Una riflessione su quanto l’incertezza ci accomuni tutti in una psicosi di massa, dove il senso critico e il comune buon senso latitano in favore del pregiudizio.
Mai come in questi tempi si impongono nel nostro contesto sociale stereotipi e luoghi comuni e mai come oggi si diffondono in maniera tanto rapida e purtroppo credibile. Il vettore telematico, internet su tutti, è acquisito, soprattutto presso i giovani come una sorta di verbo. Quante volte ci saremmo sentiti dire, l’ho trovato su internet, stava scritto su Wikipedia e così via, un po’ come una volta si affermava acriticamente, l’ha detto la televisione.
Ad ogni modo, di questi tempi, non avrei mai pensato di dover constatare quanto luogo comune aleggi tra la nostra società che, nonostante l’avanzare della tecnologia, persevera nel portare avanti certi pregiudizi.
L’esempio dei rom calza a pennello. I rom, quelli che ci ostiniamo a chiamare, con mal celato disprezzo ancora zingari, è per me il più eclatante e lo è, non solo per il fatto che si attribuiscono a questa etnia caratteristiche e colpe peculiari (perché, per fortuna, pregi e difetti non lo sono per nessuno) ma anche perché, loro, ultimi tra gli ultimi, mettono in luce un annullamento del raziocinio e del senso critico più forte che in ogni altro contesto.
Inizierei con un esempio recente, ma che, a suo modo, contiene molto dell’antico pregiudizio verso i nomadi, ovvero il fatto che essi rubino soltanto. Risulta chiaro che essendo esseri umani e quindi anche loro soggetti a sbagliare, esisteranno ladri anche tra rom ma sembra assurdo che, ogni qual volta si parli di furti in casa, rapimenti reali o presunti che siano e scomparse di minori, si pensi sempre, solo e in primo luogo a loro; spesso poi confondendoli con diverse etnie e spesso avallando storie poco credibili e che magari coprono malefatte altrui e più genuinamente nostrane.
Da giorni, nel Vesuviano circolano nuovamente delle fotocopie con dei segni riconducibili, secondo la didascalia, a un “codice segreto degli zingari”, e che questi ultimi userebbero per segnalare le case più o meno “visitabili” dai loro compagni malfattori e zigani. È evidente che tale codice, se così diffuso sarà tutt’altro che segreto (sono almeno una decina d’anni che, a più riprese, circola attraverso internet in una sorta di catena di Sant’Antonio ma ne esistono esempi anteriori e in altri paesi europei). Oltre tutto, che beneficio otterrebbero i nostri vicini rom a mettersi in evidenza, in un contesto che li vede già nell’occhio del ciclone e additati come maggiori sospettati? Ma ripeto, in questo contesto la ragione c’entra ben poco, perché prevale la granitica certezza del pregiudizio che sorregge la fragile impalcatura della nostra coscienza e soprattutto ci accomuna nella nostra incertezza rispetto a un’attualità tutt’altro che consolatoria.
In questo contesto poi si aggiungono programmi televisivi come le Iene, che oggi hanno maggiore valenza della forza pubblica e delle istituzioni e, mi ripeto, della stessa ragione.
C’è poi chi vuole a tutti i costi vedere qualcosa e non si dà pace, non si rassegna al fatto che, come le cinture di sicurezza stampate sulle magliette a Napoli (per saperne di più http://www.ciaravolo.it/maglietta.html), così i codici degli zingari non sono altro che una leggenda metropolitana; certificata! Ecco così che, come chi vuole a tutti i costi vedere Padre Pio o il Volto Santo in una macchia d’umidità sul soffitto, c’è chi vede, allo stesso modo, croci e simboli, tanto elementari che chiunque potrebbe averli segnati e per i più svariati scopi e casualità.
Ma tanto è inutile, è come quando volevi spiegare che la spazzatura a Napoli (e l’accostamento non è casuale, visti i luoghi comuni che ci vedono relegati in una classifica lievemente al di sopra di nomadi e cinesi) c’era, anche quando Berlusconi diceva il contrario, era troppo bello poterlo credere e così vale per i rom; è sembrato bello avere a disposizione qualcuno più disgraziato di te, da additare per le storture del mondo. Per molti è gratificante trovare un capro espiatorio con cui prendersela, tanto loro, i rom, sono talmente distanti dalla nostra cultura, da ogni apparato socio-politico, che quasi nessuno spenderà forze e parole in loro difesa, senza essere tacciato di illuso, buonista o quanto peggio. Del resto, l’ultima campagna elettorale non è certo andata più di tanto lontano da simili concetti.
Come mia abitudine cerco di sondare le opinioni di chi mi è attorno parlandogli delle mie perplessità, e c’è chi mi garantisce di averli visti quei segni, chi ne ha sentito parlare da fonte certissima e chi mi guarda con sospetto e sufficienza.
Non pago di ciò, decido di recarmi presso la forza pubblica. Mi reco al commissariato di polizia più vicino, dove, con grande stupore, noto, attaccata ad un muro una fotocopia del codice degli zingari. Chiedo spiegazione a chi mi accoglie e mi si dice che a loro non risultano segnalazioni a riguardo e nessuno dei furti di questi ultimi tempi ha avuto correlazioni col fantomatico codice. “E la fotocopia?” – “l’avranno messa lì per eventuali riscontri!”. Vabbè! Mi consigliano di rivolgermi ai più informati carabinieri.
Così faccio, i militari mi confermano che nessuno dei furti avvenuti di recente è collegato a segni o simboli di chicchessia o qualsivoglia natura, anzi, mi dicono che per loro è tutta una bufala e che la gente facilmente si lascia suggestionare, diffondendo così storie, come quella dell’uso del gas soporifero, senza alcun riscontro oggettivo. Del resto risulta difficile ammettere che, mentre ti svaligiavano casa, te la dormivi placidamente.
Allego a compendio del post questa e-mail di G.Caro Ciro,
poco fa ho letto un articolo sul fantomatico "codice", stavolta apparso a Palermo.
Ne ho scritto una riflessione sul mio GooglePlus, che però tengo a farti leggere.
Buona serata.
G.Giornalismo qualunquista, superficiale e razzista.
Romina Marceca, della redazione palermitana di "Repubblica", ieri ha scritto un articolo [QUI] su una delle bufale più diffuse e inarrestabili che circola nel nostro Paese, quella di un presunto "codice segreto" (segreto per chi, ormai?) che verrebbe usato dai ladri (ovvero: rom, zingari, nomadi) "per depredare gli appartamenti". Si tratterebbe di un elenco di simboli che i malfattori inciderebbero sui portoni degli appartamenti, ma dei quali non s'è mai vista nemmeno una fotografia. Già questo basterebbe per suggerire molta cautela, ma invece l'articolista è piena di certezze e si lancia andare ad una serie di affermazioni di cui sarebbe interessante vedere le prove. Il pezzo è una sequenza imbarazzante (e irritante) di stereotipi e pregiudizi, di cui è semplice riconoscere alcuni elementi ricorrenti:
è in corso un'ondata di furti ("È allarme in città per i furti in appartamenti da parte delle zingare nel salotto della città"): la storia del fantomatico "codice" riemerge sempre in concomitanza con un presunto acuirsi dei crimini; questo è un fenomeno ciclico che ha a che fare più con una percezione generale di crisi che con dati e percentuali concrete;
i ladri sono gli "altri" (i marginali, ovviamente, cioè rom, stranieri, donne, per il cui sospetto non serve alcuna prova: "I militari, proprio due giorni fa, hanno arrestato due croate di 22 e 24 anni. Stavano tentando di aprire la porta di casa di un anziano in via Emerico Amari");
i ladri, anzi le ladre, sono particolarmente intelligenti, delle vere e proprie "criminal minds":
fanno leva sulla nostra benevolenza ("Ma perché in azione entrano sempre più spesso le nomadi, soprattutto incinte? È una scelta tattica. In carcere restano appena 24 ore per le loro condizioni di donne gravide e destano meno sospetti degli uomini, anche perché si portano dietro i bambini")
e sulla nostra impreparazione (usano un codice "segreto", appunto: "È il codice utilizzato dalle ladre rom per derubare gli appartamenti. Prima dei raid le nomadi incidono sulle porte e i citofoni alcuni simboli fatti di cerchi, linee e lettere. E da qualche giorno utilizzano anche il mercurocromo per rendere indelebile il loro passaggio"),
inoltre vestono in maniera strategica ("Hanno gonne lunghissime sotto le quali nascondono di tutto: dai bottini agli arnesi per entrare nelle case, fino ai loro bambini che mandano all'assalto per poi proteggerli durante la fuga")
e sono dotate di caparbietà e acume ("Sono abilissime e veloci. E soprattutto non si perdono d'animo. Riescono a restare per ore davanti a un palazzo per riuscire a carpire quanto più possono sugli inquilini"; per loro le porte blindate non hanno segreti: "Utilizzano le bottiglie di plastica, ad esempio quelle degli shampoo: le tagliano a metà, le appiattiscono e le inseriscono a mo' di scheda tra l'alloggio del chiavistello e lo stipite della porta"; addirittura "Le rom non temerebbero nemmeno i cani, che vengono narcotizzati durante i colpi");
chi racconta questi fatti è sempre certo della loro autenticità, ma (quasi) mai ne è testimone oculare ("I miei vicini di casa hanno visto due zingare che segnavano la mia porta di casa mentre io ero dentro da sola e la mia famiglia era fuori. Hanno segnato anche altre due portee qualche citofono. Abbiamo avvisato i carabinieri che ci hanno detto di stare attentissimi perché lo fanno quando hanno intenzione di entrare in casa").
Qualche mese fa l'ondata di furti da parte dei rom mieteva vittime nell'area est della conurbazione napoletana. Anche allora si parlò del "codice" dei rom (esattamente lo stesso di questo palermitano). Ciro Teodonno su "Il mediano" ne scrisse un pezzo molto diverso da quello di Romina Marceca, intitolandolo opportunamente "Non sono io razzista, sono loro che sono zingari!" [QUI]. Oltre a raccontare le dinamiche del pregiudizio, Teodonno si è correttamente impegnato a controllare le sue fonti recandosi dai carabinieri: "i militari confermano che nessuno dei furti avvenuti di recente è collegato a segni o simboli di chicchessia o qualsivoglia natura, anzi, dicono che per loro è tutta una bufala e che la gente facilmente si lascia suggestionare, diffondendo così storie, come quella dell’uso del gas soporifero, senza alcun riscontro oggettivo".
Concludo evidenziando che sia nel caso napoletano (in particolare di San Sebastiano al Vesuvio), sia in quello palermitano, il "codice" (e tutto ciò che porta con sé) è emerso in concomitanza con le elezioni amministrative locali.