753, settecentocinquantatrè vite spezzate, sottratte alle loro famiglie, private di gioire di quanto l’esistenza possa di meglio offrire. 753 vittime sul lavoro (fonti INAIL [1]) in Italia da gennaio a settembre 2016 (altre fonti ne riportano 561 ma al netto di quelle avvenute sulle strade e in itinere e che in tal caso e secondo questa stima arriverebbero a 1.260 morti [2]).
Comunque sia e per
quanto in controtendenza rispetto all’anno scorso è un dato grave, una sorta di
battaglia, ma forse è meglio definirla una guerra silenziosa, e non a caso
queste vengono definite anche morti bianche ma a me sembrano morti silenziose,
oscure, sottaciute, giustificate dall’ipocrita necessità di un lavoro che
dovrebbe farti vivere piuttosto che morire. Talvolta è l’inadempienza patronale
a favorirle, uno stato poco attento o di manica larga nei controlli ma spesso è una subcultura che rifiuta le ben che minime regole di
sicurezza e che favorisce atteggiamenti spavaldi e volti al risparmio di tempo
ed economia e al vanto di rischiare la vita oltre il lecito.
Davanti a questa strage
quotidiana, 2 morti al giorno sui 12 mesi e più di 3 sugli 8, e da primato nel
contesto europeo industrializzato, sembra strano se non assurdo che l’opinione
pubblica resti pressoché indifferente davanti a tutto ciò o che segua ben altre
questioni e dai risvolti senz’altro meno drammatici e letali. I social si scandalizzano per colpe
veniali rispetto a quelle che conducono alla morte, inseguono l’andante del
momento, la bufala ammiccante, la gogna mediatica rivolta verso il potente di turno o contro colui che riesce a catalizzare ire e frustrazioni collettive; le conseguenti
lapidazioni dietro il paravento telematico e i post virali condannano o esaltano
tutto e tutti, ma non una parola per chi muore sul lavoro, perché di lavoro sì,
si può morire.
Sarà che di lavoro ce
n’è poco e, quando ce n’è, è bene mantenerselo caro e a costo di sacrifici e
rinunce ma, se là dove non si rischiava la vita, ora si abbassano i diritti, immaginatevi cosa può accadere in contesti dove già si moriva per rassegnata consuetudine. Stavolta il
fatalismo è tutto italico e con punte maggiori nel nord d’Italia [3], forse per la
maggior presenza lavorativa o perché tutto il mondo è paese ma, comunque sia, uno spettro aleggia sulle nostre teste, sulla nostra precarietà, non solo
terrena ma anche lavorativa e professione, dove il lavoro a nero impera, dove,
chi muore, muore spesso nel suo primo giorno di lavoro, e dove per lavorare non
solo devi accettare di non essere pagato ma addirittura di rimetterci tu i
soldi, in spese e in contributi.
E tutto questo in virtù di cosa? Della possibilità di uscire fuori di casa e dire vado a lavorare o semplicemente il poter acquisire il diritto di pronunciare quella parola: lavoro! Ma lo ribadisco, così come lo feci a chi mi disse che, per lavorare alla mulazza, era più comodo senza protezione: "ora lavori meglio con un braccio rotto?" E mentre lo dicevo pensavo alle mani di tutti i falegnami che avevo conosciuto in vita mia. Quanto vale il corpo di un uomo? Quanto vale la sua dignità? Il prezzo di uno smartphone? Quello di uno schermo al plasma, di un vestito di marca o la rata di un SUV o quello di sentirsi umani?
E tutto questo in virtù di cosa? Della possibilità di uscire fuori di casa e dire vado a lavorare o semplicemente il poter acquisire il diritto di pronunciare quella parola: lavoro! Ma lo ribadisco, così come lo feci a chi mi disse che, per lavorare alla mulazza, era più comodo senza protezione: "ora lavori meglio con un braccio rotto?" E mentre lo dicevo pensavo alle mani di tutti i falegnami che avevo conosciuto in vita mia. Quanto vale il corpo di un uomo? Quanto vale la sua dignità? Il prezzo di uno smartphone? Quello di uno schermo al plasma, di un vestito di marca o la rata di un SUV o quello di sentirsi umani?
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