giovedì 23 luglio 2015

Diario di un nefropatico

I calcoli nella vita. Piccola cronaca scacciapensieri di un paziente giornalista. 

Nella vita è bene non fare programmi o quanto meno farli a breve termine perché solo in questo modo sarà meno costoso e forse meno doloroso cambiarli. Prologo Avevo appena finito gli Esami di Stato e come docente, prima delle vacanze, non mi rimanevano che poche pratiche da sbrigare e l’esame di recupero per quelle due anime del purgatorio che avevamo deciso di rimandare a metà luglio, per recuperare un debito che dubito abbiano recuperato se non con la convinzione di chi vuole crescere realmente e non andare a scuola semplicemente per inerzia o perché qualcuno gliel’ha imposto. Tra questi due appuntamenti c’era di mezzo la mia terza ed ultima litotripsia al Monaldi, per ridurre di dimensione un grosso calcolo renale rimasto per troppo tempo assopito nei miei visceri e ridestatosi un anno fa ad allietare i miei reni con dolori e sconvolgimenti interiori più o meno intensi, ma soprattutto minando la mia sicurezza di sempiterno giovane. Il trattamento, per quanto fastidioso per la sua preparazione e soprattutto per quella trafila che ogni paziente plebeo deve affrontare quando si incomincia a fare i conti con la salute e con la sanità pubblica, poteva risultare molto più tranquillo; ma non lo è stato il 9 luglio scorso. Stranamente arrivo in orario, puntualissimo, anzi in anticipo sulle ore 8.00 statutarie. Il problema è che di medici neanche l’ombra, e dire che all’ultima terapia di maggio, quando arrivai con un’ora e mezza di ritardo mi beccai uno di quei cazziatoni che non mi sarei sognato di fare neanche al peggiore dei miei alunni per quanto umiliante era stato. Il medico di turno mi trattò da scolaretto. Le mie ipocrite scuse, inficiate dalla consapevolezza dell’esser partito in ritardo pensando di evitare in tal modo il traffico endemico della Tangenziale, non furono per niente tenute in considerazione dall’altero camice bianco che, alzando la voce, non mi lasciò neanche il tempo di argomentare, e solo il buon senso, più che l’orgoglio e il suo antipatico tono di voce, m’impose di sedermi ed attendere pazientemente, umiliato dagli sguardi stancamente incuriositi degli altri presenti, pazienti e parenti. Il fatidico 9 luglio però non c’è nessuno e solo dopo tre quarti d’ora, all’apparenza accademici, si presenta un taciturno quanto scostante medico. Dopo quasi un’ora di attesa (c’erano già due pazienti prima di me) accedo all’ambulatorio dove trovo anche la scostante infermiera tuttofare, la stessa che già avevo trovato in ricezione al day­hospital. Una donna sulla mezza età, distante anch’essa anni luce dalle problematiche di un infermo; questa eseguiva meccanicamente le procedure di routine e a stento rispondeva alle tue ovvie quante necessarie domande di paziente, quelle di chi per fortuna aveva vissuto, fino a quel momento, altre realtà esistenziali e lavorative, ma per loro, ciò che conta è solo quello che sanno, non quello che devono trasmettere. La cosa che più mi infastidiva era quella che non ti guardava mai in faccia e soprattutto, evento molto frequente tra medici e paramedici, le tue parole dovevano inseguire sempre le loro spalle sfuggenti. Mi sdraio, il medico mi consiglia vivamente di non muovermi e di conservare un respiro regolare per non perdere di mira il calcolo, puntato con i raggi x. “Lei fa la radiografia ma pure io che faccio questo tutti i giorni prendo le radiazioni e ne prendo già tante”. Come se poi, in questa mia storia di “nefropatico calcolatore” ne avessi prese meno di lui, bardato di piombo e di saccenza. Credo che, un medico che non abbia una vera vocazione, possa trovarla con buona probabilità nel vivere lo stato e le situazioni dei suoi pazienti; avrei voluto vederlo, lì, sdraiato, a pancia sotto, su quel freddo e ovviamente scomodo lettino, con un calcolo nel rene, sotto i macchinari e con la faccia poggiata su di un inutile cuscino e con la fisica impossibilità di respirare anche in maniera fisiologica, salvo deviare continuamente il puntatore e imponendo la continua presenza dell’impaziente medico per regolarlo. Ma arriva la sorpresa, una preoccupante sorpresa, il rene è dilatato, è in sofferenza mi dice e cosa ancor più strana, il calcolo, lì, non c’è più. Infatti i 14 mm di quel disgraziato, farabutto, sassolino di ossalato di calcio, degno della Cosa dei Fantastici Quattro, se n’era sceso e incuneato a metà strada tra il rene destro e la vescica. Tutto ciò, alla luce del fatto che il viaggetto se l’era fatto senza colpo ferire e in maniera asintomatica, mi sbalordì e chiedendo lumi al bardato nefrologo, finalmente prodigo di spiegazioni, mi disse che il tutto risultava esser normale poiché la strada era probabilmente stata spianata dalla sofferenza delle vie urinarie, espanse dal duraturo stato di sofferenza e forse da qualche frammento che era andato in avanscoperta. Lui, impossibilitato nell’andare avanti, mi prenota per un intervento d’urgenza mettendomi il lista per il prossimo settembre. La diagnosi di idronefrosi, in poche parole quella di un rene dilatato e pieno di urine che non riesce a smaltire perché l’uretere è occluso da un calcolo grosso quanto un nocciolo di oliva, mi spaventa alquanto e solo l’assenza di dolore o altri sintomi di sofferenza mi tengono tranquillo. Che fare allora? Settembre è lontano, mettiamo mano ai parenti e cerchiamo di capirci qualcosa di più e principalmente di accelerare i tempi. Più che la fretta di andare tranquillo in vacanza, quello che più mi preme è il poter affrontare con tranquillità la mia vita attiva e scombinata. Mio cognato, come sempre, si presta gentilmente nell’offrirmi la possibilità di una diagnosi alternativa che in realtà non c’è, risulta quindi evidente che un intervento è opportuno là dove con uno stent si allargherà il lume del mio tubicino escretore dando sfogo agli effluvi del rene sofferente. In verità la prima ipotesi era stata quella di una cistoscopia (non scendo in particolari, divertitevi voi su internet!) per ridurre la concrezione di calcio che attanaglia le mie vie urinarie ma la vaghezza, lo sminuire e il dare tutto per scontato degli specialisti interpellati non è che mi facesse capire più di tanto. E dire, che pur non essendo un esperto, generalmente capisco quello che dicono ma è quel loro esser vaghi, dire tutto di sfuggita, così come il loro voltar di spalle, che ti lascia sempre in quel limbo di ignoranza, che a lor conviene ma che francamente non sopporto e che è spesso foriero di inevitabili sorprese. Epilogo Venerdì 10 luglio, inizia la mia avventura di nefropatico. Un amico di mio cognato, interpellato telefonicamente, sfoggia un altro aspetto del mondo medico, quello goliardico e informale che però non sempre sfocia nella fiducia di chi sì, vuole umanità e rispetto, ma vuole anche guarire e sapere come. Questo è stato il suo commento: “… e pecché null’hanno fatto ‘o bombardamento? … puortalo accà che c’ho faccio io nu mumento … però mo, subito!”. E io subito sono andato e ora è una settimana che vegeto in ospedale, inventandomi le giornate nell’attesa di un intervento che non so quando sarà e a cosa mai mi porterà; scoprendo, a poco a poco, più per le soffiate degli infermieri che per le dichiarazioni dei medici, gli oscuri connotati dell’operazione.

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