sabato 14 febbraio 2015

Riflessioni e proposte

Dalle nostre parti, parlare di ambiente è come parlare di tutto e niente. Questo vuol dire che ufficialmente le tematiche legate al contesto ambientale, sia esso urbano che propriamente naturale, non sono mai state trattate con la giusta attenzione e soprattutto con la reale volontà risolutiva. Ormai da decenni alberga nei programmi di tutti i partiti e di tutti i governi la parola ambiente ma purtroppo solo in maniera fittizia e aleatoria e spesso con pochissima nozione di causa.

Questo accade, nel migliore dei casi, per l'incongruenza tra i vari piani di sviluppo territoriale e la sussistenza del nostro habitat. Questo accade a maggior ragione quando l'ambiente rimane solo una vuota parola e non viene visto come elemento fondamentale per la nostra esistenza e sussistenza e non lo si è considerato quale spunto di sviluppo per nuove tipologie di economia.

Da sempre all'ombra del Vesuvio si è portata avanti la tesi, fin troppo attuata, dell'edilizia quale unica tipologia di economia; una sorta di monocoltura e monocultura che ha portato alla cementificazione l'intero litorale partenopeo e vesuviano. Ma non solo, il paesaggio, una volta splendido ed invidiato, ne ha perso irrimediabilmente ma la stessa economia territoriale è stata fortemente depressa dal senso unico del cemento e del mattone e l'indotto che ne consegue, vanificando la pur unica agricoltura vesuviana e un terziario nato già morto, e questo in un'area teoricamente votata all'accoglienza per indole, patrimonio artistico e storico.

Detto questo si ribadisce lo sfacelo che ha procurato quest'egemonia dell'edilizia portando il Vesuviano e l'area metropolitana di Napoli ad essere una delle zone più densamente popolate d'Europa e con l'aggravante che questa dimori alle falde di un vulcano attivo. Il rischio apparentemente remoto ma allo stesso tempo falsamente stimato del rischio vulcanico è stato soppiantato da uno più immediato e conseguenziale al sovrappopolamento di quest'area ovvero quello dell'alto tasso d'inquinamento. Il forte congestionamento e lo sviluppo edilizio illegale e incontrollato ha ovviamente precluso ogni tipologia di organizzazione razionale per quel che concerne lo smaltimento della gran massa di rifiuti prodotta non solo dal Vesuviano ma anche dal milione e mezzo di napoletani che univocamente hanno sversato i loro rifiuti nelle cave vesuviane.

Nel caso specifico di Ercolano, l'area più esposta al rischio di contaminazioni di vario genere, è paradossalmente quella inscritta nell'areale del Parco Nazionale del Vesuvio, area tutt'altro che protetta e priva di ogni reale controllo.
Parlo ovviamente di San Vito e le zone ad esso limitrofe come quella delle Lave Novelle. La popolosa frazione a monte del centro storico è un compendio di fattori di rischio che vanno dai cavi dell'alta tensione ai ripetitori radiotelevisivi e telefonici, dalle antiche discariche poco controllate allora come oggi ai nuovi siti illegali di smaltimento rifiuti. Per anni le amministrazioni che si sono succedute, talvolta in connivenza con la delinquenza locale, hanno spazzato la polvere sotto al tappeto; per anni, in virtù di una malintesa real politik, si sono creati siti di stoccaggio provvisorio che di provvisorio hanno avuto solo il nome e che ancora oggi stanziano a monito per le future generazioni; un chiaro avvertimento del concetto di ambiente che chi ci amministra ha.
San Vito registra dei preoccupanti tassi di mortalità per neoplasie e l'incidenza di tali patologie è stata registrata dallo studio epidemiologico S.E.N.T.I.E.R.I. e da un più recente screening promosso dai comitati locali e dal Prof. Ciannella del Monaldi.

Questo delineato è un quadro che per difetto mostra lo stato del Vesuviano e in particolar modo quello del territorio ercolanese. Il nostro unico auspicio è quello che le prossime amministrazioni locali non facciano orecchio da mercante a chi chiede, più del diritto al lavoro, il diritto alla salute! Perché se è vero che il lavoro è necessario è anche vero che per lavorare serve la salute, concetto scontato ma troppo spesso demagogicamente declinato in favore di una parvenza di occupazione e a un più reale arricchimento di pochi clienti locali.

Vorremmo a questo punto proporre alcune buone pratiche da imbastire se non attuare nel lungo termine e sono le seguenti:

  • Mettere in sicurezza le discariche legali storiche e quelle recenti;
  • Censire le discariche illegali e le micro discariche (con la collaborazione delle associazioni di cittadinanza attiva);
  • Mettere intorno ad un tavolo Comuni, Regione, città metropolitana, Genio civile, Consorzi di Bacino e Consorzi di Bonifica, ente Parco e trovare le risorse e i mezzi;
  • Realizzare un coordinamento tra polizie locali e Corpo Forestale per la prevenzione del fenomeno degli sversamenti abusivi;
  • Realizzare le isole ecologiche fuori area Parco;
  • Realizzare un impianto di compostaggio;
  • Promuovere una corretta informazione sulla salubrità dei prodotti alimentari locali;
  • Promuovere uno screening a tappeto su tutta la popolazione di quelle aree rischio per confermare o meno l'incombenza di talune malattie e se queste scaturiscono da questioni ambientali, in modo da aver un attuale e inconfutabile punto di partenza su cui ragionare e operare;
  • Infine rendere fruibili e accessibili tutti quei luoghi che ora sono terra di nessuno poiché questa è la pratica migliore per il controllo del territorio.
  • Attuare una politica dei “vetri rotti” ovvero, là dove c'è chi scarica, sversa, inquina, deturpa o distrugge il bene comune ambientale, la società, intesa come cittadinanza e istituzioni, deve intervenire tempestivamente e ogni qual volta risulti necessario farlo e in modo tale da dimostrare chi realmente presiede il territorio.



Nessun commento:

Posta un commento