mercoledì 29 febbraio 2012

martedì 28 febbraio 2012

domenica 19 febbraio 2012

giovedì 9 febbraio 2012

Nous sommes l'Empire à la fin de la décadence

GIOVANNI ZENO L’ULTIMO CANTATORE SANSEBASTIANESE



La storia dei nostri centri urbani va avanti inesorabilmente per la sua strada perdendo talvolta pezzi importanti del proprio patrimonio culturale di quella cultura agreste che molti vogliono dimenticare.

Anni fa, sul Matese campano, conobbi un gruppo di musicisti e cultori delle tradizioni popolari, trascorremmo un piacevole Capodanno assieme, tra buon vino e tanta musica autentica. Tra una chiacchiera e l’altra vennero fuori le mie origini vesuviane e uno dei convitati, proveniente dal basso Lazio, mi chiese se conoscessi il mio compaesano Giovanni Zeno, prosecutore dei canti atavici alla falde del Vulcano. Io, all’epoca, non sapevo neanche che esistesse quell’uomo, anche se, vedendolo poi scoprii che il suo volto era a me più familiare di quanto immaginassi, perché l’avevo intravisto nelle feste popolari che amo frequentare.

Ho di recente letto un testo fondamentale per chi vuol avvicinarsi alla cultura musicale campana, Canti e tradizioni popolari in Campania, di Roberto De Simone, ormai introvabile nella sua prima edizione e chiesto in prestito a un amico. Spulciandolo, a primo acchito scorgo il nome di San Sebastiano, a pagina 45 del testo del ’79, e tre nomi saltano subito alla mia attenzione: Armando Gallo, Giuseppe Simeoli e Antonio Scarpato, intervistati dallo stesso De Simone, assieme a Maria Boccia D’Aquino sull’origine del culto delle varie immagini della Vergine esistenti in Campania, ed esecutori del primo dei brani dei dischi allegati all’opera del Maestro.

M’ero ormai arreso al fatto che a San Sebastiano non esistesse più nessuno a portare avanti la tradizione, parto quindi subito in quarta, per cercarli. La mia ricerca è però subito frustrata dall’inesorabile passo del tempo e dalla nostra umana natura; purtroppo gli ultimi due erano passati a miglior vita e Armando Gallo, Armanduccio ‘e Biase per i più, viveva ormai da tempo a letto malato e irrimediabilmente alieno da ogni terrena velleità. E dire che da ragazzo lo incontravo spesso sul 175, quando andavo all’università, nella sua fiera posa e col suo inseparabile cappello da pescatore.

In questi giorni, poco dopo le celebrazioni del Santo Patrono, chiacchierando con dei conoscenti mi si apre un’altra strada, riprendo così le mie aspirazioni di Lomax in erba e tento di entrare in contatto con l’unica persona rimasta in paese a conservare il ricordo dei tempi che furono, Giovanni Zeno.

Giovanni ‘e Tittina ‘e’Lena (sessantasei anni) lo incontro a casa di amici, al tepore di un caffè mi immette per un’oretta nella San Sebastiano di altri tempi, quella rurale, autentica, ormai passata. Giovanni è gioviale, è contento ed emozionato per l’interesse rivoltogli ma in maniera affabile mi intrattiene con quelle filastrocche delle sue e con i ricordi della sua gioventù, quando San Sebastiano era ben diversa da oggi, quando la vita era dura e si usciva di casa semplicemente per guadagnarsi un piatto di fagioli. Mi racconta di un paese dove la vita e il lavoro erano scanditi dal susseguirsi delle stagioni e dove si riusciva a convivere con la natura stessa che le produceva, senza grandi compromessi. Il suo ricordo volge a quei contadini del mese di marzo, che facevano i “fischietti” con la corteccia dei rametti di pioppo e suonandoli scendevano a valle, lungo l’unica strada che dalle campagne a monte portava in centro. Là, i contadini, dopo la dura giornata di lavoro «addoppo d’a zappa», trascorrevano qualche momento in allegria di vino e musica sotto ‘o Suppuortico, identificabile con l’attuale Via Plinio, lenendo così la fatica quotidiana e propiziando l’incipiente primavera. «Ma ch’erano gente’e fierro!» esclama Giovanni Zeno, riferendosi a quegli uomini d’altri tempi.

Gli chiedo notizie sulla sua arte, che lui definisce passione, e su quelle persone che la celebravano; mi dice che li conosceva tutti e tre, e che Giuseppe Simeoli (classe 1938) era anche suo parente «era la tradizione prima di noi!». Nell’84 riuscirono, capeggiati da Armanduccio Gallo, ad allestire una paranza del Carnevale, con tanto di carro e sfilata, ma durò solo qualche edizione, «si sa come vanno queste cose, per i soldi e perché ognuno vorrebbe le cose a modo suo e va a finire che non si fa più nulla.»

Che tipo di canto facevate, gli chiedo, lui mi parla del canto a tammorra, di quello di bella figliola ca te chiamme Rosa, di quello più simile a Somma Vesuviana, dal ritmo più scandito e lento rispetto a quello dell’Agro Nocerino/Sarnese. Un momento fondamentale era quando, il lunedì in albis, ci si incontrava, fino a una quarantina d’anni fa, proprio a San Sebastiano, fuori la chiesa e dove si celebrava con canti e danze la festività, assieme a chi transitava verso Cercola o Torre del Greco, proveniente da Madonna dell’Arco.

La conversazione prosegue inevitabilmente sul ricordo del passato di quando l’uccisione del maiale era un momento topico, di quando si consumava finanche il sangue dell’animale, facendolo quagliare per poi friggerlo, di quando si portavano i bambini con problemi di respirazione nelle stalle a respirare i vapori del benefico stallatico; che direbbero oggi le signore griffate chiuse nelle loro scostumate Smart e i loro mariti parvenu dal SUV facile di tale scenario così poco chic?

L’allegria agreste e scanzonata di Giovanni ci pervade ma si guasta quando si tocca quell’argomento che potremmo definire edilizio, «per me San Sebastiano, com’è oggi fa schifo! Potevano fare come a Pollena, una parte vecchia e una nuova. Pecché hanna jettato tutta cosa pe’terra?! Di fronte la chiesa c’era un palazzo che si chiama ‘e Roberto ‘e Caffettere, tu pecché me l’e jetta pe’terrà? Nun’o putiva restaurà? Pecché m’e luvato ‘e palazzi antichi ‘a miezzo?»

lunedì 6 febbraio 2012