domenica 21 dicembre 2025

L'Alibi

 

A volte credo che le persone cerchino degli alibi per stare a posto con la propria coscienza e continuare a fare, così come facevano prima, ciò che volevano. Un po’ come fa quel ragazzo che getta la carta a terra forte del luogo comune del così fan tutti, ma lo fa con la mano dietro le spalle, per evitare che qualcuno possa vederlo, perché lui sa che non è corretto farlo, gliel’hanno detto a scuola, ma è più forte di lui, la pressione sociale di un mondo retrogrado, opportunista ed egoista gli impone di non tenere quella la carta in tasca fino al prossimo cestino perché, così come il pacchetto di sigarette e l’involucro delle caramelle, va gettato sull’asfalto, perché non è degno conservarlo, il vero uomo usa e getta, non conserva ciò che non serve, né tanto meno ricicla, perché: “tanto mischiano tutto”. Chissà quanto c’entri in tutto questo il nostro ormai consolidato consumismo o l’effettiva ignoranza nel distinguere ciò che organico da ciò che è inorganico o da ciò che è tuo da ciò che è di tutti.

Questo ed altro pensavo ieri durante l’escursione da me organizzata per la Sottosezione CAI Vesuvio, in commemorazione del trentennale della morte di Angelo prisco. Lo pensavo quando camminavo tra il lapillo lavico di una Valle dell’Inferno ridotta realmente ad un qualcosa di infernale dall’ultimo e disastroso incendio, uno scenario post-atomico, monumento trionfale della nostra insipienza. Pensavo a quante menzogne sono state dette durante quell’incendio, quante bufale sono state diffuse pur di non ammettere le nostre di colpe, ovvero quelle di non curare il nostro patrimonio, quelle di gridare allo scandalo solo a cose fatte e cascare dalle nuvole ostentando finta indignazione e senza per questo aver fatto nulla in quegli otto anni di intervallo dall’ultimo grande incendio. La stessa ipocrisia di chi si ostina ancora a voler vedere altro dietro l’omicidio di Angelo Prisco, la stessa ostinata incapacità nel non voler vedere la mafia che è in noi, la camorra che abbiamo dentro, perché le colpe non sono mai nostre, sono sempre di qualcun altro e ancor meglio se dietro di queste si nasconda un oscuro complotto a far danni e protrarli nel tempo, in tal modo allontaneremo ancor di più le nostre responsabilità e la soluzione stessa di ogni problematica.

Arrivando allo Slargo della legalità, con la tristezza dentro trovo, accanto alle immancabili bucce d’arancia e di banana, ormai caratteristiche della pinetina che persiste nello Slargo, un inusitato cumulo di rifiuti attorno ad un secchio, anch’esso di recente acquisizione. Fatta la sosta pranzo e siccome eravamo in tanti e forniti di buste, decidiamo, che sia opportuno raccogliere quello schifo. Svuotando il secchio, scopro sul fondo, tra i rifiuti, una pietra lavica, messa lì a mo’ di contrappeso. Ne deduco che chi l’aveva messa, sapeva cosa faceva e perché lo faceva. A questo punto, pur concedendogli il beneficio della buona fede, sappiamo benissimo come vanno a finire le cose dalle nostre parti quando si lascia la spazzatura per terra e, soprattutto, chi li avrebbe mai raccolti fin lassù tutti quei rifiuti contenuti in quel secchio? Se L’ente parco ha deciso di non mettere i cestini per la loro raccolta lungo i sentieri, c’è una ragione, c’è una logica , se non altro legata al fatto che quel luogo sia impervio e raggiungibile via terra solo con mezzi speciali a trazione integrale oltre che a piedi. Sappiamo anche molto bene che, con la tristissima esperienza fatta con l’emergenza rifiuti del nostro recente passato, ma anche guardando le corsie di ingresso e i cavalcavia della SS 268 e della SS 162, che basta un sacchetto gettato in una zona di passaggio per generare una piccola discarica, perché è risaputo che, se lo fanno gli altri, quasi per istinto lo faccio pure io, e posso farlo gratificandomi dello stato miserrimo dei luoghi e di non avere il primato del primo lancio e magari prendendomela anche con lo stato che non pulisce; tanto, lo ripeto, la colpa, è sempre degli altri.

Quindi chi ha messo lì quel secchio pensava di aver assolto ai suoi doveri civici perché aveva dimostrato la buona volontà di mettere un recipiente per i rifiuti, senza sapere che aveva invece innescato un processo negativo che avrebbe rischiato di creare in quel luogo, per emulazione, una discarica fatta di bottiglie di plastica, scarto organico alimentare, involucri di barrette energetiche e gel proteico dei tanti sportivi che frequentano la zona e che di certo rientrano nel novero di cui sopra, ovvero di coloro che nel loro sforzo fisico non possono pensare a come disfarsi in maniera ecologica dei propri rifiuti, ed ecco la trovata del secchio! E così ci si pulisce anche la coscienza, ma non di certo il Vesuvio.

Inutile infine parlare di teoria de vetri rotti e di uno stato pressoché assente in quel contesto perché affronteremmo un contesto troppo elevato per chi vi sovraintende e soprattutto, anche in quel caso, la colpa sarà, ancora una volta di qualcun altro e magari pure la mia che scrivo di queste cose.

giovedì 18 dicembre 2025

Per Angelo

 


19/12/1995 - 19/12/2025

A trent’anni dalla sua barbara uccisione per mano dei bracconieri, la figura e il sacrificio di Angelo Prisco rimangono ancora nell’oblio istituzionale e popolare. Un caso più unico che raro, soprattutto per un uomo in divisa. Una storia che merita un’opportuna riflessione, oltre che il doveroso ricordo.

Trent’anni sono tanti e ne bastano molti di meno per chi vuol dimenticare, ma non per chi vive ancora di principi e segue ancora l’esempio di chi l’ha preceduto. Trent’anni sono un batter d’occhio nelle misere vicende umane ma, malgrado tutto, a tanti anni di distanza, non mi capacito ancora del fatto che, Angelo Prisco, non ne aveva neanche trenta di anni quando è stato ucciso, ne aveva ventisette ma aveva ben chiaro cosa andasse fatto.

Per i più, Angelo aveva sbagliato, nella forma e nei contenuti, la sua azione, perché era salito da solo per arrestare chi infrangeva la legge, quella di una neonata area protetta, ma la cosa peggiore che potesse fare quel ragazzo, non è stata quella di morire, ma è stata quella di aver creduto in un qualcosa di sacro e purtroppo assai volubile dalle nostre parti, aveva creduto nella legalità, nel rispetto di quel principio per il quale dovesse esistere una regola univoca, un territorio morale oltre che legislativo, comune a tutti, dove tutti avessero pari diritti e, allo stesso tempo, uguali doveri. Ma è cosa ben nota che qui da noi, i diritti li pretendono tutti, ma quando si tratta di rispettare le regole, i doveri diventano imposizioni, e tutti diventano anarchici con la libertà altrui.

Angelo era di San Giuseppe Vesuviano, vi ha vissuto in un periodo nel quale la camorra era la regola e non l’eccezione in quel territorio e la mafiosità era l’humus che l’alimentava e che l’alimenta ancora oggi, anche se in maniera più subdola e nascosta di ieri. Angelo Prisco aveva deciso, con la sua morale e con la sua divisa, di scardinare quella paratia stagna che separava la nostra terra dal mondo civile, ma ha commesso il più grave degli errori: ha deciso di essere libero, mettendo in luce la cultura della prevaricazione e pagandone le spese al prezzo più alto. La sua decisione di bloccare due bracconieri, non ha solo posto fine alla sua giovane vita, non solo ha gettato nella disperazione la sua famiglia, non solo ha disilluso tutti coloro che avevano creduto nella nascita del Parco Nazionale del Vesuvio, salutandolo anche come presidio di legalità; Angelo ha fatto l’errore più grave mostrandoci la nostra reale essenza, quella retta da un familismo prepotente che assolve tutto e tutti purché circoscritti all’interno di quel cerchio di appartenenza. Angelo ha per questo subito l’onta dell’oblio, non prima però di diventare bersaglio degli strali di tutti, perché Angelo, con il suo andare contro corrente, contro una visione edulcorata e fittizia di ambientalismo e del rispetto delle regole, aveva messo in luce l’ipocrisia di una società civile che gli si è rivoltata contro proprio perché ferita e messa a nudo con tutti i suoi difetti e le sue remore. La damnatio memoriae di Angelo Prisco continua ancora oggi, non rientra nelle vittime innocenti delle mafie perché non c’è una sentenza definitiva a sancirlo, e questo a prescindere dal fatto che non ce ne siano neanche per altri casi, entrati comunque e giustamente a pieno titolo nel triste novero. Manca il marchio di fabbrica istituzionale, quasi come se il suo sacrificio offuscasse la figura di qualcuno o qualcosa; sembra assurdo doverlo ripetere ancora una volta, ma a sancire l’esistenza delle mafie e della mafiosità non c’è bisogno di una sentenza per ribadirlo, basta scendere per strada o affacciarsi a un balcone per vederne i deleteri effetti. Purtroppo però, a distanza di trent’anni, la nostra terra non è ancora riuscita a fare i conti con i propri demoni, preferendo accettarli come parte di sé, assimilandoli, e non come un male incurabile da estirpare, spesso giustificando ciò che non può essere più giustificato.

Meglio parlare quindi d’altro, meglio parlare del calcio, di Maradona, delle eccellenze italiche e partenopee, dei Borbone e del nemico di turno sotto le alterne spoglie dell’ostile settentrionale o del subdolo magrebino, meglio coprire tutto con un alibi invece di guardarci dentro, temendo ciò che potremmo trovarci. Anche per l’omicidio del maresciallo della Guardia di Finanza, Angelo Prisco, così come accade con tutte quelle problematiche che non si ha il coraggio di affrontare, il complottismo è stato un utile servo, tale da creare confusione, tale da creare quella cortina fumogena che separa e, ahinoi! Separerà ancora, i vesuviani dalla normalità, dalla verità e dalla libertà.

martedì 9 dicembre 2025

Un Natale banale

 

Alla ricerca del vero significato di queste feste, un significato che valga per tutti e che non sia relegato a un qualcosa di effimero, utile solo ad esorcizzare le nostre frustrazioni e a svuotare i nostri portafogli.

Quando ero piccolo mi incantavo davanti alle luci dell’albero e giocavo con le statuine del presepe, per me questo era il Natale, otre a tutto ciò che era la liturgia della festa più importante della cristianità e che da bambini vivevo come la favola più bella. In verità, per noi, l’acme delle feste giungeva quasi sempre il 5 gennaio, con l’attesa dei doni della Befana, un’attesa che incominciava anche giorni prima, subito dopo i fasti di Capodanno e culminava con mamma e papà che ti svegliavano la mattina del sei gennaio per avvertirti che era passata la birbante vecchina e ti aveva riempito di doni. Il ricordo dei miei genitori, forse più impazienti di noi nel voler vedere la reazione dei propri figli davanti al giocattolo tanto desiderato o alla sorpresa di uno inatteso, oggi è il ricordo più bello e toccante di quell’evento.

Questa era dunque la festa, quella che cominciava con l’attesa dell’avvento, con l’arrivo dei parenti da fuori, i giochi con i cugini e l’ordinarietà di una ricorrenza straordinaria, un qualcosa di nuovo e di antico, che si ripeteva ogni anno, fin quando la crescita non ti smaliziava e ti immetteva, in maniera più o meno brusca, nel mondo degli adulti. Questo era il Natale dei miei tempi, gli anni settanta, quelli della mia infanzia spensierata, quella che ogni bambino dovrebbe avere. Da allora le cose sono cambiate e, da adulto, ho incominciato a vedere il mondo con altri occhi, cercando però di non perdere quella capacità di vedere la poesia nelle cose, quella che ti rende la vita meno dura da accettare. Devo però constatare che i miei coetanei non sembrano aver capito questo compromesso, pare che non vogliano essere adulti, non più di tanto del minimo sindacale a loro concesso. Noto infatti che in loro sia rimasto molto di quel bambino che, almeno io, ho ormai da tempo accantonato, in serbo per altre emozioni e altre scoperte. Quello che scorgo in loro, non è la ricerca di una spiritualità perduta, ma è la voglia di un passato irripetibile e di un isolamento dalla realtà che ti fa perdere d’occhio le cose essenziali del mondo e, in questo caso, della stessa festa del Natale.

Senza soffermarmi sull’aspetto consumistico di questa ricorrenza, tanto inflazionato da divenire esso stesso un stereotipo, oramai analizzato in tutte le sue parti e, scontatamente accettato come i punti di PIL che smuove, di queste feste mi interessa molto di più il loro aspetto culturale, per non dire simbolico. Vivendo in un paese sedicente cattolico, il presepe, nel suo significato e aspetto più popolare, ci mantiene ancora ancorati a una tradizione e a una pietas che sa ancora di cristianesimo ma tutto il resto è un’orgia di colori, suoni e valori che poco hanno a che vedere con le celebrazioni per la nascita di Gesù. Si è ormai imposta un’iconografia con pochissimi riferimenti a Betlemme e alla mangiatoia ma richiama a un mondo immaginario, fortemente intriso di simboli anglosassoni, talvolta celtici, immagini imposte da decenni di cinema a stelle e strisce, dove la figura del Bambinello passa in secondo piano, relegata alle enclave delle chiese o, nel migliore dei casi, nel calore di qualche casa tradizionalista.

Il culto non è solo quello, pur sempre ancestrale, dell’albero ma soprattutto quello di un Babbo Natale che canta canzoni inglesi, canzoni che parlano, così come gli infiniti film natalizi, di relazioni amorose tra uomo e donna e non di amore universale. Un Santa Claus quindi mistificato e lontano anni luce da quel San Nicola che vorrebbe rappresentare. Poi ci sono i tanti, troppi e finti schiaccianoci a mo’ di soldatini d’antan che popolano ogni dove e di ogni dimensione, dal negozio sotto casa all’ambito domestico, senza che nessuno ne capisca il significato, ammesso che ne abbiano uno reale; comprati perché fanno tanto Natale, e perché se tutti ce l’hanno ci sarà pur sempre una ragione. Luci poi, luci a tutta forza, come se non ci fosse un domani! Belle, senz’altro belle, tanto da dimenticarsele accese, ma anche fulminate, lasciate fuori i balconi per tutto l’anno, come per prolungare la festa e l’illusione che questa si confonda con la vita che è, nella sua amara quotidianità e per l’umana contingenza che ci affligge, tutt’altro che allegra, spensierata e luminosa.

In verità, queste feste, nella loro spasmodica ricerca del nulla, sia da acquistare che da celebrare, sono tutt’altro che allegre e spensierate, aumenta il traffico, la gente spende tutta la tredicesima e oltre nella ricerca di una felicità che forse è altrove e che invece vorrebbe sintetizzare hic et nunc in una sola lampa’e fuoco, proprio come fa, e purtroppo non solo a Natale, con i fuochi d’artificio.

Il cristianesimo, si badi bene, perché parlo di altro, di un qualcosa che non è legato alla liturgia della chiesa cattolica, apostolica e romana, va a farsi comunque benedire, ma sicuramente anche a farsi friggere visto il tenore alimentare delle celebrazioni, in un contesto pieno di renne, babbi Natale ed annesse mamme Natale, in versione quasi sempre sexy, perché è chiaro, là dove tutto è in vendita, anche il corpo delle donne lo è a maggior ragione, come sempre accade qui da noi. E poi elfi, bastoncini di zucchero, quelli che nessun bambino mangerebbe mai, ammesso che li si trovino da qualche parte e che non siano di polistirolo. Ed ancora fiocchi di neve, ovunque, anche col cambiamento climatico, ma anche orsi polari, pinguini e slitte, tutto in un vortice che ti centrifuga in un contesto sempre più fine a se stesso e che ti fa talmente perdere il contatto con la realtà delle celebrazioni e molto spesso con quella della vita quotidiana da pensare che sia tutto normale e che questo sia l’autentico spirito natalizio.

Il Natale tutto l’anno quindi, come la televisione 24 ore su 24, i negozi aperti sempre, e la connessione infinita a una rete che ti illude e ti rincoglionisce sempre più, bersagliandoti di informazioni, immagini e concetti che non sai neanche più interpretare perché, così come accade con l’isteria natalizia, non hai neanche il tempo, e forse neanche i mezzi, per farlo.

Eppure basterebbe poco per fermarsi un attimo, basterebbe chiudere gli occhi e ricordare quello che eravamo da piccoli, ma temo che per i millennials, così come per quelli che verranno dopo, sarà alquanto difficile farlo, loro, la spiritualità del Natale, non l’hanno mai conosciuta, perché probabilmente neanche noi la conosciamo più per insegnargliela.

A questo punto confido nella Pasqua, quella delle processioni, quella delle tradizioni meridionali, quella che, per fortuna, negli USA e a Hollywood non conoscono ancora.

Immagini create con l'IA

Per approfondire

lunedì 3 novembre 2025

L’incrocio napoletano


 Se c’è qualcosa che racchiude l’essenza di ciò che è Napoli e il suo entroterra è il modo di guidare in questi luoghi, il famigerato caos e l’anarchia delle strade partenopee è speculare alla visione del mondo all’ombra del Vesuvio. Certo, l’elasticità è una dote che ci contraddistingue e fa sì che, sin da bambini, impariamo a cavarcela in ogni situazione; ma Napoli non è il mondo, Napoli è fuori dal mondo! La contingenza napoletana, i famosi contrasti sono belli da raccontare ma non piacevoli da vivere.

Le nostre strade sono il riassunto di leggi non scritte che, agli occhi di chi viene da fuori, generano ilarità perché non la vivono quotidianamente ma per chiunque abbia un minimo di raziocinio o ne abbia conosciuto gli effetti secondari non trovano altra definizione che quella dell’illogicità e della follia.

L’esempio eclatante di questo stato delle cose è quello degli incroci, là dove quando un forestiero o un sognatore si fermano allo stop per dare la precedenza, chi ce l’ha, pur avendo la corsia di destra libera si pianta davanti allo stop, abituato, per un ormai statutario costume, nel tagliarlo contromano. Se lo sai, se conosci questo modus operandi, bene, te ne fai una ragione, se superi indenne questa situazione di stallo, meglio! Ma se accade qualcosa? Allora lì, l’eccezione napoletana cede il passo alla normalità delle leggi, quelle che prima non avevano né senso né applicazione.

Sentirsi anarchici, al di fuori delle norme, può anche farti sentire meglio, oltre che agevolarti, ma questo accade fin quando sei giovane, forte e fin quando non lasci Napoli e provincia dove hai le spalle coperte da un familismo che ti corre in aiuto con tutta una serie di agganci per ricondurre l’incidente alla normalità partenopea e senza per questo capire l’anomalia del fatto.

Napoli si regge su di un equilibrio imperfetto, una bolla spaziotemporale che si apre al di qua del Garigliano e si inabissa nel golfo come una sorta di buco nero che inghiotte tutto e tutti. Napoli è ineluttabile e questo non la rende né migliore né peggiore di tante altre città ma la rende eterna e sublime nella sua folle unicità.  

mercoledì 29 ottobre 2025

L’occupazione delle idee


Ogni anno di questi tempi c’è chi, a scuola, non ci vuole proprio andare e, vista la vicinanza di festività e ponti, quasi per tradizione, decide, per una ragione o per l’altra, di prolungare la pacchia fino Natale con l’occupazione.

Lungi da me privare gli studenti del loro diritto a manifestare le proprie idee ma, col rischio di sembrare un vecchio Solone, e magari anche con quello di esser scambiato per un destrorso, mi sono sempre chiesto il perché, queste occupazioni accadessero sempre a ridosso del ponte dei Morti o delle vacanze natalizie. La stessa domanda la feci a un giovinastro che, volando sulle ali della presunzione e sulle basi di una scuola fatiscente, inneggiava ad occupare gli edifici del nostro istituto per protestare contro i mali del mondo. Allora, sicuro della sua risposta, provocatoriamente gli chiesi: “vuoi occupare la scuola perché ci sono tanti problemi che non si affrontano? Va bene! Sono d’accordo, facciamolo assieme! Ma in primavera!” -  Inutile dirvi che il giovanotto mi guardò con aria inebetita e, guardandomi stralunato mi disse: “ma chistuccà che vo’!? Ad aprile accumenceno ‘e gite!”.

Educare è cosa assai complessa e, far capire ai giovani, il sottile confine tra il sacrosanto diritto di manifestare il proprio dissenso e l’illegalità, non è facile, e non lo è nella misura in cui neanche gli stessi adulti lo capiscono. Basterebbe vedere ciò che accade nelle manifestazioni di piazza, quelle che nascono pacifiche ed ecumeniche e terminano con le auto e i cassonetti incendiati, con feriti e arresti. Ma, ciò che è più grave, è che appunto gli adulti, anche quelli più radicali e che inneggiano alla legalità con la elle maiuscola, oramai, ritengono che l’occupazione sia un diritto acquisito, un rito di passaggio obbligatorio per ogni studente che si rispetti.

Da parte in causa, ma soprattutto da educatore, prima ancora di essere un insegnate, devo sottolineare ai miei studenti e ai loro genitori, e purtroppo anche a molti miei colleghi, che l’occupazione è un atto illegale, l’occupazione è un reato!

La Corte di Cassazione ha infatti stabilito che l’occupazione degli edifici scolastici è un reato, anche se pacifica e di breve durata, poiché ostacola gli studenti e il personale non partecipanti nello svolgimento delle loro attività e interrompe il servizio pubblico. La sentenza n. 7084/2016 ha di fatti confermato questa interpretazione.

L’art. 340 del Codice penale è la norma di riferimento che punisce chi interrompe o turba un servizio pubblico, prevedendo la reclusione fino a un anno, arrivando poi a due anni se la condotta avviene durante manifestazioni pubbliche e infine, da uno a cinque anni, per capi, promotori o organizzatori. Ma esiste anche l’art. 633, sempre del codice penale il quale sancisce che con "l’invasione arbitraria di immobile", la pena può arrivare fino a due anni di reclusione. Il tutto quando poi non si verificano anche atti vandalici verso gli edifici in questione.

Visti i presupposti, io ci andrei, di conseguenza, molto cauto nel giustificare atti del genere, soprattutto se ricopro cariche politiche o se lavoro nella scuola, ma ancor più se sono un genitore. Non solo si insegna ai giovani che la legalità esiste solo a parole, dando un esempio di forte ambiguità, ovvero la cosa peggiore che un adulto può trasmettere a un ragazzo, ma spesso, c’è pure chi usa gli studenti e le loro manifestazioni come arma politica verso una parte avversa.

Nella mia lunga esperienza, prima come studente universitario e poi come docente, ne ho viste di occupazioni, spesso con principi anche condivisibili ma poi, il risultato di queste, oltre alle devastazioni dei locali pubblici, è stato solo il marasma generale, un mettersi in mostra di molti giovani aspiranti politici, politicanti e sedicenti rivoluzionari che ho poi visto ben presto passare con il loro abbigliamento alternativo dell’epoca, con i loro capelli rasta e gli stracci di Resina, alla giacca e cravatta, il capello impomatato e la ventiquattro ore, sul versante opposto della loro barricata. È facile fare l’anarchico con la libertà altrui ma è invece molto più difficile e senz’altro più costruttivo, farlo entro i confini delle regole civiche, sociali e morali, dando esempi di coerenza e non di violenza. È questa la vera rivoluzione che andrebbe insegnata ai giovani, non quella ormai stereotipata dell’occupazione, ma la rivoluzione quotidiana dell’impegno civico.

Oggi, molte scuole, spesso in maniera efficace e costruttiva, sono riuscite ad arginare il problema delle occupazioni con “la settimana dello Studente” un momento in cui la famigerata autogestione, pur se condivisa con il personale scolastico, acquisisce connotati di collaborazione e di analisi delle varie problematiche presenti in ambito scolastico e nel tessuto sociale che circonda la comunità scolastica. Di certo, spesso, questa settimana, che quasi sempre precede le vacanze natalizie, risulta essere solo un male minore rispetto ai danni materiali, morali e sociali di un’occupazione, ma è pur sempre un momento di confronto tra le parti in causa. In tal caso ben venga il confronto ma che sia tale e non un generale, generico e deleterio facimmo ‘a muina!

All'ombra del Vesuvio


 

martedì 28 ottobre 2025

“Lo stato dell’arte”

 


L’eclatante furto al Louvre, ha sollevato critiche e derisione da parte dell’opinione pubblica italiana, forse ancor più se il fatto fosse accaduto nel nostro paese e non oltralpe. Questione di pagliuzza e di trave?

Quando accade qualcosa di increscioso in Francia, si verifica uno strano fenomeno, molto diffuso qui tra noi, un fenomeno culturalmente e politicamente trasversale. Il paese transalpino viene di fatti esposto al  pubblico ludibrio, dallo sfottò dell’uomo della strada alla velata, ma non più di tanto, critica del politico. Il perché questo accada è forse attribuibile a quel malcelato provincialismo che ci contraddistingue, quello che vorrebbe i francesi spocchiosi nei nostri confronti e questo ancor più quando le affinità tra i due paesi sono ancora più forti e viscerali rispetto ad altri ed altrettanto stereotipati paesi europei, come ad esempio Germania e Spagna. La realtà, quella che fa invece più male, è quella di un paese con uno stato sociale e una coscienza civica molto più forti dei nostri e pertanto, la voglia di livellare il nostro status a quello francese, coglie al volo le loro disavventure, senza muoverci di un solo passo dalle nostre disgrazie.

Ebbene, prima di alzare il dito verso chi, nel più grande museo del mondo per superficie, si è effettivamente fatto sfilare sotto al naso opere d’arte di un certo valore storico e materiale, dovremmo prima tenerci ben stretto il nostro di patrimonio. In effetti, da quando l’arte è diventata un bene prezioso, per prestigio e per valore intrinseco, il Belpaese è stato oggetto del saccheggio sistematico delle sue ricchezze, rendendolo di fatto il paese dove avvengono più furti d’arte al mondo.

Non faccio ovviamente riferimento ai luoghi comuni sulle razzie napoleoniche, opere in parte restituite, o di una Gioconda contesa più per ignoranza che per diritto (appartiene alla Francia legittimamente, essendo stata venduta al re Francesco I nel 1517 dallo stesso Leonardo), e questo ammesso che all’epoca esistesse un concetto di stato italiano per accampare eventuali diritti, ma al fatto che, dai tombaroli ai furti commissionati dalle mafie, dai suoi attentati, dai vandali ai disastri naturali e al loro progressivo abbandono, le nostre ricchezze artistiche e museali sono da sempre state oggetto degli interessi illeciti di qualcuno e, se per questo esiste anche un nucleo specifico dei carabinieri ci sarà ovviamente anche una ragione concreta a supporto delle mie parole.

A monito per ciò che accade al dì qua del confine, elencherò qualche caso notevole di furto d’opere d’arte nel nostro paese che ha, come unica scusante, l’effettiva estensione, su tutto il territorio nazionale, di un patrimonio da difendere in quello che, a tutti gli effetti, può essere considerato il più esteso museo del mondo, ovvero l’Italia stessa.

Nel 1969 il dipinto "La Natività con i santi Lorenzo e Francesco d’Assisi" di Caravaggio, realizzato agli inizi del Seicento, fu rubato dall’Oratorio di San Lorenzo a Palermo. Nonostante le ricerche, non è mai stato ritrovato né restituito. Non si conoscono gli autori del misfatto né tanto meno il destino del dipinto rubato, ma esistono molte ipotesi a riguardo. Una di queste è quella che la mafia lo abbia trafugato, usandolo come simbolo durante riunioni importanti o persino come merce di scambio nella trattativa tra Stato e mafia nel periodo dello stragismo. Altre teorie raccontano invece che il quadro sia stato danneggiato durante il furto e sia stato per questo distrutto, oppure che, nascosto in una casa di campagna, sia stato rovinato dai topi. Un giornalista affermò persino di essere stato vicino ad acquistarlo, ma l’affare saltò a causa del terremoto in Irpinia. Il furto, comunque, continua a suscitare grande interesse da decenni, alimentando libri, documentari e opere di narrativa.

Nel 1974, l'opera "Ecce Homo" di Antonello da Messina, conservata nel Museo Broletto di Novara, fu rubata insieme ad altre opere, in un furto avvenuto la notte tra il 23 e il 24 luglio, in un contesto senza una reale custodia e con un’assicurazione irrisoria per il valore dell’opera. L’opera non è stata più trovata.

Nella notte tra il 5 e il 6 febbraio 1975 avvenne un clamoroso furto al Palazzo Ducale di Urbino, dove furono rubati tre capolavori rinascimentali: la Muta di Raffaello, la Flagellazione e la Madonna di Senigallia di Piero della Francesca. Il Ministero per i Beni Culturali, appena istituito, si trovò subito costretto a lanciare un appello ai ladri affinché trattassero con cura le opere. Un dettaglio sull’uso di panni di velluto per proteggere i quadri portò al primo indizio: una ragazza segnalò ai Carabinieri che il suo fidanzato falegname aveva acquistato inusualmente molto velluto. Le indagini, estese fino in Svizzera, permisero di recuperare i tre capolavori e restituirli all’Italia e al patrimonio culturale mondiale.

Nel 1990 un altro caso eclatante fu quando furono rapinati gli ori dei fuggiaschi, assieme ad altri reperti antichi, nei depositi degli scavi di Ercolano. Una rapina in grande stile, dove, nottetempo, i custodi vennero immobilizzati sotto la minaccia delle armi e dove il muro della stanza blindata fu sfondato a colpi di piccone per entrarvi e prelevare i preziosi reperti. In seguito i monili e le statue furono recuperati e i primi (170 reperti) furono esposti in maniera completa in una grande mostra all’Antiquarium di Ercolano nel 2018. Tornando alla rapina, in quell’occasione furono sollevate molte rimostranze per la mancata illuminazione dei luoghi e l’assenza di un sistema di allarme.

Nella notte tra il 19 e il 20 febbraio 2004 si verificò un importante furto alla Palazzina di caccia di Stupinigi, dove vennero rubati 35 mobili di grande valore, realizzati da celebri ebanisti. Il bottino, stimato in 20 milioni di euro, fu ritrovato in buone condizioni il 25 novembre 2005 in un campo a Villastellone. Nel giugno 2009, il Tribunale di Torino condannò in primo grado alcuni membri di una famiglia sinti di Villafranca Piemonte come responsabili del furto ma gli strascichi della vicenda giudiziaria si sono prolungati anche negli anni a seguire.

L’elenco delle vicissitudini del patrimonio artistico italiano è ancora lungo e lo chiudiamo qui con l’auspicio che si decida una volta per tutte a come difendere il nostro immenso tesoro, senza distrarci e senza bearci delle disgrazie altrui.