domenica 21 dicembre 2025

L'Alibi

 

A volte credo che le persone cerchino degli alibi per stare a posto con la propria coscienza e continuare a fare, così come facevano prima, ciò che volevano. Un po’ come fa quel ragazzo che getta la carta a terra forte del luogo comune del così fan tutti, ma lo fa con la mano dietro le spalle, per evitare che qualcuno possa vederlo, perché lui sa che non è corretto farlo, gliel’hanno detto a scuola, ma è più forte di lui, la pressione sociale di un mondo retrogrado, opportunista ed egoista gli impone di non tenere quella la carta in tasca fino al prossimo cestino perché, così come il pacchetto di sigarette e l’involucro delle caramelle, va gettato sull’asfalto, perché non è degno conservarlo, il vero uomo usa e getta, non conserva ciò che non serve, né tanto meno ricicla, perché: “tanto mischiano tutto”. Chissà quanto c’entri in tutto questo il nostro ormai consolidato consumismo o l’effettiva ignoranza nel distinguere ciò che organico da ciò che è inorganico o da ciò che è tuo da ciò che è di tutti.

Questo ed altro pensavo ieri durante l’escursione da me organizzata per la Sottosezione CAI Vesuvio, in commemorazione del trentennale della morte di Angelo prisco. Lo pensavo quando camminavo tra il lapillo lavico di una Valle dell’Inferno ridotta realmente ad un qualcosa di infernale dall’ultimo e disastroso incendio, uno scenario post-atomico, monumento trionfale della nostra insipienza. Pensavo a quante menzogne sono state dette durante quell’incendio, quante bufale sono state diffuse pur di non ammettere le nostre di colpe, ovvero quelle di non curare il nostro patrimonio, quelle di gridare allo scandalo solo a cose fatte e cascare dalle nuvole ostentando finta indignazione e senza per questo aver fatto nulla in quegli otto anni di intervallo dall’ultimo grande incendio. La stessa ipocrisia di chi si ostina ancora a voler vedere altro dietro l’omicidio di Angelo Prisco, la stessa ostinata incapacità nel non voler vedere la mafia che è in noi, la camorra che abbiamo dentro, perché le colpe non sono mai nostre, sono sempre di qualcun altro e ancor meglio se dietro di queste si nasconda un oscuro complotto a far danni e protrarli nel tempo, in tal modo allontaneremo ancor di più le nostre responsabilità e la soluzione stessa di ogni problematica.

Arrivando allo Slargo della legalità, con la tristezza dentro trovo, accanto alle immancabili bucce d’arancia e di banana, ormai caratteristiche della pinetina che persiste nello Slargo, un inusitato cumulo di rifiuti attorno ad un secchio, anch’esso di recente acquisizione. Fatta la sosta pranzo e siccome eravamo in tanti e forniti di buste, decidiamo, che sia opportuno raccogliere quello schifo. Svuotando il secchio, scopro sul fondo, tra i rifiuti, una pietra lavica, messa lì a mo’ di contrappeso. Ne deduco che chi l’aveva messa, sapeva cosa faceva e perché lo faceva. A questo punto, pur concedendogli il beneficio della buona fede, sappiamo benissimo come vanno a finire le cose dalle nostre parti quando si lascia la spazzatura per terra e, soprattutto, chi li avrebbe mai raccolti fin lassù tutti quei rifiuti contenuti in quel secchio? Se L’ente parco ha deciso di non mettere i cestini per la loro raccolta lungo i sentieri, c’è una ragione, c’è una logica , se non altro legata al fatto che quel luogo sia impervio e raggiungibile via terra solo con mezzi speciali a trazione integrale oltre che a piedi. Sappiamo anche molto bene che, con la tristissima esperienza fatta con l’emergenza rifiuti del nostro recente passato, ma anche guardando le corsie di ingresso e i cavalcavia della SS 268 e della SS 162, che basta un sacchetto gettato in una zona di passaggio per generare una piccola discarica, perché è risaputo che, se lo fanno gli altri, quasi per istinto lo faccio pure io, e posso farlo gratificandomi dello stato miserrimo dei luoghi e di non avere il primato del primo lancio e magari prendendomela anche con lo stato che non pulisce; tanto, lo ripeto, la colpa, è sempre degli altri.

Quindi chi ha messo lì quel secchio pensava di aver assolto ai suoi doveri civici perché aveva dimostrato la buona volontà di mettere un recipiente per i rifiuti, senza sapere che aveva invece innescato un processo negativo che avrebbe rischiato di creare in quel luogo, per emulazione, una discarica fatta di bottiglie di plastica, scarto organico alimentare, involucri di barrette energetiche e gel proteico dei tanti sportivi che frequentano la zona e che di certo rientrano nel novero di cui sopra, ovvero di coloro che nel loro sforzo fisico non possono pensare a come disfarsi in maniera ecologica dei propri rifiuti, ed ecco la trovata del secchio! E così ci si pulisce anche la coscienza, ma non di certo il Vesuvio.

Inutile infine parlare di teoria de vetri rotti e di uno stato pressoché assente in quel contesto perché affronteremmo un contesto troppo elevato per chi vi sovraintende e soprattutto, anche in quel caso, la colpa sarà, ancora una volta di qualcun altro e magari pure la mia che scrivo di queste cose.

giovedì 18 dicembre 2025

Per Angelo

 


19/12/1995 - 19/12/2025

A trent’anni dalla sua barbara uccisione per mano dei bracconieri, la figura e il sacrificio di Angelo Prisco rimangono ancora nell’oblio istituzionale e popolare. Un caso più unico che raro, soprattutto per un uomo in divisa. Una storia che merita un’opportuna riflessione, oltre che il doveroso ricordo.

Trent’anni sono tanti e ne bastano molti di meno per chi vuol dimenticare, ma non per chi vive ancora di principi e segue ancora l’esempio di chi l’ha preceduto. Trent’anni sono un batter d’occhio nelle misere vicende umane ma, malgrado tutto, a tanti anni di distanza, non mi capacito ancora del fatto che, Angelo Prisco, non ne aveva neanche trenta di anni quando è stato ucciso, ne aveva ventisette ma aveva ben chiaro cosa andasse fatto.

Per i più, Angelo aveva sbagliato, nella forma e nei contenuti, la sua azione, perché era salito da solo per arrestare chi infrangeva la legge, quella di una neonata area protetta, ma la cosa peggiore che potesse fare quel ragazzo, non è stata quella di morire, ma è stata quella di aver creduto in un qualcosa di sacro e purtroppo assai volubile dalle nostre parti, aveva creduto nella legalità, nel rispetto di quel principio per il quale dovesse esistere una regola univoca, un territorio morale oltre che legislativo, comune a tutti, dove tutti avessero pari diritti e, allo stesso tempo, uguali doveri. Ma è cosa ben nota che qui da noi, i diritti li pretendono tutti, ma quando si tratta di rispettare le regole, i doveri diventano imposizioni, e tutti diventano anarchici con la libertà altrui.

Angelo era di San Giuseppe Vesuviano, vi ha vissuto in un periodo nel quale la camorra era la regola e non l’eccezione in quel territorio e la mafiosità era l’humus che l’alimentava e che l’alimenta ancora oggi, anche se in maniera più subdola e nascosta di ieri. Angelo Prisco aveva deciso, con la sua morale e con la sua divisa, di scardinare quella paratia stagna che separava la nostra terra dal mondo civile, ma ha commesso il più grave degli errori: ha deciso di essere libero, mettendo in luce la cultura della prevaricazione e pagandone le spese al prezzo più alto. La sua decisione di bloccare due bracconieri, non ha solo posto fine alla sua giovane vita, non solo ha gettato nella disperazione la sua famiglia, non solo ha disilluso tutti coloro che avevano creduto nella nascita del Parco Nazionale del Vesuvio, salutandolo anche come presidio di legalità; Angelo ha fatto l’errore più grave mostrandoci la nostra reale essenza, quella retta da un familismo prepotente che assolve tutto e tutti purché circoscritti all’interno di quel cerchio di appartenenza. Angelo ha per questo subito l’onta dell’oblio, non prima però di diventare bersaglio degli strali di tutti, perché Angelo, con il suo andare contro corrente, contro una visione edulcorata e fittizia di ambientalismo e del rispetto delle regole, aveva messo in luce l’ipocrisia di una società civile che gli si è rivoltata contro proprio perché ferita e messa a nudo con tutti i suoi difetti e le sue remore. La damnatio memoriae di Angelo Prisco continua ancora oggi, non rientra nelle vittime innocenti delle mafie perché non c’è una sentenza definitiva a sancirlo, e questo a prescindere dal fatto che non ce ne siano neanche per altri casi, entrati comunque e giustamente a pieno titolo nel triste novero. Manca il marchio di fabbrica istituzionale, quasi come se il suo sacrificio offuscasse la figura di qualcuno o qualcosa; sembra assurdo doverlo ripetere ancora una volta, ma a sancire l’esistenza delle mafie e della mafiosità non c’è bisogno di una sentenza per ribadirlo, basta scendere per strada o affacciarsi a un balcone per vederne i deleteri effetti. Purtroppo però, a distanza di trent’anni, la nostra terra non è ancora riuscita a fare i conti con i propri demoni, preferendo accettarli come parte di sé, assimilandoli, e non come un male incurabile da estirpare, spesso giustificando ciò che non può essere più giustificato.

Meglio parlare quindi d’altro, meglio parlare del calcio, di Maradona, delle eccellenze italiche e partenopee, dei Borbone e del nemico di turno sotto le alterne spoglie dell’ostile settentrionale o del subdolo magrebino, meglio coprire tutto con un alibi invece di guardarci dentro, temendo ciò che potremmo trovarci. Anche per l’omicidio del maresciallo della Guardia di Finanza, Angelo Prisco, così come accade con tutte quelle problematiche che non si ha il coraggio di affrontare, il complottismo è stato un utile servo, tale da creare confusione, tale da creare quella cortina fumogena che separa e, ahinoi! Separerà ancora, i vesuviani dalla normalità, dalla verità e dalla libertà.

martedì 9 dicembre 2025

Un Natale banale

 

Alla ricerca del vero significato di queste feste, un significato che valga per tutti e che non sia relegato a un qualcosa di effimero, utile solo ad esorcizzare le nostre frustrazioni e a svuotare i nostri portafogli.

Quando ero piccolo mi incantavo davanti alle luci dell’albero e giocavo con le statuine del presepe, per me questo era il Natale, otre a tutto ciò che era la liturgia della festa più importante della cristianità e che da bambini vivevo come la favola più bella. In verità, per noi, l’acme delle feste giungeva quasi sempre il 5 gennaio, con l’attesa dei doni della Befana, un’attesa che incominciava anche giorni prima, subito dopo i fasti di Capodanno e culminava con mamma e papà che ti svegliavano la mattina del sei gennaio per avvertirti che era passata la birbante vecchina e ti aveva riempito di doni. Il ricordo dei miei genitori, forse più impazienti di noi nel voler vedere la reazione dei propri figli davanti al giocattolo tanto desiderato o alla sorpresa di uno inatteso, oggi è il ricordo più bello e toccante di quell’evento.

Questa era dunque la festa, quella che cominciava con l’attesa dell’avvento, con l’arrivo dei parenti da fuori, i giochi con i cugini e l’ordinarietà di una ricorrenza straordinaria, un qualcosa di nuovo e di antico, che si ripeteva ogni anno, fin quando la crescita non ti smaliziava e ti immetteva, in maniera più o meno brusca, nel mondo degli adulti. Questo era il Natale dei miei tempi, gli anni settanta, quelli della mia infanzia spensierata, quella che ogni bambino dovrebbe avere. Da allora le cose sono cambiate e, da adulto, ho incominciato a vedere il mondo con altri occhi, cercando però di non perdere quella capacità di vedere la poesia nelle cose, quella che ti rende la vita meno dura da accettare. Devo però constatare che i miei coetanei non sembrano aver capito questo compromesso, pare che non vogliano essere adulti, non più di tanto del minimo sindacale a loro concesso. Noto infatti che in loro sia rimasto molto di quel bambino che, almeno io, ho ormai da tempo accantonato, in serbo per altre emozioni e altre scoperte. Quello che scorgo in loro, non è la ricerca di una spiritualità perduta, ma è la voglia di un passato irripetibile e di un isolamento dalla realtà che ti fa perdere d’occhio le cose essenziali del mondo e, in questo caso, della stessa festa del Natale.

Senza soffermarmi sull’aspetto consumistico di questa ricorrenza, tanto inflazionato da divenire esso stesso un stereotipo, oramai analizzato in tutte le sue parti e, scontatamente accettato come i punti di PIL che smuove, di queste feste mi interessa molto di più il loro aspetto culturale, per non dire simbolico. Vivendo in un paese sedicente cattolico, il presepe, nel suo significato e aspetto più popolare, ci mantiene ancora ancorati a una tradizione e a una pietas che sa ancora di cristianesimo ma tutto il resto è un’orgia di colori, suoni e valori che poco hanno a che vedere con le celebrazioni per la nascita di Gesù. Si è ormai imposta un’iconografia con pochissimi riferimenti a Betlemme e alla mangiatoia ma richiama a un mondo immaginario, fortemente intriso di simboli anglosassoni, talvolta celtici, immagini imposte da decenni di cinema a stelle e strisce, dove la figura del Bambinello passa in secondo piano, relegata alle enclave delle chiese o, nel migliore dei casi, nel calore di qualche casa tradizionalista.

Il culto non è solo quello, pur sempre ancestrale, dell’albero ma soprattutto quello di un Babbo Natale che canta canzoni inglesi, canzoni che parlano, così come gli infiniti film natalizi, di relazioni amorose tra uomo e donna e non di amore universale. Un Santa Claus quindi mistificato e lontano anni luce da quel San Nicola che vorrebbe rappresentare. Poi ci sono i tanti, troppi e finti schiaccianoci a mo’ di soldatini d’antan che popolano ogni dove e di ogni dimensione, dal negozio sotto casa all’ambito domestico, senza che nessuno ne capisca il significato, ammesso che ne abbiano uno reale; comprati perché fanno tanto Natale, e perché se tutti ce l’hanno ci sarà pur sempre una ragione. Luci poi, luci a tutta forza, come se non ci fosse un domani! Belle, senz’altro belle, tanto da dimenticarsele accese, ma anche fulminate, lasciate fuori i balconi per tutto l’anno, come per prolungare la festa e l’illusione che questa si confonda con la vita che è, nella sua amara quotidianità e per l’umana contingenza che ci affligge, tutt’altro che allegra, spensierata e luminosa.

In verità, queste feste, nella loro spasmodica ricerca del nulla, sia da acquistare che da celebrare, sono tutt’altro che allegre e spensierate, aumenta il traffico, la gente spende tutta la tredicesima e oltre nella ricerca di una felicità che forse è altrove e che invece vorrebbe sintetizzare hic et nunc in una sola lampa’e fuoco, proprio come fa, e purtroppo non solo a Natale, con i fuochi d’artificio.

Il cristianesimo, si badi bene, perché parlo di altro, di un qualcosa che non è legato alla liturgia della chiesa cattolica, apostolica e romana, va a farsi comunque benedire, ma sicuramente anche a farsi friggere visto il tenore alimentare delle celebrazioni, in un contesto pieno di renne, babbi Natale ed annesse mamme Natale, in versione quasi sempre sexy, perché è chiaro, là dove tutto è in vendita, anche il corpo delle donne lo è a maggior ragione, come sempre accade qui da noi. E poi elfi, bastoncini di zucchero, quelli che nessun bambino mangerebbe mai, ammesso che li si trovino da qualche parte e che non siano di polistirolo. Ed ancora fiocchi di neve, ovunque, anche col cambiamento climatico, ma anche orsi polari, pinguini e slitte, tutto in un vortice che ti centrifuga in un contesto sempre più fine a se stesso e che ti fa talmente perdere il contatto con la realtà delle celebrazioni e molto spesso con quella della vita quotidiana da pensare che sia tutto normale e che questo sia l’autentico spirito natalizio.

Il Natale tutto l’anno quindi, come la televisione 24 ore su 24, i negozi aperti sempre, e la connessione infinita a una rete che ti illude e ti rincoglionisce sempre più, bersagliandoti di informazioni, immagini e concetti che non sai neanche più interpretare perché, così come accade con l’isteria natalizia, non hai neanche il tempo, e forse neanche i mezzi, per farlo.

Eppure basterebbe poco per fermarsi un attimo, basterebbe chiudere gli occhi e ricordare quello che eravamo da piccoli, ma temo che per i millennials, così come per quelli che verranno dopo, sarà alquanto difficile farlo, loro, la spiritualità del Natale, non l’hanno mai conosciuta, perché probabilmente neanche noi la conosciamo più per insegnargliela.

A questo punto confido nella Pasqua, quella delle processioni, quella delle tradizioni meridionali, quella che, per fortuna, negli USA e a Hollywood non conoscono ancora.

Immagini create con l'IA

Per approfondire

lunedì 3 novembre 2025

L’incrocio napoletano


 Se c’è qualcosa che racchiude l’essenza di ciò che è Napoli e il suo entroterra è il modo di guidare in questi luoghi, il famigerato caos e l’anarchia delle strade partenopee è speculare alla visione del mondo all’ombra del Vesuvio. Certo, l’elasticità è una dote che ci contraddistingue e fa sì che, sin da bambini, impariamo a cavarcela in ogni situazione; ma Napoli non è il mondo, Napoli è fuori dal mondo! La contingenza napoletana, i famosi contrasti sono belli da raccontare ma non piacevoli da vivere.

Le nostre strade sono il riassunto di leggi non scritte che, agli occhi di chi viene da fuori, generano ilarità perché non la vivono quotidianamente ma per chiunque abbia un minimo di raziocinio o ne abbia conosciuto gli effetti secondari non trovano altra definizione che quella dell’illogicità e della follia.

L’esempio eclatante di questo stato delle cose è quello degli incroci, là dove quando un forestiero o un sognatore si fermano allo stop per dare la precedenza, chi ce l’ha, pur avendo la corsia di destra libera si pianta davanti allo stop, abituato, per un ormai statutario costume, nel tagliarlo contromano. Se lo sai, se conosci questo modus operandi, bene, te ne fai una ragione, se superi indenne questa situazione di stallo, meglio! Ma se accade qualcosa? Allora lì, l’eccezione napoletana cede il passo alla normalità delle leggi, quelle che prima non avevano né senso né applicazione.

Sentirsi anarchici, al di fuori delle norme, può anche farti sentire meglio, oltre che agevolarti, ma questo accade fin quando sei giovane, forte e fin quando non lasci Napoli e provincia dove hai le spalle coperte da un familismo che ti corre in aiuto con tutta una serie di agganci per ricondurre l’incidente alla normalità partenopea e senza per questo capire l’anomalia del fatto.

Napoli si regge su di un equilibrio imperfetto, una bolla spaziotemporale che si apre al di qua del Garigliano e si inabissa nel golfo come una sorta di buco nero che inghiotte tutto e tutti. Napoli è ineluttabile e questo non la rende né migliore né peggiore di tante altre città ma la rende eterna e sublime nella sua folle unicità.  

mercoledì 29 ottobre 2025

L’occupazione delle idee


Ogni anno di questi tempi c’è chi, a scuola, non ci vuole proprio andare e, vista la vicinanza di festività e ponti, quasi per tradizione, decide, per una ragione o per l’altra, di prolungare la pacchia fino Natale con l’occupazione.

Lungi da me privare gli studenti del loro diritto a manifestare le proprie idee ma, col rischio di sembrare un vecchio Solone, e magari anche con quello di esser scambiato per un destrorso, mi sono sempre chiesto il perché, queste occupazioni accadessero sempre a ridosso del ponte dei Morti o delle vacanze natalizie. La stessa domanda la feci a un giovinastro che, volando sulle ali della presunzione e sulle basi di una scuola fatiscente, inneggiava ad occupare gli edifici del nostro istituto per protestare contro i mali del mondo. Allora, sicuro della sua risposta, provocatoriamente gli chiesi: “vuoi occupare la scuola perché ci sono tanti problemi che non si affrontano? Va bene! Sono d’accordo, facciamolo assieme! Ma in primavera!” -  Inutile dirvi che il giovanotto mi guardò con aria inebetita e, guardandomi stralunato mi disse: “ma chistuccà che vo’!? Ad aprile accumenceno ‘e gite!”.

Educare è cosa assai complessa e, far capire ai giovani, il sottile confine tra il sacrosanto diritto di manifestare il proprio dissenso e l’illegalità, non è facile, e non lo è nella misura in cui neanche gli stessi adulti lo capiscono. Basterebbe vedere ciò che accade nelle manifestazioni di piazza, quelle che nascono pacifiche ed ecumeniche e terminano con le auto e i cassonetti incendiati, con feriti e arresti. Ma, ciò che è più grave, è che appunto gli adulti, anche quelli più radicali e che inneggiano alla legalità con la elle maiuscola, oramai, ritengono che l’occupazione sia un diritto acquisito, un rito di passaggio obbligatorio per ogni studente che si rispetti.

Da parte in causa, ma soprattutto da educatore, prima ancora di essere un insegnate, devo sottolineare ai miei studenti e ai loro genitori, e purtroppo anche a molti miei colleghi, che l’occupazione è un atto illegale, l’occupazione è un reato!

La Corte di Cassazione ha infatti stabilito che l’occupazione degli edifici scolastici è un reato, anche se pacifica e di breve durata, poiché ostacola gli studenti e il personale non partecipanti nello svolgimento delle loro attività e interrompe il servizio pubblico. La sentenza n. 7084/2016 ha di fatti confermato questa interpretazione.

L’art. 340 del Codice penale è la norma di riferimento che punisce chi interrompe o turba un servizio pubblico, prevedendo la reclusione fino a un anno, arrivando poi a due anni se la condotta avviene durante manifestazioni pubbliche e infine, da uno a cinque anni, per capi, promotori o organizzatori. Ma esiste anche l’art. 633, sempre del codice penale il quale sancisce che con "l’invasione arbitraria di immobile", la pena può arrivare fino a due anni di reclusione. Il tutto quando poi non si verificano anche atti vandalici verso gli edifici in questione.

Visti i presupposti, io ci andrei, di conseguenza, molto cauto nel giustificare atti del genere, soprattutto se ricopro cariche politiche o se lavoro nella scuola, ma ancor più se sono un genitore. Non solo si insegna ai giovani che la legalità esiste solo a parole, dando un esempio di forte ambiguità, ovvero la cosa peggiore che un adulto può trasmettere a un ragazzo, ma spesso, c’è pure chi usa gli studenti e le loro manifestazioni come arma politica verso una parte avversa.

Nella mia lunga esperienza, prima come studente universitario e poi come docente, ne ho viste di occupazioni, spesso con principi anche condivisibili ma poi, il risultato di queste, oltre alle devastazioni dei locali pubblici, è stato solo il marasma generale, un mettersi in mostra di molti giovani aspiranti politici, politicanti e sedicenti rivoluzionari che ho poi visto ben presto passare con il loro abbigliamento alternativo dell’epoca, con i loro capelli rasta e gli stracci di Resina, alla giacca e cravatta, il capello impomatato e la ventiquattro ore, sul versante opposto della loro barricata. È facile fare l’anarchico con la libertà altrui ma è invece molto più difficile e senz’altro più costruttivo, farlo entro i confini delle regole civiche, sociali e morali, dando esempi di coerenza e non di violenza. È questa la vera rivoluzione che andrebbe insegnata ai giovani, non quella ormai stereotipata dell’occupazione, ma la rivoluzione quotidiana dell’impegno civico.

Oggi, molte scuole, spesso in maniera efficace e costruttiva, sono riuscite ad arginare il problema delle occupazioni con “la settimana dello Studente” un momento in cui la famigerata autogestione, pur se condivisa con il personale scolastico, acquisisce connotati di collaborazione e di analisi delle varie problematiche presenti in ambito scolastico e nel tessuto sociale che circonda la comunità scolastica. Di certo, spesso, questa settimana, che quasi sempre precede le vacanze natalizie, risulta essere solo un male minore rispetto ai danni materiali, morali e sociali di un’occupazione, ma è pur sempre un momento di confronto tra le parti in causa. In tal caso ben venga il confronto ma che sia tale e non un generale, generico e deleterio facimmo ‘a muina!

All'ombra del Vesuvio


 

martedì 28 ottobre 2025

“Lo stato dell’arte”

 


L’eclatante furto al Louvre, ha sollevato critiche e derisione da parte dell’opinione pubblica italiana, forse ancor più se il fatto fosse accaduto nel nostro paese e non oltralpe. Questione di pagliuzza e di trave?

Quando accade qualcosa di increscioso in Francia, si verifica uno strano fenomeno, molto diffuso qui tra noi, un fenomeno culturalmente e politicamente trasversale. Il paese transalpino viene di fatti esposto al  pubblico ludibrio, dallo sfottò dell’uomo della strada alla velata, ma non più di tanto, critica del politico. Il perché questo accada è forse attribuibile a quel malcelato provincialismo che ci contraddistingue, quello che vorrebbe i francesi spocchiosi nei nostri confronti e questo ancor più quando le affinità tra i due paesi sono ancora più forti e viscerali rispetto ad altri ed altrettanto stereotipati paesi europei, come ad esempio Germania e Spagna. La realtà, quella che fa invece più male, è quella di un paese con uno stato sociale e una coscienza civica molto più forti dei nostri e pertanto, la voglia di livellare il nostro status a quello francese, coglie al volo le loro disavventure, senza muoverci di un solo passo dalle nostre disgrazie.

Ebbene, prima di alzare il dito verso chi, nel più grande museo del mondo per superficie, si è effettivamente fatto sfilare sotto al naso opere d’arte di un certo valore storico e materiale, dovremmo prima tenerci ben stretto il nostro di patrimonio. In effetti, da quando l’arte è diventata un bene prezioso, per prestigio e per valore intrinseco, il Belpaese è stato oggetto del saccheggio sistematico delle sue ricchezze, rendendolo di fatto il paese dove avvengono più furti d’arte al mondo.

Non faccio ovviamente riferimento ai luoghi comuni sulle razzie napoleoniche, opere in parte restituite, o di una Gioconda contesa più per ignoranza che per diritto (appartiene alla Francia legittimamente, essendo stata venduta al re Francesco I nel 1517 dallo stesso Leonardo), e questo ammesso che all’epoca esistesse un concetto di stato italiano per accampare eventuali diritti, ma al fatto che, dai tombaroli ai furti commissionati dalle mafie, dai suoi attentati, dai vandali ai disastri naturali e al loro progressivo abbandono, le nostre ricchezze artistiche e museali sono da sempre state oggetto degli interessi illeciti di qualcuno e, se per questo esiste anche un nucleo specifico dei carabinieri ci sarà ovviamente anche una ragione concreta a supporto delle mie parole.

A monito per ciò che accade al dì qua del confine, elencherò qualche caso notevole di furto d’opere d’arte nel nostro paese che ha, come unica scusante, l’effettiva estensione, su tutto il territorio nazionale, di un patrimonio da difendere in quello che, a tutti gli effetti, può essere considerato il più esteso museo del mondo, ovvero l’Italia stessa.

Nel 1969 il dipinto "La Natività con i santi Lorenzo e Francesco d’Assisi" di Caravaggio, realizzato agli inizi del Seicento, fu rubato dall’Oratorio di San Lorenzo a Palermo. Nonostante le ricerche, non è mai stato ritrovato né restituito. Non si conoscono gli autori del misfatto né tanto meno il destino del dipinto rubato, ma esistono molte ipotesi a riguardo. Una di queste è quella che la mafia lo abbia trafugato, usandolo come simbolo durante riunioni importanti o persino come merce di scambio nella trattativa tra Stato e mafia nel periodo dello stragismo. Altre teorie raccontano invece che il quadro sia stato danneggiato durante il furto e sia stato per questo distrutto, oppure che, nascosto in una casa di campagna, sia stato rovinato dai topi. Un giornalista affermò persino di essere stato vicino ad acquistarlo, ma l’affare saltò a causa del terremoto in Irpinia. Il furto, comunque, continua a suscitare grande interesse da decenni, alimentando libri, documentari e opere di narrativa.

Nel 1974, l'opera "Ecce Homo" di Antonello da Messina, conservata nel Museo Broletto di Novara, fu rubata insieme ad altre opere, in un furto avvenuto la notte tra il 23 e il 24 luglio, in un contesto senza una reale custodia e con un’assicurazione irrisoria per il valore dell’opera. L’opera non è stata più trovata.

Nella notte tra il 5 e il 6 febbraio 1975 avvenne un clamoroso furto al Palazzo Ducale di Urbino, dove furono rubati tre capolavori rinascimentali: la Muta di Raffaello, la Flagellazione e la Madonna di Senigallia di Piero della Francesca. Il Ministero per i Beni Culturali, appena istituito, si trovò subito costretto a lanciare un appello ai ladri affinché trattassero con cura le opere. Un dettaglio sull’uso di panni di velluto per proteggere i quadri portò al primo indizio: una ragazza segnalò ai Carabinieri che il suo fidanzato falegname aveva acquistato inusualmente molto velluto. Le indagini, estese fino in Svizzera, permisero di recuperare i tre capolavori e restituirli all’Italia e al patrimonio culturale mondiale.

Nel 1990 un altro caso eclatante fu quando furono rapinati gli ori dei fuggiaschi, assieme ad altri reperti antichi, nei depositi degli scavi di Ercolano. Una rapina in grande stile, dove, nottetempo, i custodi vennero immobilizzati sotto la minaccia delle armi e dove il muro della stanza blindata fu sfondato a colpi di piccone per entrarvi e prelevare i preziosi reperti. In seguito i monili e le statue furono recuperati e i primi (170 reperti) furono esposti in maniera completa in una grande mostra all’Antiquarium di Ercolano nel 2018. Tornando alla rapina, in quell’occasione furono sollevate molte rimostranze per la mancata illuminazione dei luoghi e l’assenza di un sistema di allarme.

Nella notte tra il 19 e il 20 febbraio 2004 si verificò un importante furto alla Palazzina di caccia di Stupinigi, dove vennero rubati 35 mobili di grande valore, realizzati da celebri ebanisti. Il bottino, stimato in 20 milioni di euro, fu ritrovato in buone condizioni il 25 novembre 2005 in un campo a Villastellone. Nel giugno 2009, il Tribunale di Torino condannò in primo grado alcuni membri di una famiglia sinti di Villafranca Piemonte come responsabili del furto ma gli strascichi della vicenda giudiziaria si sono prolungati anche negli anni a seguire.

L’elenco delle vicissitudini del patrimonio artistico italiano è ancora lungo e lo chiudiamo qui con l’auspicio che si decida una volta per tutte a come difendere il nostro immenso tesoro, senza distrarci e senza bearci delle disgrazie altrui.

domenica 12 ottobre 2025


 

giovedì 25 settembre 2025

Gli orsi che volano

C’era da aspettarselo, dopo i gatti kamikaze, i cervi, i lupi e i cinghiali arrivano pure gli orsi immaginari.

Stavolta non è più il Vesuvio con “i cinghiali che sbranano le persone“ ma è sempre un altro splendido vulcano campano ed area protetta, quella di Roccamonfina, a portare alla ribalta la presenza di fantomatici animali selvatici.

e accade quindi che ieri, in località Torano, così come avverte in un post il sindaco Carlo Montefusco, appaia d’improvviso un orso. Stavolta però, il singolare incontro, sempre in base alle informazioni ormai divenute virali e diffuse dai social durante tutta la serata del 23, sono state inoltrate al primo cittadino proprio dai Carabinieri del nucleo Forestale di Roccamonfina. Questi ultimi, contattati dal sottoscritto nella mattinata di oggi, confermano la ricezione della segnalazione da parte di una persona che sostiene di aver visto un orso, ma non confermano la veridicità di tale incontro, non essendoci al momento foto che ritraggono l’animale, né tanto meno altre testimonianze dirette o attendibili che riscontrino la presenza dell’animale nei suddetti luoghi.

Innanzitutto, e nella speranza che, prima di allarmare la popolazione, si consulti finalmente uno zoologo o altri esperti del campo, è fondamentale specificare che non esistono corridoi naturali tra il pur lontano Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise, dove è effettivamente presente l’orso marsicano, e il Parco Regionale di Roccamonfina. Invece, un luogo dal quale potrebbe, più verosimilmente, arrivare un ipotetico orso, è il neocostituito Parco Nazionale del Matese ma, così come ci informa il biologo ed ex presidente del Parco Nazionale del Vesuvio, Maurizio Fraissinet, sebbene sul versante molisano siano state avvistate tracce irregolari dell’animale, non ci sono attestazioni su quello campano, e non basta; Infatti, sempre come asserisce il naturalista, ammesso e non concesso che un orso possa essersi spostato dal Matese verso Roccamonfina, il plantigrado avrebbe dovuto attraversare l’A1, la ferrovia, la Casilina, l’Appia e una miriade di barriere antropiche che lo avrebbero messo in seria difficoltà se non addirittura procurarne la morte e, soprattutto, viste le sue dimensioni, lo avrebbero reso visibile molto prima del suo arrivo presso la città campana.

Un’altra ipotesi, forse più plausibile, potrebbe essere quella di un possibile abbandono da parte di un circo o di un delinquente che abusivamente lo custodiva, ma andrebbe fatto anche notare che un animale vissuto in cattività sarebbe molto più incline nell’avvicinarsi all’uomo e al suo ambiente ma, al momento, ciò pare non accadere, paventando così un caso molto simile a quello della famigerata pantera beneventana di qualche anno fa, quando tutti cercavano quell’animale che nessuno trovò mai e che forse, altro non era, che un grosso cane scuro, scuro e oscuro come quello avvistato a Roccamonfina.

Ciò che fa più pensare è che dai tempi del proverbiale lupo cattivo delle favole ad oggi, l’animale selvatico viene visto ancora come il catalizzatore delle nostre paure, lo spauracchio di molte problematiche legate al contesto agropecuario, il capro espiatorio per le nostre incoerenze e per le nostre inadempienze. Le reti sociali amplificano poi questo sentimento ancestrale, impedendo, talvolta in maniera subdola, la corretta comprensione di un mondo naturale sempre più contrastato dalla nostra presenza umana; è quindi molto più facile vedere gli orsi volare da un parco all’altro, così come si faceva una volta con gli asini che accettare pacificamente la loro esistenza.

 

Immagini create con l’IA

martedì 16 settembre 2025

Cinghiali, minolli e rostocchi e il mondo fatato della rete.

 

Già in passato ebbi una discussione con una consigliera di Massa di Somma, perché scrisse un post dove raccontava di aver fatto catturare un cinghiale per le strade del suo paese. Quando le feci notare che era un maiale nero, uno di quelle specie straniere, abbandonato da qualcuno, probabilmente perché importato illegalmente, si incazzò e mi portò, come prove attendibili e a conforto della sua tesi, i post presi in rete di privati o anonimi cittadini che asserivano che quello fosse un cinghiale e il fatto stesso che fosse nero ne era per lei la riprova.

Prima ancora ci fu l'immagine del facocero diffusa dalla Regione Campania, quella di un manifesto che paventava la peste suina, trasmessa appunto dai cinghiali e pedissequamente affissa sui muri di Sant'Anastasia là dove, a memoria d’uomo e a rigore di scienza, i cinghiali, né tanto meno i facoceri, non c’erano mai stati. Poi sono venuti gli influencer durante l'incendio del Vesuvio di quest’anno, sempre con i cinghiali, ma stavolta anche con i famosi (e inesistenti anch’essi) cervi vesuviani e la frittata è fatta!

Oggi, purtroppo, leggiamo dalla cronaca locale della tragica morte di un anziano ad Ottaviano, che sarebbe stato “sbranato da volpi, cinghiali o cani”. Nell’attesa degli esami autoptici e delle indagini degli inquirenti, non possiamo non notare l’ennesimo tirare in ballo a sproposito, e senza prova alcuna, dell’immagine terrorifica di animali tutto sommato innocui e, ancora una volta, ad essere sulla ribalta è il cinghiale, anche là dove non c’è.

Ormai dobbiamo rassegnarci, una bugia ripetuta cento volte diventa realtà, sul Vesuvio ci sono i cinghiali! Perché così hanno deciso i social! Ovviamente i prossimi a comparire saranno i lupi e gli orsi ma sono fiducioso anche dell'arrivo di minolli e rostocchi.

Immagine creata con l’IA

sabato 13 settembre 2025

Nazi è chi il nazi fa

 


Ovvero è fascista chi fa il fascista e non chi esprime la propria opinione.

Non sarà un vessillo, una bandiera, uno stemma a farti fascista o comunista ma le tue azioni.

Leggo commenti sull’uccisione dell’attivista politico pro Trump Charlie Kirk, leggo commenti analitici, ma anche di violentemente faziosi e, la maggior parte di questi, corrisponde al classico: se l’è andato a cercare; ovvero: si merita di essere ucciso perché è un fascista.

A questo punto bisognerebbe, prima di stabilire cosa è fascista e cosa non lo è, capire cos’è la destra e cos’è la sinistra oggi, anche perché far coincidere entrambi con il nazifascismo o col comunismo (con il loro atroce bagaglio di repressione del libero pensiero e del libero esistere) non mi sembra affatto corretto. Questo non solo perché le ideologie sono ormai assai annacquate, se non dissolte e relegate, nell’un caso come per l’altro, ad una semplice iconografia e a pochi capisaldi, ma per il semplice fatto che gli opposti si attraggano oggi più che mai.

Demonizzare poi l’avversario politico è un’invenzione vecchia come il mondo, così come quella di trovare il nemico di turno che ti ascolta di nascosto e che ti arreca danno, che ti invade, che violenta le tue donne e ti ruba il lavoro, un timore percepito e spesso indotto da quando l’uomo esiste e produce storia. Ma purtroppo è evidente, da una parte come dall’altra, anche la convinzione che ognuno pretenda di aver ragione, se non addirittura che abbia anche dio dalla propria parte.

La destra sostiene quindi che la sinistra detenga il monopolio della cultura in maniera quasi feudale, mentre la sinistra afferma che i loro antagonisti non siano altro e solo che fascisti e, pertanto, siano antitetici alla cultura stessa. E così, con questi due dogmi, si va avanti, almeno in Italia, dal Dopoguerra ad oggi.

A questo aggiungiamo che il prontuario delle istanze, dei vessilli e delle bandiere delle due compagini si irrigidisce sempre più, soprattutto se si è all’opposizione e va invece affievolendosi quando si va al governo, attuando un pragmatismo tutto democristiano e che spesso accomuna i due schieramenti nella logica della real politik. Ne è una prova il fatto che, ad ogni cambio di governo, quasi mai ciò che si contestava prima, quando si era all’opposizione, viene cambiato poi. Non lo si fa dopo, lo si mantiene o lo si trasforma, perseguendo talvolta il progetto precedente, il tutto sulla linea comune dell’annientamento dello stato sociale. È il caso del decreto Brunetta, della Legge Fornero, del reddito di cittadinanza e così via.

Oggi, lo sfasamento tra destra e sinistra è evidente là dove, in mezzo ai residui ancestrali di un marxismo impolverato e una maglietta di Che Guevara da un lato e l’immancabile busto del Duce dall’altro, i supposti epigoni di Lenin parteggiano ancora oggi per la Russia, mentre quelli di Mussolini per l’Ucraina, quasi come se fosse una partita di calcio. Qualcosa di simile accade con la questione palestinese, in questo caso la destra è assai timida con Israele mentre la sinistra dimentica spesso e volentieri ciò che è Hamas, molto nero e poco rosso; ma si sa che i ritornelli rendono meglio di qualsiasi altro discorso. E così, in maniera antitetica rispetto alla fine dell’ultimo conflitto mondiale, la sinistra, in particolar modo quella radicale e parte di quella pentastellata, è contro qualsiasi cosa facciano gli USA, mentre la destra è sempre e comunque a favore degli americani.

Purtroppo non c’è via di mezzo, purtroppo e ancor peggio, non c’è dialogo, non c’è ragionamento ma solo ragione da far valere. Ognuno porta avanti i suoi dogmi, le sue teorie e i suoi complotti. I proseliti di destra e sinistra sembrano fatti con lo stampino, pronti a snocciolarti dai loro vademecum del qualunquismo le loro mezze verità e le loro bufale. Attentissimi i sinistrorsi sulle questioni del Donbass: “la guerra è iniziata nel 2014” ma assai recidivi nel criticare il terrorismo di Hamas, per non parlare dei più elementari principi del diritto internazionale. Dal canto suo, la destra, assai allergica alla parola genocidio, porta avanti il vessillo del 7 ottobre come prosieguo della shoah dimenticando le decine di migliaia di morti di Gaza.

Voi mi chiederete, e tu, da che parte stai? Non che questo importi più di tanto ma, proprio per non deviare l’attenzione su di una mia presunta faziosità, io sono sempre stato a sinistra, ma soprattutto sono sempre stato dalla parte della libertà e del diritto e non c’è colore che possa farmi arretrare su questi principi fondamentali. Essere di sinistra, era per me lo stare dalla parte dei più deboli e non dalla parte di una bandiera. Per me i deboli non hanno colore e sono ancora quei popoli privati della loro indipendenza, della loro cultura e della loro emancipazione, oltre che l’esser privati della propria vita.

Io sto dalla parte dei Palestinesi, ma sto anche dalla parte degli ucraini. Sto dalla parte della Global Sumud Flotilla ma inorridisco per l’uccisione di Kirk, anche se sono anni luce lontano dalle sue posizioni. Uccidere il tuo avversario non ti rende eroe, non ti rende martire ma ti rende simile a ciò che vorresti combattere, sei sulla falsa riga di quei fondamentalisti antiabortisti che uccidono i medici che praticano l’aborto. Gli anni settanta e gli anni ottanta dovrebbero averci insegnato che la violenza terroristica non porta a nulla, ha solo rovinato, in un modo o nell’altro, intere generazioni, solo il confronto democratico può vincere, basta solo accettarlo, altrimenti sarai il miglior alleato di chi vuoi avversare, perché a prevalere sarà sempre la violenza e non la ragione, le armi e non il diritto.

Immagine creata con l’IA e modificata dall’autore.

 

lunedì 8 settembre 2025

Più libri più liberi

Puntuale come il Natale e le feste comandate arriva a settembre la polemica del caro libri.

 Quando ero ragazzo non amavo leggere, preferivo la televisione, i film di Bud Spencer e Terence Hill ed altre amenità di quei tempi, come ad esempio la classica partitella di calcio tra amici. All’epoca però, sto parlando degli anni settanta, per fortuna esisteva ancora un’inattaccabile morale comune, quella che imponeva a chi ti stava intorno, parente o affine che fosse, di darti dei sani insegnamenti di vita: sonori paliatoni, cazziatoni a più non posso o semplici lezioni di vita, che ringrazio ancora di aver ricevuto, come oro colato, da chi me li ha consegnati, anche in malo modo, perché anche quelle azioni mi hanno insegnato a vivere.

Tra le tante lezioni che il mondo mi ha dato c’era anche quella del valore della cultura, considerato, quanto meno, come un modo per elevarsi e per utilizzare quell’ascensore sociale che pare oggi essersi arrestato. Ecco quindi che, pian pianino, mi sono avvicinato alla lettura, prima con riluttanza, per imposizione scolastica, poi con curiosità ed infine con entusiasmo. I libri mi hanno dato la libertà, mi hanno fatto conoscere il mondo prima ancora di viaggiare, mi hanno dato le basi per interpretarlo e continuano a farlo ancora, ma mi hanno dato anche le varie visioni che questo nostro mondo possiede, mi hanno dato, più di ogni altra cosa, l’inestimabile facoltà di scegliere e non di minore importanza anche un lavoro.

Oggi, questa ribalta data al mondo della scuola, tra fine agosto e inizio settembre, costituisce l’unico momento dell’anno, assieme a quello degli Esami di Stato/Maturità, in cui si parla del mondo dell’istruzione. Purtroppo se ne parla a sproposito e quasi sempre, come accade per il comparto, senza cognizione di causa o con sottile ma percettibile demagogia.

Prima di andare ai numeri che pare che siano solo quelli a contare, io mi sono sempre chiesto, ma se un meccanico spende una certa cifra per i suoi attrezzi, senza i quali non potrebbe mai lavorare, perché si demonizza poi la spesa, a mio parere, mai eccessiva, dei libri? Non sono forse questi gli attrezzi di chi si appresta ad entrare nel mondo dello studio o del lavoro, della ricerca e dell’insegnamento? Non sono questi gli strumenti su cui investire?

Purtroppo il mondo digitale ha dato l’illusione ai più che sia meglio investire per i propri figli in uno smartphone che in quegli oscuri, pesanti e sorpassati oggetti di carta ma ovviamente non è così.

Non è così nella misura in cui una ricerca in internet, in un motore di ricerca, su di un cellulare o magari in quello sconosciuto oggetto che per molti è il computer, richiede una ben salda base culturale pregressa, tale da aggirare le insidie dell’algoritmo. Sì perché per non fermarsi ai primi risultati che ti consegna Google, per saperlo istruire bene nella ricerca, così come anche bisognerebbe ben fare quando si impartiscono ordini all’intelligenza artificiale, bisogna aver prima studiato. Per capire, ad esempio, perché se gli chiedi l’immagine di un’Ape car ti darà una scimmia che guida un’auto e se gli chiedi un carabiniere armato di carabina te ne darà uno con un moschettone, altrimenti non faremo altro che diffondere l’ovvio in rete presumendo di sapere o essere di informati.

Bisogna quindi essere preparati quando si usa un traduttore on-line, perché la lingua non è solo un insieme di vocaboli incollati tra di loro ma è la matrice culturale di un popolo o di più popoli, cosa che non conosce ancora il traduttore simultaneo che non sa cosa siano le parole polisemiche e che, visto il contenitore in cui attinge l’IA, ovvero la rete, esiste ancora un mondo al di fuori di essa che ancora deve essere addirittura scoperto e per farlo, non basterà di certo un telefonino ma tanta consapevolezza e sana curiosità. Ecco a cosa servono i libri, servono come serve un pallone o una bicicletta a chi s’avvia a conoscere il mondo, prima di affrontarlo con l’uso di macchine più complesse. Soprattutto se si vuole che i propri figli eccellano negli studi che si accingono ad affrontare.

Ed ecco finalmente le cifre che, per decreto ministeriale, impongono ai testi della scuola dell’obbligo di essere calmierati e questo accade ormai da anni e sono invece gratuiti per il ciclo primario d’istruzione. Ciononostante ogni anno si parla di aumenti dei libri di testo, si parla di questi aumenti come se fosse qualcosa di scandaloso perché la cultura ormai è scandalosa, soprattutto quando ti aiuta ad vedere il mondo con occhi diversi. Ma la cultura non paga come diceva qualche ministro di un tempo non molto lontano e mi viene da chiedere come, quel ministro così come l’uomo della strada che asseconda questo andante, possano aver imparato a leggere, scrivere e far di conto, saranno nati già imparati?

I prezzi dei testi non possono sforare il preventivo di spesa imposto, non possono andare oltre una minima percentuale stabilita anch’essa per legge e, qualora accadesse, le sanzioni fioccherebbero per le scuole inadempienti ma ciò nonostante si parla ancora di prezzi vertiginosi. I telegiornali sguazzano in questo pantano mediatico, in un modo, oserei dire, disgustoso poiché l’unica cosa che fanno è quella di intervistare gli acquirenti delle librerie, quasi come se andassero buttare i soldi nel cesso, obbligati dalla lobby degli editori e degli insegnanti, senza interpellare le presunte controparti, come se poi gli insegnati non comprassero libri per se e per i propri figli. Mi chiedo perché non siano mai stati fatti servizi del genere fuori le tabaccherie e i bancolotto, là dove, senz’altro a scapito di salute e cultura e con maggiore dispendio di soldi, vanno senz’altro in fumo migliaia di euro a prescindere gli aumenti e le accise a tal riguardo.

Ad ogni modo, parlare di cinquecento euro se non più per singolo studente e al netto del corredo, che nulla ha a che vedere, con la cultura, non sta né in cielo né in terra, a meno che non si abbiano più figli a scuola e non nella stessa scuola. Ma in tal caso esistono tante soluzioni possibili e legali ma chissà perché il caro palestre, il caro piscina, l’imprescindibile e assai caro telefonino, il cinquantino, il mezzo e il caro tutto non contano, perché la carta, se non si tratta di carta moneta, oggi non serve a nessuno, perché nessuno la vuole e le conseguenze incominciano ad essere più che evidenti.


venerdì 29 agosto 2025

Il genio italico

 

 Salvini non è uno stupido, Salvini è una persona che, per strano che possa sembrare, rasenta la genialità. Salvini fiuta l’aria che tira con perizia da statista e lo fa sulla falsa riga del più grande degli imbonitori italiani, dà al mediocre ciò che vuole, quel che lui vuol sentirsi dire e lo fa sentire il centro del mondo.

Il proteiforme Salvini cambia pelle come le lucertole, è passato dalla sinistra radicale al revanchismo leghista e dal Leoncavallo a Casa Pound in un batter d’occhio. Non solo parla alle pance degli italiani ma rappresenta lui stesso, anche esteticamente, lo stereotipo dell’italiano; fisicamente e soprattutto culturalmente. È cattolico ma non praticante (ammesso che questo abbia una logica) ed esalta tanto la famiglia da aver fatto figli con più donne diverse, fuori e dentro il matrimonio. È tifoso come ogni italiano (anche se questa ormai è una caratteristica imprescindibile di tutti i politici, anche per quelli più radicali ed antitetici al capitalismo); è amante del mare e della buona cucina, sempre come tutti gli italiani, ed è un voltagabbana e un presunto furbo come ogni italiano che si rispetti. Salvini è l’ultraitaliano!

A ciò, in mancanza di altri argomenti, ti tira fuori gli altri assi nella manica, aizzando le masse con le paure ataviche di ogni uomo: il timore per lo straniero, soprattutto se musulmano, così come faceva con i meridionali quando era ancora separatista; oppure rivanga l’eterno astio per i cugini ricchi di Francia e di un Macron che si presta particolarmente alle sue invettive. Ma anche l’ammiccamento ai “bimbi” e ai pensionati, senza per questo fare qualcosa di concreto né per gli uni né per gli altri.

L’esaltazione poi di tutto ciò che è italico o, all’occorrenza, di ciò che è locale, passando dalla Liga Veneta ai neoborbonici, dal Parmigiano alla Mozzarella senza problema alcuno, lo rendono simpatico ovunque lungo lo Stivale, così come in Europa quando passa da Trump a Putin senza vergogna alcuna. Il tutto sapientemente condito con un po’ di terrorismo psicologico no vax, sempre utile all’occorrenza. Tanto a pescare nel vago del luogo comune, non si sbaglia mai.

Del resto la memoria è labile e sono sempre di meno coloro capaci di rispolverarla a monito per se stessi e per le future generazioni, sempre più obnubilate dalla rapidità e dall’insipienza di un’informazione sensazionalistica.

Ecco! Questo è il capolavoro Salvini, nessuno può stargli dietro, nemmeno quando fa meschine figure di strame come quella col sindaco polacco di Przemysl, che lo accusava di essere filorusso. Ad ogni modo lui ha la dote più importante di un politico di razza ed è quella della faccia tosta, ovvero sostenere l’inammissibile ad ogni costo e in questo lui è da oscar e nessuno sa farlo meglio, e nessuno potrà durare più a lungo di lui, perché lui è la sintesi dell’Italia attuale ovvero un coacervo di passato e futuro condito di timori e credenze ancestrali e un finto richiamo alla modernità.

Una volta mi chiedevo se fosse nato prima Belusconi o il berlusconismo e, risalendo all’edonismo reaganiano di D’Agostino e alla Milano da bere di Craxi e i soci della prima repubblica, qualche spiegazione me la sono pure data ma ora mi chiedo, altrettanto retoricamente: chi è nato prima, Salvini o lo stronzismo?

giovedì 28 agosto 2025

Ambientalista chi?

Ci sono almeno tre tipi di ambientalista: il buono, il brutto e il cattivo!

Il Cattivo 

È quello istituzionalizzato, quello che appartiene alle grandi associazioni nazionali, quelle corazzate e intangibili che, forti delle centinaia di migliaia di iscritti e dalle solide basi politiche, puntano più al globale che al locale. Quelle che parlano di ecomafie ma senza fare nomi e cognomi, e che puntano tutto sulle scuole, sulle giornate ecologiche, sulla stampa accondiscendente e sulle reti sociali per giustificare la loro talvolta inutile esistenza e il loro essere fini a se stesse.

Il brutto

  Poi c’è l’ambientalista fondamentalista, quello che vede il male dappertutto anche là dove non ce n’è. Vede complotti ovunque e si indigna per tutto tranne che per le cause concrete del male che vorrebbe combattere. Anche in questo caso, in maniera meno organizzata, più spontanea e occasionale, quest’invasato guarda sempre il dito e mai la luna, perché così anche a lui conviene. Nel momento poi, in cui sbatte la testa contro la dura realtà, decide si tirarsi indietro, per ricomparire alla prossima occasione di visibilità o in qualche tornata elettorale.

Il buono

  Infine vorrei citare l’ambientalista vero, ammesso che ce ne siano ancora, o che ce ne siano veramente stati in questo paese. Non quello politicizzato, non quello fanatico ma quello che studia o, quantomeno, conosce molto bene la realtà di cui parla. Forse è l’unico che frequenta il territorio e dal quale generalmente proviene, conosce la realtà globale, spesso collegata con la sua, ma prende di petto quella locale e lo fa a suo rischio e pericolo.  l’unico che ci mette la faccia ed è l’unico che denuncia con atti concreti ciò che accade sulla sua terra, senza creare cortine fumogene, quelle utili a chi non vuol sporcarsi le mani o chi sciacquandosi la faccia con la sua retorica “green” è complice del suo presunto nemico.

A quest’ultima categoria, loro malgrado, appartengono anche quei martiri e quegli eroi che saranno opportunamente sfruttati dalle due precedenti, quelle che brilleranno della loro luce riflessa portando avanti un nome o un logo all’antitesi della loro missione.

martedì 26 agosto 2025

I giovani in fuga da noi stessi

 

Molti lamentano la fuga di cervelli all’estero; una folta schiera di rappresentanti istituzionali e della società civile invitano i giovani a non andare all’estero o a ritornare nei loro paesi d’origine.

Fermo restando che l’essere umano dovrebbe essere libero di muoversi e spostarsi là dove vuole e senza confine alcuno, in un luogo che ritiene essere più congeniale al proprio stile di vita e alle proprie aspirazioni, bisognerebbe a questo punto capire, analizzare meglio, il perché i giovani, così come per altre ragioni facevano i loro nonni e i loro bisnonni, continuano ad emigrare. Non essendo un sociologo, porterò ad esempio la mia esperienza familiare.

Mia figlia

Mia figlia vive stabilmente in Spagna da almeno 6 anni e non è intenzionata minimamente a tornare né in Italia, né tanto meno a Napoli. Mia figlia ha due lauree ma non ha disdegnato, come del resto il padre, lavori considerati più umili. Ha conosciuto tutti i livelli di un contesto lavorativo straniero ed ora lavora nelle risorse umane di una multinazionale. Ogni impiego, mia figlia se l'è trovato da sola, senza raccomandazione paterna, senza scendere a compromessi con niente e con nessuno e con tutti i diritti garantiti, inclusi, sembra assurdo dirlo, anche quelli economici. Già questo basterebbe a trattenerti nella Penisola Iberica, come in qualsiasi altro luogo del mondo dove non sia normale lavorare sottopagati o, addirittura, senza percepire reddito alcuno, come è capitato a me, nonostante non fosse stata mia intenzione farlo e nonostante una causa di lavoro vinta all’attivo.

La ricerca della felicità

Ma, un'altra cosa non viene tenuta in conto da chi lamenta la fuga dei giovani verso altri paesi, ed è quella che, altrove, si vive meglio! Ci riempiamo la bocca dei primati borbonici ma perdiamo d'occhio i primati negativi del nostro Paese e, soprattutto, della nostra bella Napoli. Forse, quei presunti e senz’altro anacronistici primati servono proprio a quello, a nascondere il nostro stato miserrimo e, magari, anche la nostra inerzia. Pare che, secondo i più, le indubbie bellezze della nostra città e del Belpaese tutto, bastino a trattenere qualcuno che non sia un turista; ma, le tanto decantate contraddizioni di Napoli, possono divertire una persona in vacanza ma di certo non un ragazzo che vede quotidianamente mortificate, non solo le sue aspirazioni, ma anche la sua dignità; parlo ovviamente di ragazzi poiché noi adulti, quando non siamo diventati parte di questo sistema balordo che ormai giustifica l’ingiustificabile, dovremmo aver già trovato, in un modo o nell’altro, la soluzione alle nostre di frustrazioni.

L’esempio della Spagna

Badate bene, nel caso di mia figlia sto parlando di Spagna e non di Germania, di paesi scandinavi, o altri dove lo stato sociale è ancora più solido e unanimemente riconosciuto. Tenete presente che, benché il PIL spagnolo sia più basso del nostro, lì, oltre ad essere tendenzialmente in ascesa, contrariamente al nostro, esiste ancora uno stato sociale degno di questo nome e dove tutto, anche se in maniera farraginosa va ancora avanti e senza la necessità di intercessione dell’amico o del parente di turno e soprattutto non ancora definitivamente svenduto al privato.

La Spagna non è il paradiso in terra, la Spagna è un paese normale! È un paese con i suoi problemi ma dove, se un monoreddito che vive in un’area interna del paese, vuole portare la famiglia al mare, non dovrà indebitarsi per fare le sue vacanze e cedere al ricatto dei balneari perché, prendendo un’autostrada gratuità potrà raggiungere una spiaggia attrezzata dallo stato e altrettanto gratuita. Il bagno a mare non è tutto ma è già tanto; potrei parlarvi dei parchi cittadini con annesse aree per i bambini, presenti in ogni città e ogni luogo, anche il più sperduto; degli spazi per gli anziani e per i diversamente abili, delle piste ciclabili reali e non nominali come quelle che spacciano i nostri governanti o chi opportunisticamente li asseconda, nel migliore dei casi volendo vedere un bicchiere mezzo pieno e non lo squallore nel quale essi stessi circolano curnuti e mazziati. A volte basterebbe poco per trattenere una persona nel luogo dove vive, basterebbe il poter passeggiare in sicurezza nel centro storico e una sacrosanta normalità, e non la Disneyland partenopea.

Non si vive di sola pizza

I giovani quindi vogliono essere liberi, liberi di scegliere il loro futuro e vivere in un contesto con un minimo di normalità, i giovani che se ne vanno perché se li azzeccano i pittoreschi contrasti della Napoli di Maurizio De Giovanni e il suo folclore prêt-a-porter, del murale di Maradona e dell’ottima cucina, o di quella sua unicità che mortifica e che spesso uccide.

Il genio italico non è un qualcosa di innato da esportare all’estero, ma è quel naturale istinto alla sopravvivenza che si elabora sin dai primi anni di vita, nelle aule scolastiche fatiscenti, nei mezzi pubblici inesistenti, nelle interminabili file agli sportelli, nelle indicazioni stradali sovrapposte e nella vana ricerca di una legalità che non c’è e nel divincolarsi tra gli strali di false promesse di benessere e realtà sconfortanti.

I giovani vogliono essere se stessi e non l’immagine stereotipata di un napoletano!

Immagine creata con l’IA

PS: vedere i miei colleghi palestinesi morire per raccontare e riportare la realtà mi fa sentire male e anche un po’ fuori luogo quando scrivo di queste amenità. Ma mi rendo anche conto che il comunicare non ha colore, non ha tempo, è un istinto primario e basta. W la Libertà! W la Palestina libera!

domenica 24 agosto 2025

La cintura di sicurezza

 

La cintura di sicurezza della mia auto mi ha salvato la vita, e non per casualità, perché la metto sempre e non mi sono mai vergognato di farlo.

Chi non l’indossa non è solo un irresponsabile, per se e per gli altri, ma è anche uno che presume di essere superiore agli altri. Quest’atteggiamento è assai diffuso dalle nostre parti, in qualsiasi contesto, anche tra i lavoratori, quelli che sostengono che si è sempre fatto così e che senza le misure di sicurezza lavorano meglio e che quelli buoni non perdono tempo dietro queste cose inutili e, nel frattempo, anche loro, sono vittime di un sistema che loro stessi reiterano. Poi arrivano le attenuanti: il fastidio, la dimenticanza, l’ignoranza, l’età, la patologia, l’altezza, il breve tratto di strada da percorrere, le bufale che le cinture fanno più danni che altro o, un colpevole e talvolta infastidito e stizzito silenzio.

I veri uomini e le vere donne fanno scelte serie e consapevoli, anche quando questo significa andare contro un opprimente, esteso e stupido senso comune, quello che non gli verrà mai incontro dopo un incidente.

mercoledì 20 agosto 2025

Stato della SP 114


Campa cavallo che l’erba cresce …

… e poi brucia lungo la carreggiata che porta al Vesuvio.

La strada che porta al Vesuvio è una strada provinciale (la SP 114) fino al bivio di quota 800 m.slm. Poi da lì, fino all’ingresso del percorso turistico che porta al Cratere, a “Quota 1000”, è stata affidata in comodato d’uso al Comune di Ercolano, lo stesso che gestisce, attraverso una società, gli stalli per il parcheggio delle auto, delle moto e dei bus.

Da una settimana a questa parte, pare che l’incendio che ha interessato il versante sud-orientale del Vesuvio, si sia finalmente placato, anche se qua e là spuntano ancora pennacchi di fumo, dovuti a quei tronchi carbonizzati che lentamente si consumano e che possono essere ancora molto pericolosi. Da poco siamo usciti fuori da un incendio che poteva bissare quello del 2017, e che ha comunque mandato in fumo quasi 1000 ettari di bosco e macchia vesuviana, con un alto rischio di desertificazione di una parte di territorio che ha visto passare, in un relativamente breve intervallo di tempo, ben tre grossi incendi, quelli del 2016, del 2017 e quest’ultimo del 2025.

Eppure, grazie anche al fatto che il versante nord-occidentale del Vulcano non è stato fortunatamente toccato da quest’incendio, la vita, lungo la strada che porta al Vesuvio, è ricominciata come se nulla fosse accaduto, il traffico turistico è ripreso a tutta forza, navette, NCC, bus granturismo, moto, camper, auto continuano a salire lungo l’unico asse viario carrabile che conduce al Gran Cono del Vesuvio. Il che sembrerebbe un bene, vista l’alta stagione turistica, è cosa buona è giusta che l’economia si riprenda dopo una decina di giorni di sosta forzata a causa dell’incendio, ma sembra che l’accaduto non sia servito di monito per nessuno.

Infatti, nei due tratti di competenza della strada, che parte all’incirca da Via Vesuvio ad Ercolano (localita “La Siesta”) e arriva fino al piazzale di “Quota 1000”, nello stesso comune, i bordi della carreggiata sono invasi da vegetazione spontanea ed erba secca infiammabile che, a nostro modesto avviso, visto anche l’alto flusso automobilistico giornaliero, potrebbero creare una situazione assai pericolosa per la possibilità di innesco di incendio. Gli automezzi, con le loro marmitte catalitiche surriscaldate, ma anche l’inciviltà di chi fuma e lancia le cicche dai finestrini, moltiplicato per le migliaia di visitatori al giorno, potrebbero facilmente innescare incendi cagionevoli di nuove sciagure, proprio come accadde il 5 luglio 2017 in via Vesuvio quando l’incendio scoppiò in una cunetta sporca e arsa dalla siccità, e non si arrestò fin quando, esaurita la sua forza e il combustibile a disposizione, arrivò fin sui Cògnoli del Monte Somma.

Sarebbe corretto e opportuno che, così come giustamente si impone ai fondi privati, di pulire i propri terreni dall’erba secca per evitare l’innesco e la propagazione degli incendi, misura attuata in molti comuni vesuviani, anche gli enti che amministrano la strada del Vesuvio puliscano e mettano in sicurezza l’importante via di comunicazione. Soprattutto quando questa attraversa un Parco Nazionale e, in più punti, la riserva integrale del Tirone Alto Vesuvio.

La questione delle competenze sembra essere complessa, perché pare che non sia chiara la giurisdizione sulle fasce latistanti l'asfalto, ma pare anche chiaro che i due enti interessati siano appunto la Città Metropolitana e il Comune di Ercolano che, pur avendo quest’ultimo esternalizzato la gestione dei parcheggi, acquisisce comunque un notevole introito per tale servizio, che ammonterebbe tra i seicento e i settecentomila euro, se non di più, e che potrebbero essere utilizzati per una pulizia degna di una parco nazionale e, soprattutto, per evitare disastri come quello degli ultimi giorni e degli ultimi anni.