e umida giornata.
Scaricate e sistemate le vettovaglie si dà sfogo a una grande tammoriata che mitiga il freddo e rimbomba nella baracca della Paranza e ci emoziona e rallegra allo stesso tempo. Verso le dieci si fa “colazione” con uova sode e alici fritte, accompagnate da un sincero vino rosso che mitigherà lo sconforto dell’umidità di una pioggia continua che ci accompagnerà fino a tarda sera. Nonostante il tempaccio, ci raggiunge padre Costanzo il simpatico e taciturno parroco di Casamale, che benedirà la tavola e celebrerà la messa in un atmosfera che dire magica è poco, e se ve lo dico io potete crederci! Ci sarà anche spazio per la cerimonia “pagana”, come dirà il grande Lucio Merone, dove, dalla croce di ferro i rappresentanti più carismatici della Paranza benediranno con una preghiera laica e con l’immancabile vino i presenti.
Le pietanze, come da tradizione, tutte a base di pesce e ben cucinate, saranno alternate da fronne ‘e limone e tammorriate, gratificate dalle visite dell’altra paranza presente, quella “bassa” e intercalate dai potenti botti. Il momento più bello è stato quello scandito da Zi’Pascale ‘O Fruttaiuolo, ultraottantenne giovanissimo ma dallo scrigno inesauribile di antichi canti e dall’arguzia infinita, vero e proprio mattatore. Il fumo del fuoco ristoratore, la pioggia e il freddo impongono, verso le sette, di ridiscendere alla Traversa, stavolta carichi dei residui della festa e dove c’aspettava lo solita Campagnola sgangherata che, ovviamente, neanche stavolta partiva e allora via tutti a spingere ma ora nel fango!
Adesso però non mi faccio fregare e con balzo felino guadagno la posizione più interna, pestando non so quanti piedi. Se la salita dello stradello era stata un’avventura, la sua discesa lo è stata ancor di più. La fanghiglia faceva barcollare e slittare il fuoristrada d’antan e il cacarsi sotto dalla paura non corrispose del tutto alle sue eufemistiche ragioni, ma al fin giungemmo al santuario di Castiello, da puzzare da far paura e non solo di fumo. Sempre sotto la pioggia battente e dopo aver salutato quei compagni di quell’intensa giornata ho guadagnato un ricco passaggio fino a Somma, dove avevo lasciato la mia macchina.
Loro, quelli d’o Ciglio hanno proseguito, malgrado il cattivo tempo, col rito delle Pertiche, con il loro significato ancestrale, con la speranza nel cuore e con la consapevolezza di appartenere a qualcuno, a qualcosa che è di per sé essenza di sé stessa. W la Mamma Schiavona!
Certo non risulta facile immaginare il Vesuvio come una montagna, anche se, la sua parte più antica, il Somma, viene spesso chiamata così, ‘a Muntagna. Forse perché ha un aspetto meno vulcanico del meglio delineato e riconoscibile Cono, per le sue verdi e umide pendici, per le sue creste irte e frastagliate. Non risulta comunque facile, interpretarlo come monte, poiché la nostra cultura ha in prevalenza trovato il suo sbocco culturale nel vicino mare e di cui ne è pervasa; questo quando l’immagine del Vulcano non viene addirittura annullata sotto una coltre che sfuma tra un colpevole oblio e un’ipocrita rassegnazione.
La mostruosa urbanizzazione del Vesuvio ha dimostrato poi quanto invisibile potesse essere un vulcano attivo.
La lucida follia degli uomini, fa sì che si continui a non voler vedere; a negare l’esistenza del pericolo reale del Monte Vesuvio. Tanto da sostenere che al di là del Somma la lava e i gas non ci siano mai arrivati, il che forse è vero e in epoche recenti ma si forza così l’interpretazione storica con l’enfasi del luogo comune e probabilmente dell’opportunismo, omettendo il fatto che in passato, la zona settentrionale della caldera fu più volte interessata da flussi piroclastici e colate di fango, che ammazzano, come e più del temuto flusso di roccia fusa, cosa che accadde e con inusitato fragore nel 1631.
Al potere distruttivo della natura e talvolta anche a quello degli uomini s’è contrapposta la fede, che sincreticamente, nel tentativo atavico di esorcizzare un tragico evento naturale o il rinnovato sodalizio primaverile con la natura, ci affidata a divinità materne che possano proteggerci da ogni male. Ed è probabile che proprio in questo contesto prendano forma i riti cerimoniali delle feste del Somma di cui vorrei parlarvi e magari, se ne avrò forza e capacità, farvene la cronaca. In un bar del popolare e antico quartiere di Casamale, marcato dalla cinta muraria aragonese, a Somma Vesuviana, incontro Vincenzo Maiello, persona dai lineamenti forti e dall’ancor più forte tempra caratteriale, l’avevo conosciuto circa tre mesi prima alla presentazione di un libro ripromettendomi di intervistarlo. Sarà anche lui la mia guida per entrare nei segreti del Somma.
Alla spicciolata entrano altre persone nel bar e salutandoci si siedono attorno a Vincenzo e a me, non sono però solo anziani come m’aspettavo ma molti i giovani, qualcuno anche con qualche lustro in meno a me. C’è molta attenzione in quel che racconta Vincenzo Maiello, c’è rispetto, ma c’è anche una composta partecipazione e simpatia nei miei confronti che vengo a conoscere la storia della loro tradizione, la qual cosa mi aiuta a superare il mio imbarazzo iniziale. Ci si dà appuntamento a dopo Pasqua, per il Sabato dei Fuochi; sono emozionato, sarò partecipe di un qualcosa che non ha mai vissuto nel mio paese d’origine e che forse non ho mai vissuto realmente in nessuna delle feste che normalmente celebriamo nel nostro calendario.
Allo stesso tempo sono però un po’ intimorito dal fatto di poter essere di troppo, in un contesto che effettivamente non mi appartiene del tutto, a prescindere il mio amore per il Vulcano e la mia vesuvianità. Temo di essere considerato un elemento estraneo o addirittura di non capire, o di non trovare, provare quel che m’aspettavo. Ma questi sono i rischi del mestiere e io mi ci butto a capofitto. Al termine della disastrosa eruzione, quella che più di ogni altra in epoca moderna seminò morte e distruzione in tutto il territorio vesuviano; un evento di straordinaria potenza che toccò anche l’ager nolanus e lambì Napoli, e che inviò le sue ceneri fino in Turchia. In questo terribile scenario, s’innesca la leggenda e così me la racconta Vincenzo.
Un pastore, come spesso accade, trovò, tra le rovine della Chiesa di Santa Maria a Castello, inserita in un nucleo fortificato angioino, una testa lignea di Madonna, il cui corpo era stato bruciato dalla furia dell’eruzione. La leggenda vuole che il renitente scultore, incaricato del suo restauro, assistesse al miracolo della guarigione della figlia invalida, portando quindi l’opera quanto prima a compimento, così come accadde anche per la chiesa che l’avrebbe ospitata e che oggi è sede della festa. La tradizione del Sabato dei Fuochi trova origine in una processione lungo il canalone che conduceva alla chiesa, là dove oggi c’è la strada (Via Santa Maria delle Grazie a Castello) che conduce al luogo sacro e che fu illuminata con i falò sistemati dai contadini della zona, per agevolare il percorso dei fedeli.
La festa è così giunta ai giorni nostri mi racconta la mia guida, uomo tenace e, da come mi parla, dal passato operaio e d’attivista. La festa, all’inizio degli anni settanta: “ci accorgemmo che la tradizione, in quegli anni … aveva perduto la sua connotazione contadina, stava scemando. Chi la manteneva in piedi erano ancora quei pochi contadini … La ripresa della festa in realtà è coincisa, e questo lo dobbiamo dire perché lo rivendichiamo, con la nascita del circolo ARCI di Somma Vesuviana. Le paranze vere e proprie (Coloro che portano avanti la tradizione. Ne esistono diverse alcune storiche ed altre secondarie, costole di queste. Esiste anche una certa rivalità tra loro ndr.) che esistevano ancora a est del Monte Somma erano solo due, la Paranza dello Gnundo e quella del Tre Maggio.”
Nel dopoguerra il simbolo della croce già c’era sul Somma ed era composta da due pali verticali e due pali orizzontali. Agli inizi degli anni ottanta però i pali marcirono, fu così che la paranza del Tre Maggio assieme a Felice D’Avino, figlio di colui che aveva costruito la croce di legno, la sostituirono con una in ferro. “Io ricordo che la base di sotto era 63 chili, fu trasportata da una sola persona, da Castello fino al Ciglio.”
C’erano infatti dei trasportatori di mestiere, molto abili e famosi, che offrivano i loro servigi proprio sulle ripide pendici del Somma dove non sempre esistevano strade adeguate per raggiungere i vari fondi coltivati lungo la caldera. Furono questi che si impegnarono a trasportare il ferro per la croce che oggi ancora svetta sul Somma. Finita la croce si istaurò la tradizione di dire messa sia al Castello che sul Ciglio. “Si costruiva un altare di frasche di castagno e leccio, poi tra l’ottanta e l’ottantacinque si costruì una cappella” usando la sabbia vulcanica e l’acqua piovana per impastare la malta.”
In occasione della festa:
“Si partiva all’alba, si andava al ciglio, c’era chi si fermava a Castello e chi proseguiva al ciglio, dove aveva l’obbligo di ascoltare la messa alle dieci di mattina. Per cui c’erano i preparativi per fare quest’altare di frasche, c’è anche una pietra santa interrata e solo i capi paranza ne conoscono l’esatta posizione. Subito dopo la messa si mangiava e tra una portata e l’altra si divertivano con canti e tammorre, che erano prettamente maschili! Ogni paranza poi portava il saluto all’altra e si faceva un brindisi comune. Il pomeriggio invece lo si dedicava al fuoco, un falò, lì al ciglio. Siccome però era tutta sabbia, tutta ‘rena, si metteva un palo di cinque metri di altezza, un palo centrale di castagno e per farlo entrare nella sabbia si metteva all’estremità un ragazzino, il più giovane della paranza, facendo il movimento, col ragazzo da contrappeso, finché non si muoveva e scendeva, poi si mettevano quattro pali laterali di sostegno e poi si mettevano le frasche.
Lucio Merone, della paranza del Sabato dei Fuochi, molto più giovane di Vincenzo Maiello, prende simbolicamente il testimone e prosegue nel racconto: “La festa c’ha vari momenti importanti, uno importantissimo è quello della benedizione ma non quella del sacerdote ma fatta dal capo paranza o da una persona carismatica della paranza, noi in particolare la impartiamo col vino, col vino rosso, in genere Aglianico, ma pure ‘o Pere ‘e Palummo va bene, il vino bianco non scende bene lassù! Poi c’è la cerimonia ufficiale, religiosa, alla cappella sul Ciglio. Il sabato dei fuochi poi non si mangia carne, come se fosse una giornata di vigilia, questo solo al Ciglio, nessuno mangia carne! Un ulteriore momento importante del Sabato dei fuochi è l’allestimento del falò, siccome è un momento devozionale alla Madonna ogni capo paranza prende una frasca di leccio e la porta vicino al Fuoco per contribuire alla costruzione del Fuoco per la sera.
Questo fino al crepuscolo quando facciamo l’ultimo saluto alla Madonna e poi scendiamo e quando scendiamo siamo un’unica paranza, senza differenze. Si scende giù dando inizio a tutta una serie di rituali come la benedizione delle pertiche nel santuario. La pertica è un dono votivo di questo periodo primaverile e sono delle aste di legno di castagno lunghe quattro, cinque metri, addobbate con frutta fresca e secca e naturalmente con l’immagine della Madonna. Si introduce in tutti quei riti di doni votivi come il Maio, il Giglio, e hanno tutti la stessa radice antropologica e la Pertica, se vogliamo, è quella un po’ più rustica. Fatta la benedizione, acceso un altro falò fuori la chiesa, scendiamo fino al centro storico per la consegna delle Pertiche, si dona la Pertica a una persona alla quale riservarla come onorificenza che può darla a una persona amata, che può essere la madre, la fidanzata, a qualsiasi persona si vuole dare questo dono di abbondanza.
Giunti quindi nei cortili con la Pertica poi si intona il canto ‘a figliola, un canto d’invocazione alla Madonna e che guida il pertecaro, questo è il momento culmine col quale si chiude la giornata. Si discorre infine con i presenti di tante cose ma soprattutto sulla questione mai risolta dei residui del dopo festa e che spesso connotano le celebrazioni del Tre della Croce, essendo questa la più primaverile delle feste per questioni di calendario e dunque la più frequentata. Mi si dice che sono soprattutto gli adolescenti, che spesso, anche sotto l’influsso dell’alcool, trasformano l’evento in una sorta di rave party, con disordine e grandi quantità di immondizia, che resta lì per mesi se non anni e che non ha nulla a che vedere con il rituale e la tradizione, quella che con cura i devoti portano avanti da anni, con grande sforzo nel mantenere entro i limiti del decora la festa.
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Bel Racconto, complimenti
RispondiEliminacomm sit beeeeeeeeeeeeeeeellll......!!!!!!!!!! peccato che l'anno scorsonn sn venuta :( ma quest'anno ci vengo di sicuro!!! jammm wagliuuuuuuu!!!!!!!!!!!!!!! :SSSSS :DDDDDDDDD
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