sabato 2 agosto 2025

La dolosa colpa


… quella del non informarsi e puntare sempre il dito verso qualcuno o qualcosa e rimanere sempre e comunque inattivi davanti agli incendi.

Posto che la maggior parte degli incendi boschivi sono provocati dall’uomo andrebbe fatta una sostanziale chiarezza tra le varie tipologie di cause. Sì perché pare proprio che la parola incendio, più che un sostantivo, sia ormai divenuta una locuzione e che sia sempre considerato a prescindere un incendio doloso deviando di fatto l’attenzione là dove sarebbe più opportuno farlo.

L’incendio doloso, sia ben chiaro, è effettivamente la maggiore delle cause rilevate per gli incendi boschivi (il 49,9% secondo fonte ISPRA nella sua relazione 2024). Sempre L’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) individua 5 tipologie di cause di incendio: naturale; involontaria, volontaria; dubbia e non classificata, i Carabinieri Forestali invece, classificano le cause nel seguente modo: naturali; accidentali; colpose e dolose. Contrariamente però a quanto si trasferisce attraverso i mezzi di comunicazione, un po’ come accade anche con l’uso errato della parola piromane, usata invece di quella di incendiario, esiste anche una buona parte di incendi di natura colposa o involontaria, il 18,2% che, accompagnato da un 28,1% di cause non classificate; un 2,9% di cause dubbie e uno 0,9% di cause naturali ci troviamo davanti a un 50,1% che, molto probabilmente, non risulterà essere dolo (sempre dati ISPRA 2024). Incendi quindi provocati più dall’imperizia o l’ignoranza che dalla ricerca del profitto o da fantasmagorici complotti che spesso tendono a nascondere colpe condivise se non complicità da ricercare altrove.

La colpa

Generalmente la stagione di maggior rischio per gli incendi è quella estiva, anche se non mancano dalle nostre parti incendi autunnali o addirittura invernali, il periodo di maggiore attenzione va, in linea di massima, dal 15 giugno al 15 settembre, con possibilità di prolungarlo ad ottobre come accadde lo scorso anno. Ciò nonostante, in molti, a prescindere dall’area protetta o meno, conservano alcune insane abitudini, talvolta tollerate anche dalle autorità, ma che mettono a serio repentaglio la sicurezza pubblica e i preziosi ecosistemi qualora si trattasse di zone rilevanti dal punto di vista naturalistico. Esistono infatti alcune pratiche, come ad esempio quella di dar fuoco ai terreni agricoli per rivitalizzarli precocemente, oppure l’incendio delle aree incolte per favorire la crescita degli asparagi selvatici che, in taluni periodi dell’anno, e con talune condizioni meteo favorevoli al fuoco, spesso cagionano incendi indomabili e dalle conseguenze imprevedibili.

Un’altra pratica molto in voga nel Napoletano è quella del cuocere le conserve di pomodoro al fuoco della legna, molti lo fanno per fortuna nei cortili, là dove questi esistono ancora, nelle famose curtine, ma molti altri, continuano a farlo in campagna, così come accade quando va “scippata a pummarulara” ovvero quando, tra agosto e settembre, si ripulisce il campo coltivato a pomodori e se ne bruciano le sterpaglie con i conseguenti disastrosi incendi, rafforzati anche dall’esistenza di numerosi campi incolti che per ragioni di microfondo, di mancata osservanza delle direttive delle amministrazioni locali e della non individuazione dei proprietari, costituiscono dei veri e propri serbatoi di combustibile.

Infine c’è la pratica della furnacella, della gita estiva fuori porta con brace annessa, in montagna, al fresco dei boschi ma spesso, questa bella attività cagiona danni irreparabili per la cattiva gestione del fuoco, del suo abbandono e, consentitemelo anche dello scarso controllo di queste aree adibite al pic-nic.

Il dolo

Poi è vero, esiste il dolo ma per far sì che questo venga dimostrato mediante le indagini degli inquirenti, c’è bisogno di trovare in flagranza di reato l’incendiario, o, in caso di patologia conclamata, il piromane. Capire quindi se esistono motivazioni per quel gesto ma molto spesso, il dolo equivale, contrariamente a quanto si pensa, alla colpa di qualcun altro, poiché le azioni preventive da parte di chi di dovere sono spesso inesistenti, palliative se non addirittura dannose.

Il dolo prevede una mano criminale o, come abbiamo detto, quella di un piromane, le cui azioni non possono spesso essere previste o talvolta, non c’è la volontà di farlo, come per chi dà fuoco alle discariche abusive della Terra dei fuochi, ma l’incendio colposo invece, legato alle suddette usanze, può essere combattuto, oltre che con i divieti e le eventuali sanzioni, anche con un’opportuna opera di educazione ambientale, ma stavolta rivolta verso gli adulti e non i bambini, questi da tempo opportunamente edotti sugli argomenti di natura ambientale. Il problema non è la scuola ma al di fuori di questa dove non esiste né rispetto né educazione e, molto spesso, nuda e cruda prevaricazione, ecco perché la distinzione tra le due cause principali di incendio va opportunamente fatta, per individuarle e combatterle separatamente.

Poi esiste il complottismo dell’abusivismo edilizio, degli stagionali, dei Canadair e della tuttologia da social, tutte eventualità talvolta possibili ma non ricalcabili per tutti contesti che, al netto delle leggende metropolitane dei cani e i gatti kamikaze, andrebbero basate nelle realtà specifiche e non generalizzate come verità assolute, stile bar dello sport. Nel caso del Napoletano e soprattutto del Parco Nazionale del Vesuvio, oggetto nel 2017, di un devastante incendio, l’edilizia era interdetta a prescindere, con o senza anagrafe delle aree incendiate comunali (obbligo spesso non ottemperato dalle stesse amministrazioni), gli operatori forestali sono tutti dipendenti delle partecipate statali, Armena, SMA Campania, SOGESID, etc e i Canadair, essi pure appartengono allo stato (Protezione Civile, Vigili del Fuoco e così via).

Spesso però, bisognerebbe chiedersi quanta responsabilità abbiamo anche noi a tal riguardo, come testimoni muti di un malcostume tutto nostrano dell’autoassoluzione e della ricerca spasmodica di un capro espiatorio.

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sabato 26 luglio 2025

Mi carta a Rosa Montero sobre la cuestión de la caza y sobre todo de como muchos lo actúan con el medio ambiente


 Hola Rosa,

soy Ciro un profe de secundaria en una pequeña ciudad en las laderas del Vesubio. Te escribo después de haber leído, en el País Semanal, tu artículo sobre la caza, los cazadores y la criminalidad inherente a esos personajes. No te escribo sólo como convencido animalista sino como activista. En efecto, en mi tiempo libre, soy Guardia Venatoria del WWF, es decir que hago el guardabosques como policía administrativo en la Provincia de Nápoles. Es un trabajo voluntario que me permite de luchar contra la caza ilegal, la contaminación y el maltrato animal en mi país.

Empecé este dificil camino desde hace mucho tiempo, principalmente cuando supe del sacrificio de Angelo Prisco, un mariscal de Guardia de Finanza que fue brutalmente asesinado en 1995 por dos cazadores furtivos que perseguía en el Parque Nacional del Vesubio. Entender que se podía morir para proteger el medio ambiente me indignó y me tocó el hecho que la comunidad de San Giuseppe Vesuviano, ciudad de nacimiento del Angelo, pronto se olvidó de él, viendolo como una figura incómoda o un tonto que había muerto por nada, nada por lo cual valiese la pena morir.

¿Por qué te escribo esto? Porque estamos en tierra de camorra, la mafia napolitana, de la que todos hablan pero a la que nadie quiere ver, y sobre todo, la que está en cima de cada principio de legalidad, real o ficticia que sea. La imagen de Angelo Prisco fue manchada con una capa de rumores que nada tenían que ver con la realidad: que era una cuestión pasional; que había descubierto algo más, algo que no tenía que ver; y que no era posible ser matado por dos liebres y unas becadas. Eso es el punto de la cuestión, en un país donde se sigue muriendo por un zapato manchado o por una cuestión de precedencia en un cruce, a los demás no parecía posible ser matado por un presumido derecho ancestral de caza.

Cuando pasó lo de Angelo, eran unos pocos meses que había nacido el Parque Nacional, una conquista para los defensores de la naturaleza vesuviana, un sitio precioso que, a pesar de su Volcán activo, es una de la áreas más pobladas de Europa. Hoy, después de 30 años, a la mayoría de las personas, el parque es indiferente, según muchas de ellas, impone sólo vínculos y no permite el desarrollo de las comunidades locales. A pesar de estos vínculos, durante este tiempo, el Parque Nacional ha sido objeto de cientos de vertederos ilegales, sigue con sus cinco vertederos históricos, antecedentes a su realización y, en sus bosques, en buena parte quemados durante el incendio del 2017, todos hacen lo que quieren, contruyen, contaminan, corren con sus motos, ensucian y sobre todo cazan aunque sea vedato.

El derecho feudal de cazar, de considerar privado lo colectivo es una actitud arraigada profundamente aquí: lo que está cerca de mí, es mío; lo que he siempre hecho, lo continuaré a hacer, y eso sigue adelante por encima de cada ley, legal o moral que sea.

Ser animalista y ambientalista en mi país significa ser un bicho raro, ser visto como un afeminado, siempre que sea un insulto, un vago que no tiene nada que ver con la realidad o el pragmatismo del mundo real, a menos que, tu activismo no sea formal, el que mira más lo global y que no toque lo local, lo que sí tiene nombre y apellido.

Yo seguiré mi camino, aun si creo que va a ser inútil, y lo haré porque tengo la responsabilidad del ejemplo que tengo que dar, porque soy mayor, soy padre, soy docente y porque la muerte de un joven de 27 años no puede quedarse así, sin una razón.

Link all'articolo di Rosa Montero

‘A guerra ‘ncapa*

 


“L’unica guerra che esiste in questo mondo, è quella che ognuno di noi combatte contro il proprio ego. Le altre guerre, sono solo effetti secondari.”  Abdal-lah Abulaban Shalabi

Chi mi conosce, e quei pochi che mi leggono, sanno bene qual è la mia posizione in merito alla questione palestinese così come per quella Ucraina. Sanno che, più che condividere post non miei, più che aizzare l’indignazione altrui con immagini forti, cerco di portare avanti un confronto costruttivo con chi ha talvolta la bontà, altre volte solo il puntiglio, nel rispondermi.

È mia opinione che, a Gaza, sia in atto un genocidio in piena regola e che, quella dell’Ucraina, benché in molti si ostinino ancora a fare distinzioni stereotipate sia, senza se e senza ma, una guerra di conquista da parte della Russia, che stato democratico non è, mai lo è stato e forse mai lo sarà. Scrivo questo perché non ritengo opportuno che si facciano distinzioni tra le due tragedie, senza per altro scadere nella più becera faziosità politica e ideologica.

Il mio scrivere non vorrebbe essere quello di chi spara sentenze ad ogni costo o di uno che vuol cercare una comoda mediazione in stile democristiano/governativo, del resto a che pro dovrei farlo, viste le mie umili velleità comunicative? Il mio messaggio a tal riguardo è semplicemente quello di chi vuol interagire con gli altri, per capire e dare il mio minimo apporto alla causa della pace. Infatti, mentre per la questione palestinese, per la sua estrema tragicità, quasi nessuno mostra obiezioni (e vorrei ben vedere!), fatta esclusione per l’opportunismo politico del nostro governo e dei suoi partigiani che giocano ancora con le parole, per quella ucraina abbondano i distinguo nell’opposizione e negli ambienti di sinistra.

Per il discorso palestinese, in virtù di una sterile e ormai anacronistica geopolitica atlantica, c’è ancora chi si ostina, nella compagine governativa, a negare la “sistematica distruzione di una popolazione” inerme, giustificata dall’azione, spesso complementare con Israele, da parte di Hamas. Questo di certo non può rappresentare l’intero popolo palestinese, benché sia l’unico esercito che ormai lo protegga. È comunque un dato incontrovertibile che Tel Aviv abbia di fatto, dal 48 ad oggi, fagocitato tutti i territori popolati dai palestinesi e che, dal 7 ottobre 2023 in poi, abbia iniziato la conquista definitiva di ciò che rimaneva ancora a quel popolo.

Negare tutto ciò è criminale, e chi lo sta facendo dovrà assumersene prima o poi la responsabilità.

Per quel che concerne l’Ucraina, mentre il nostro governo sembra, e sempre per ragioni atlantiste, quasi del tutto schierato in favore di questa, la Lega, il M5S e la sinistra radicale (quando gli opposti si attraggono e convergono) invece giustificano, in diversa misura, l’azione russa che, contrariamente al loro punto di vista, anch’essa sta attuando una sanguinosa guerra di conquista al pari di Israele. Questo conflitto, quando non avallato da una vicinanza ideologica, come lo si è fatto ad esempio per la Siria Asad, non può essere senz’altro giustificato dal presunto accerchiamento della NATO di quelle zone di influenza russa (che pure meriterebbero rispetto in quanto entità nazionali e non semplici espressioni geografiche) perché, a questo punto, si giustificherebbe il terrorismo di Hamas per ciò che sta accadendo a Gaza, visti i 77 anni di invasione di quei territori e poi, permettetemelo, entrare nella NATO, è cosa ben diversa dal dichiarare guerra a un paese, invadendolo con forze soverchianti, proprio come sta accadendo anche in Palestina.

Un’altra obiezione delle sinistre (ma anche del populismo in generale) è quella che il cosiddetto occidente stia fornendo aiuti sostanziali all’Ucraina mentre, verso il popolo palestinese non ci si è mossi se non attraverso i pronunciamenti, pressoché platonici, delle Nazioni Unite. Se questo è vero, ciò non vuol dire che nessuno armi Hamas, il gruppo jihadista è evidentemente armato e finanziato da altri paesi che pure ne condividono intenti e sorti, vedi tra gli altri l’Iran. Quest’atteggiamento dell’Occidente però, spesso vincolato da un non riconoscimento effettivo dello stato palestinese da parte di molti paesi, non è che annulli o diminuisca l’azione che la Russia sta invece attuando in Ucraina. Ciò significa che, tra le due guerre, l’una non esclude l’altra, quanto meno nel principio di condanna di chi la guerra l’ha scatenata e di chi la sta esacerbando a scapito, in entrambi i casi, delle inermi popolazioni civili.

Anche in questo caso, tutti coloro che negano l’aggressione della Russia o la giustificano, si assumeranno le loro di responsabilità di fronte alla storia e alla propria coscienza, se ne hanno ancora una o se l’hanno persa tra le maglie appiccicose della Rete.

*Espressione napoletana che indica uno stato psicologico fortemente alterato.

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giovedì 17 luglio 2025

La scuola oltre i luoghi comuni

 


Partendo dal presupposto che il concetto di scuola non equivale a quello di baby-sitting, andrebbero specificate alcune cose prima di parlare delle emblematiche 13 settimane di vacanze estive.

Rispetto agli altri paesi europei va sottolineato che, sebbene altrove si facciano pause estive più corte, ciò non vuol dire che da noi in Italia si vada di meno a scuola.

I dati effettivi

In effetti, oltre a non essere gli unici a farne 13 di settimane, come l’andante vorrebbe, ci sono molti altri paesi che ne fanno 12, 11, 10,  e così via, fino alle 6 di Germania, Regno Unito e Danimarca. Quindi, almeno per quanto riguarda gli studenti, secondo i dati di Eurydice (The Organization of School time in Europe, primary and general secondary education), in Europa, gli studenti bulgari della scuola primaria, che hanno tra le 13 e le 15 settimane di vacanze, gli studenti italiani, che hanno tra le 11 e le 14 settimane e gli studenti islandesi della secondaria superiore, che hanno più di 13 settimane, sono quelli che fanno in media più vacanze estive.

Ma se incominciamo a sottrarre agli altri paesi i lunghi periodi di festività durante l’anno scolastico, come le vacanze autunnali (in Francia, Germania, Danimarca e Regno Unito), la settimana bianca a febbraio (in Francia, Germania, Danimarca e Regno Unito), le vacanze di maggio (in Germania e Regno Unito), la Pentecoste a giugno (in Francia) e via dicendo, ovviamente con Natale e Pasqua inclusi e con pause in media molto più lunghe delle nostre, si ridurranno non poco gli effettivi giorni di lezione anche per quei paesi che hanno vacanze estive più corte delle nostre. L’Italia quindi, se è vero che ha il record per le vacanze estive più lunghe, tuttavia condivide, assieme alla Danimarca, anche quello dei giorni effettivi di presenza a scuola, pari a 200 rispetto alla metà dei 37 paesi europei presi in considerazione (paesi UE e paesi candidati UE), dove l’anno scolastico dura in genere tra i 170/180 giorni.

Se poi consideriamo che l’ora scolastica, che da noi è di 60 minuti, altrove va dai 40 minuti ai 55 (con una prevalenza di 45 minuti nella maggior parte dei paesi) il quadro si ribalta di non poco rispetto alle ore e quindi ai giorni effettivi di studio dei nostri studenti. Sostenere quindi che quella pausa andrebbe rivista, dovrebbe tener presente anche del quadro generale europeo e farlo in senso compiuto, senza estrapolare un unico dato ma esaminandoli tutti e non stabilire per assioma ciò che il luogo comune vorrebbe come dato certo e inconfutabile.

A ciò è necessario aggiungere che, mentre dopo la prima decade di giugno termina l’attività didattica per gli alunni della scuola primaria, questa non termina affatto per quelli della Scuola dell’Infanzia, che si conclude assieme a quella dei docenti entro il 30 giugno, così come non termina per gli studenti e i professori della secondaria di primo grado, che devono affrontare gli esami di fine ciclo. Non termina a giugno neanche per quelli della secondaria di secondo grado, impegnati tra esami di stato, corsi ed esami di recupero e progetto “Scuola Viva” nelle calde aule estive, arrivando facilmente alla fine di luglio, in genere il 18 di questo mese, ma talvolta anche oltre.

Una riflessione ironica ma non troppo.

Le nostre scuole, ma anche il nostro comparto turistico, non sono di certo pronti per un calendario scolastico che si protragga, là dove non lo faccia già, oltre la metà di giugno, fino a luglio e ad agosto incluso, a meno che, non si voglia dotare opportunamente i locali scolastici di aria condizionata e di servizio frigobar e che gli esercenti turistici debbano rassegnarsi a lavorare solo ad agosto e, a questo punto, nemmeno entro quel limite temporale, in base alle richieste di un certo tipo di utenza o chi per loro. Si vorrebbe pertanto una sorta di scuola prêt-à-porter, una scuola che vada incontro alle necessità delle singole famiglie e non della comunità tutta e ancor meno della crescita sociale e culturale dei propri figli, che hanno sì bisogno di scuola, ma anche e soprattutto di vivere.

Se quindi in inverno si riesce a sopperire con gli indumenti più pesanti, al freddo delle aule, il caldo insopportabile della nostra estate e di un clima che inesorabilmente cambia, non sarà di certo coerente con una didattica degna di questo nome, del resto non lavoriamo tutti nelle privilegiate segreterie scolastiche dove i condizionatori vanno a palla.

L’allaccio al mondo del turismo, pur essendo una provocazione, si avvicina molto alla realtà di un mondo interconnesso e che pure risentirebbe dell’assenza, non solo fisica, ma anche economica di quelle famiglie e di quelle parti in causa che decidono di andare in vacanza come si era sempre fatto, tra luglio ed agosto.

Rapporto Eurydice 2024-25

sabato 28 giugno 2025

La scintilla

 

Sto facendo gli esami di stato, sì perché si chiamano ancora così; neanche il tempo di farci abituare a questa dizione che a breve si ritornerà alla statutaria e anacronistica maturità. Sono commissario esterno ed assisto alla lenta e incessante trafila della meglio gioventù di una cittadina della provincia di Napoli, quella che, con enfasi e passione espone il suo percorso culturale davanti alla nostra commissione. C’è chi lo fa bene, chi lo fa male e chi lo fa anche in maniera egregia, ma nessuno, al momento nessuno, e sono anni che lo aspetto, ha ancora mostrato quella scintilla negli occhi caratteristica della giovinezza e della sua indole ribelle, innovativa e rivoluzionaria.

L’esame di stato, ormai, non è altro che un rito di passaggio, lo è come la prima sigaretta, il primo bacio, la patente e tante altre cose ormai inflazionate e ormai fugaci come tanto altro in questo mondo consumistico, e forse anche per questo gli argomenti trattati dai ragazzi sono tradizionalmente scontati, scontati e spesso superficiali come il loro rapporto con lo studio, con la conoscenza e con la loro crescita culturale e mi auguro che almeno le emozioni si salvino da tutto questo inutile marasma.

La colpa è sicuramente nostra, nostra come insegnanti ma anche come genitori e uomini di questo tempo; perché non sempre siamo stati capaci di ricoprire il nostro ruolo di docenti, nelle nostre rispettive materie di insegnamento, ma soprattutto perché siamo venuti meno al nostro ruolo di educatori. Del resto, nel bene come nel male, loro ci offrono quello che gli abbiamo dato, ma anche quello che noi vogliamo che loro ci dicano. Stiamo diventando degli meschini burocrati che producono quintali di carte e che registrano il nulla. Diffondiamo luoghi comuni, che promuovono altrettanto mediocri studenti, tutte parti in causa di un quadro sconfortante e spesso inconsapevoli delle proprie miserie.

Entro in questo liceo, una scuola modello, là dove tutto non sembra appartenere ad un contesto meridionale (consentitemelo); la scuola è tappezzata di opere inneggianti alla difesa dell’ambiente e a tutte quelle tematiche affini al sociale e soprattutto alla condanna del femminicidio e alla discriminazione di genere. Anche la classe dove si stanno svolgendo gli orali ne è piena ma, sul lato opposto di questa, trovo un intero muro imbrattato da figure falliche, graffiti degni della camera proibita del MAN e in netto contrasto con ciò dovrebbe stimolare la contrapposta cartellonistica ufficiale.

I power point sulla questione ambientale esposti dagli esaminandi scorrono inesorabili tra buoni propositi, bottiglie, bicchieri e vassoi di plastica; tra la problematica delle microplastiche e i lustrini diffusi ai quattro venti per festeggiare il diploma; tra un mare di proponimenti e buone intenzioni che rimarranno all’interno di quell’aula e che quasi mai ne usciranno fuori. Fuori c’è il mondo reale che comunque appiattisce un po’ tutto e un po’ tutti e che ci plagia, illudendoci di essere al passo coi tempi e di essere cittadini modello perché ci indigniamo per l’Amazzonia che brucia e per lo scioglimento dei poli, ma per il quale non facciamo nulla, soprattutto per quanto abbiamo attorno, ammesso e non concesso che si sappia qualcosa a riguardo. Una recita nella quale siamo tutti attori, talvolta inconsapevoli, ma sicuramente, a vario titolo, tutti protagonisti.

martedì 10 giugno 2025

Armiamoci e partite, ovvero siam tutti figli del padre padrone.

 


Dedicato ai quei 14 milioni di italiani che sanno prendere posizione.

In un paese di tuttologi, dove tutti sentenziano su tutto, ci si arresta invece davanti a 5 semplici quesiti. Semplici quanto necessari, per correggere le anomalie di un paese che non sa che direzione prendere.

E invece no! Nell’unico momento di democrazia diretta, l’italiano medio preferisce andare come al solito al mare.

Di certo, se tra quei quesiti ci fosse stato quello dell’elezione diretta del primo ministro, allora sì che, in quel caso, si sarebbe andati in massa a votare, e non solo per la spinta dei referenti politici locali, ma per ferma convinzione.

Questo perché, in questo paese, su quel nuovo bar dello sport che sono diventati i social, si parla e si sentenzia fin quando le parole non comportano responsabilità dirette, ma poi, al dunque, quando dalle parole si deve passare ai fatti, tutti si tirano indietro, per la serie, armiamoci e partite! L’elezione diretta del premier implicherebbe invece l’affidamento all’uomo/donna forte di turno, delle proprie responsabilità, gli si delegherebbe ogni cosa pur di non prendere posizione ma, soprattutto, pur di non prendersi nessuna responsabilità. Una sorta di padre padrone che dovrebbe dirigere un paese di figli immaturi e incapaci di muovere un passo senza che qualcuno non gli indichi la direzione, il vero grande problema è che spesso, i presunti statisti, loro stessi non amano prendere posizioni, e il cane si morde la coda, fin quando questa non è completamente spolpata.

e quindi, in paese di dipendenti, pare assurdo che almeno 4 di quei 5 quesiti referendari, tesi ad equilibrare le sorti dei lavoratori, molti di questi non si siano recati alle urne, ma purtroppo è così, il relativismo assoluto e la sfiducia nello stato (del quale facciamo comunque parte anche noi) e un imborghesimento della classe operaia, che tutto è meno che proletaria, li hanno tenuti lontani dai seggi elettorali ma, benché comprensibile questa sfiducia, non è comunque accettabile, né tanto meno giustificabile poiché si è volontariamente consegnato, salvo specifiche faziosità, ancora una volta il paese in mano a quella stessa politica che, almeno sulla carta, si contesterebbe come il male assoluto dell’Italia.

Se non nel rispetto di chi ci ha permesso di esercitare questo sacrosanto diritto di voto, ovvero chi, spesso con sommo sacrificio, un’ottantina di anni fa ci ha donato la libertà, la prossima volta andiamo a votare e magari facciamolo anche per rispetto di quei 14 milioni di elettori che sono andati a farlo e che, con il loro 30% potrebbero, orientativamente corrispondere a un partito di maggioranza.

Risultati referendari 2025

domenica 8 giugno 2025

Locale e globale, vicino e distante, la luna e il dito

 

Ovvero, se vedi il bicchiere mezzo pieno è perché l’altra metà l’hai già bevuta tu!

Il relativismo culturale, l’autoassoluzione di massa e un certo opportunismo italico preferiscono guardare lontano, nel tempo e nello spazio, preferiscono speculare sui massimi sistemi ma disdegnano ciò che hanno a portata di mano e talvolta anche di risoluzione.

E sì! Perché, come spesso ho scritto, abbassare lo sguardo verso ciò che sta davanti a noi implica il riconoscere le nostre responsabilità, dirette o indirette che siano. Guardare altrove, soprattutto al passato oppure fuori dai confini regionali, e ancor meglio fuori da quelli nazionali, ci permette di muoverci con maggiore agilità tra le acque stagnanti della nostra ipocrisia.

Questo accade per le questioni ambientali dove spesso si preferisce preoccuparsi della tigre siberiana o del rinoceronte del Borneo ma non della discarica sotto casa. Questioni sacrosante, per carità, ma perché sporcarsi le mani con la monnezza, perché complicarsi l’esistenza con le dinamiche di un territorio complesso e quanto meno assai compromesso? Del resto, perché stuzzicare il can che dorme quando risulta molto più remunerativo parlare di ambiente in termini generali? Senza fare nomi e cognomi e fare al contempo anche carriera politica?

La stessa cosa accade per la storia, sarà che il mondo contemporaneo rimane ancora un mistero per molti, sarà che la storia nella scuola in tutti i suoi ordini e gradi, si ferma alla prima guerra mondiale, ma sempre più persone preferiscono il passato al presente, una fuga da un’attualità sempre più compromettente e che forse è meglio evitare. Questa è ad esempio una delle caratteristiche del revanchismo neoborbonico, un’età dell’oro tutta ad uso e consumo di chi vuole credere che le colpe del disastro meridionale siano tutte da addurre a qualcun altro che malignamente sia sceso dal nord del mondo per toglierci l’eden borbonico. Meglio pensare agli sbiaditi fatti di oltre 160 anni fa che speculare sulle nostre chiare colpe attuali, meglio puntare il dito sui Savoia che parlare di centosessanta anni e più di connivenza con ciò che si critica e soprattutto con mafia e mafiosità, questa sì che insita da sempre nella nostra cultura e vicina, molto più vicina dei Borbone e del loro bidet.

Un po’ come quando si usa il grandangolo per fare una foto, o ancor meglio, il drone, per ritrarre splendidi panorami, rigorosamente “mozzafiato”, senza focalizzare, magari con una bella zoomata, il male che si annida tra le bellezze della nostra terra. A che pro mostrare le discariche e le altre criticità dei nostri territori? Noi siamo la grande bellezza, noi siamo il paese che il mondo invidia e meglio quindi mostrare il bello che c’è in noi, meglio vedere il bicchiere mezzo pieno che il contrario.

Che poi, dopo i pensionati, ormai anche i giovani se ne vadano in altri paesi, non solo per lavoro ma anche per condizioni di vita migliori, poco conta, noi siamo simpatici e abbiamo il cibo migliore e le navi più belle del mondo e quando qualcuno dirà il contrario voi vedrete sempre il dito e non la luna che esso indica.

Immagine creata con l’IA

mercoledì 21 maggio 2025

Le morti grigie

 


A volte ho l’impressione che anche sui morti si faccia speculazione, pare ci siano i morti di serie A e morti di serie B.

Aggiungo che esistono anche lavoratori di serie A e quelli di serie B. La notizia è quella della morte di una maestra in un incidente stradale mentre era in gita con la scolaresca che le era stata assegnata. Il cordoglio è unanime, certo, ma lo è per il fatto tragico in sé, per la presenza dei bambini e per il ricordo che va ad eventi passati ben più gravi di questo, come ad esempio a quello della galleria del Melarancio, ma non al sacrificio di quell’insegnate in quanto tale. Nessuno, al netto dei ringraziamenti a Forze dell’ordine e Vigili del fuoco, ha infatti giudicato quella maestra come una vittima sul lavoro, lei non rientra nella retorica dei sindacati, lei non rientra nella pietas di stato.

In effetti molti considerano il lavoro degli insegnanti come un lavoro privilegiato ma lo è solo per la materia che trattiamo, e il privilegio diventa subito responsabilità, e parliamo ovviamente dei bambini e dei ragazzi che ci vengono affidati, responsabilità legata, non solo alla loro crescita culturale e morale, ma anche alla loro incolumità psico-fisica.

Innanzitutto vorrei sottolineare che quei docenti che accompagnano gli studenti in gita, come ancora la si chiama, ricoprono un incarico assai oneroso nelle visite guidate, nei viaggi d’istruzione, nelle trasferte Erasmus e quelle per i PCTO (Percorsi per le Competenze Trasversali e l'Orientamento), lo fanno gratis! Il che significa che tali lavoratori sono costretti, da una sorta di pressione sociale, a lavorare 24 ore su 24, a volte anche per più giorni, se non settimane, senza percepire straordinari e a volte rimettendoci anche i propri soldi e con una responsabilità immane, anche perché, oltre ai rischi comuni che un viaggio può avere, gli studenti più grandi vedono la gita come una zona franca nella quale l’eccesso la fa da padrone. Ebbene, nell’Italia delle commemorazioni e dei 3 morti al giorno sul lavoro, maestri e professori non hanno spazio, perché luogo comune vuole che loro siano dei privilegiati.

Lo sono perché sono quelli delle 18 ore settimanali, dei tre mesi di vacanze all’anno, dei fannulloni e del doppio lavoro. Pare che questo stereotipo, che potrebbe valere anche per altre categorie, valga anche per i sindacati, i quali, soprattutto nel mondo della scuola, badano più a far carriera, mirando alla dirigenza scolastica (che implica anche questa esperienza nel proprio curriculum), che a tutelare i lavoratori del loro comparto. In effetti non è che durante gli scioperi, gli insegnanti facciano sentire la loro voce ma mi chiedo il perché, in un mondo tanto attento a tutto e a tutti, si segua ancora il senso comune più che il buon senso e si dimentichi una fascia importante di lavoratori italiani che, se non soggetti ad orari da metalmeccanici hanno stipendi simili se non più bassi. Hanno sì la sosta lunga durante la pausa estiva ma questa è soggetta ad una regolamentazione che varia da regione a regione e da ordine e grado, nel senso che se i docenti della primaria sono liberi da impegni da luglio, quelli delle superiori, tra esami, corsi ed esami di recupero, lo sono, quanto meno, dal 19 luglio in poi, a seconda se gli esami di recupero del debito formativo si facciano a luglio o a fine agosto.

Rispetto ai colleghi europei va inoltre sottolineato che, sebbene qui si facciano pause estive più corte, almeno per gli studenti, all’estero si fanno lunghi periodi di festività durante l’anno scolastico, come la settimana bianca a febbraio e la Pentecoste a giugno, ovviamente con Natale e Pasqua, per quel che concerne ad esempio la Francia. Inoltre l’ora scolastica, che da noi è statutariamente di 60 minuti, altrove va dai 40 minuti ai 55 (con una prevalenza di 45 minuti nella maggior parte dei paesi) [1] e se è la somma che fa il totale, i numeri non tornano se si considerano più i luoghi comuni che la realtà dei fatti e se questi prevalgono su di una categoria, prima o poi varranno anche per un’altra mentre i lavoratori si azzanneranno gli uni con gli altri in un’assurda guerra tra poveri.

[1] https://www.orizzontescuola.it/tempo-scuola-durata-media-ue-185-giorni/#:~:text=Nella%20maggiornaza%20dei%20casi%2C%20una,i%2040%20e%20i%2055%20minuti.

             

venerdì 9 maggio 2025

Cattolico ma non troppo

 

Sono ateo e lo sono da prima della maggiore età, ho sempre professato il mio modo di essere e talvolta ne ho dovuto pagare anche le conseguenze, soprattutto quando, fresco laureato, inviavo i miei curricula presso le scuole cattoliche, subendone l’ostracismo. La mia è stata una scelta libera, forse ribelle in gioventù, ma ora agonisticamente consapevole e priva di coercizione alcuna, perché la libertà è forse la mia vera religione e anche per questo difendo quella altrui come se fosse la mia.

Questa mia coerenza cozza però contro quella un po’ blanda della maggioranza dei miei connazionali, quelli che vorrebbero la botte piena e la moglie ubriaca e che vorrebbero sentirsi cattolici e al contempo fare un po’ come cazzo gli pare. Quelli che: tanto basta credere e poi si vedrà; tanto un’assoluzione non te la nega nessuno e così via. E quindi, anche potendo definirmi cristiano per filosofia, non appartenendo al cattolicesimo per mantenere salde le mie scelte e, anche se non privo di merito, ne resto fuori perché non ho il marchio di fabbrica. Sono del resto cresciuto all’interno dei principi cristiani dell’amore o, quanto meno, della tolleranza verso il prossimo e quindi la mia vita non differisce più di tanto da quella degli altri, se non per la coerenza di certe scelte e per questo se non andrò all’inferno mi risparmierò forse qualche annetto di purgatorio ma non mi spetterà nulla in terra, perché non professo la fede cattolica, apostolica e romana.

Negli ultimi tempi ha fatto scalpore la notizia di una maestra che è stata licenziata da una scuola cattolica perché questa sbarcava il lunario spogliandosi su “Only fans”. Lei, e chi per lei, gridano ancora allo scandalo poiché nella propria sfera privata ognuno potrebbe fare ciò che vuole ma nel momento in cui si viene a sapere quel che fai scatta l’epurazione. La maestra si difende dichiarando che il suo basso salario (sicuramente più scandaloso delle sue nudità) la obbligava a spogliarsi in rete per vivere (e anche qualcosa in più) e che di certo non faceva e non aveva mai fatto pornografia. Ma sta di fatto che lei lavorava in una scuola cattolica e per questo, alla dirigenza e soprattutto alle famiglie, il suo denudarsi non piaceva perché non era cosa buona e giusta.

Due quesiti però mi sovvengono a tal riguardo, il primo è quello di come siano potute arrivare alla morigerata utenza le immagini di quell’insegnante tal come mamma l’aveva fatta. Mi vien da pensare a quei papà di quei bambini, che nella loro intimità, usando la famosa chat, abbiano creato uno sconcertante senso di ambiguità che cozza non poco con il moralismo che si è mosso contro l’insegnate. Il secondo quesito che mi sono posto è il seguente, ma che pensava la signorina, di farla franca in un mondo così perbenista? In questo paese solo quello che non si fa non si sa, ed ecco pronte le rimostranze delle famiglie e le loro logiche conseguenze, del resto era un istituto privato e confessionale e, in un contesto dove, anche nella scuola di stato, è la curia a dettar legge, cosa si aspettava?

Già altrove ho specificato che mostrare e usare il proprio corpo, vendendolo al migliore offerente, non sempre è una questione di piacere e di libera espressione del proprio essere, ma un nudo e crudo bisogno materiale. Non posso quindi che chiedermi, considerato il fatto di non essere stato mai assunto in una scuola cattolica per le mie idee, perché lei dovrebbe rimanervi per le sue azioni? La coerenza, questa è quella che non paga nel nostro contesto, magari entrambi siamo ottimi docenti ma con i nostri atti, dimostriamo di non appartenere alla loro morale e quindi destinati a restare al di fuori del loro mondo, con tutti gli annessi e connessi.

Molti, tanti divorziati, vivono fuori della grazia della chiesa, molti cattolici si indignano per tutto ciò, additando le mancanze, a volte ben più gravi dello stesso clero, ma mi chiedo, questi uomini e queste donne che si sono sposati secondo il rito cattolico, sapevano che quello era un sacramento e, in quanto tale, indissolubile o quasi? Ecco l’incoerenza e talvolta l’opportunismo dell’italiano medio, accettare tutto ciò che conviene nell’essere cattolico ma fare distinguo sul resto che non conviene. Ora, lungi da me fare l’apologia della Chiesa che, da almeno duemila anni a questa parte, difende bene i suoi dogmi, ma varrebbe la pena chiedersi cosa significa essere credenti e cattolici oggi, da una parte come dall’altra.

A che pro lamentare la scarsità di sacerdoti e le chiese sempre più vuote e paventare poi le moschee piene? Oramai la religione non è più il collante della società occidentale, i valori sono altri, e il relativismo impera. Temiamo le altre religioni, in primis l’Islam, difendiamo un Natale cristiano da presunte influenze levantine ma poi dal dopoguerra ad oggi abbiamo svenduto credo e tradizioni al consumismo e a un paganesimo hollywoodiano. La chiesa, non senza un certo fascino, continua ad essere ancorata ad un passato arcaico e mantiene la sua influenza sul mondo cattolico o sedicente tale. Il clero gestisce ancora quelle paure ataviche dell’uomo ma ancor più lo fa con la sua influenza politica più che con la sua morale cristiana, e questo i comuni mortali lo sanno molto bene e lo dimenticano solo quando sono vittime delle loro stesse azioni, magari dichiarandosi antiteticamente cattolici non praticanti.

Lo stesso Papa Francesco stentava a gestire questo mondo anacronistico con due parti in causa che andavano l’una nella direzione opposta dell’altra ma con la volontà di essere una cosa sola; questo sì che pare essere un dogma, più incredibile della stessa verginità di Maria.

mercoledì 30 aprile 2025

La fretta

 .. ovvero il ritenersi informati senza informarsi.

Oggi vanno tutti di fretta, anche se devono andare a prendersi un caffè; figurati se poi devono soffermarsi nel leggere un post che si dilunga oltre i limiti della loro attenzione. E dire che ci si lamenta dei ragazzi (e purtroppo non solo loro) che ormai comunicano solo con la sintesi di social come Tik-tok e Instagram, dove prevale l’immagine più che la parola o la lettera. Per carità, non pretendo neanche che le mie di esternazioni, come quelle di altri, valgano la pena di meritare la vostra attenzione e il vostro preziosissimo tempo ma per commentare, finanche per criticare, visto che di tempo per fare questo ne avete, bisognerebbe prima leggere, e spesso questo non lo si fa, e quando lo si fa, prevale l’ombra del pregiudizio o l’attenzione di un bradipo.

Oramai prevalgono due elementi tra chi usufruisce delle reti sociali, anche perché è palese che queste abbiamo ormai preso il sopravvento sulla televisione e a maggior ragione sulla stampa, in materia di informazione, e sono la difficoltà di mantenere l’attenzione e la presunzione di commentare ciò che non si è letto o che non si è capito, vedasi anche analfabetismo funzionale; e questo se si esclude la malafede di chi commenta con un radicato pregiudizio e che quindi non è minimamente intenzionato a leggere ed analizzare i testi altrui ma attaccarli a prescindere.

Ecco quindi il grande successo dell’IA, delle bufale e di tutta una serie di immagini, video e informazioni che toccano più le sensazioni dell’utente medio che il suo intelletto che, privo di sane letture (o privo a prescindere) e tronfio di convinzioni, rischia l’atrofizzazione e la soppressione del suo senso critico. La maggior parte di questi legge il titolo e guarda l’immagine del post e li giudica veri perché, nella maggior parte dei casi, li ritiene tali, non verifica la loro attendibilità, non va a fondo, ma se ne sente gratificato perché quasi sempre, quel messaggio lo plagia avvalorando le sue convinzioni pregresse e sostenendo, complice l’algoritmo, il suo pregiudizio.

Del resto questo atteggiamento è un segno dei tempi, è la dimostrazione che noi non siamo più utenti ma acquirenti, clienti che devono usufruire di un prodotto e che la preferenza per tale mercanzia non deve essere fidelizzata in maniera cronologica ma deve cambiare rapidamente, deve essere immediata, per acquistarne rapidamente altra subito dopo, e questo vale anche per le informazioni che ci vengono fornite, spesso non sono altro che ami per pescare le nostre preferenze. La contropartita, anche se gratuita, non è in realtà tale, è ripagata con i nostri dati personali che saranno venduti e riutilizzati da altri per bombardarci di pubblicità e, all’occorrenza, saremo anche arruffianati per dirigere, al momento opportuno, le nostre tendenze politiche, già abbondantemente precotte prima del fatidico momento elettorale.

Nessuna novità a riguardo, il concetto sopra espresso, è ormai noto, ma la fretta dei nostri atteggiamenti è ormai adducibile a quest’andamento generale dell’utenza media che, nella quale, ça va sans dire*, nessuno vi si riconosce mai.

*‘Afammoc’all’inglese!

Immagine creata con l'IA.

lunedì 28 aprile 2025

Ci vuole un fisco bestiale …

 … per metter in riga chi le tasse non vuol pagare!


Si fa presto a dire grandi evasori, si fa presto a puntare il dito contro chi ha un nome e un marchio noto, ma chi ha realmente il coraggio di fare nome e cognome del pizzaiolo sotto casa, quello che, oltre a evadere pure lui il fisco, sfrutta anche i suoi dipendenti? Pare che oggi, nonostante un’immersione totale nel capitalismo, usufruendo dei suoi benefici e spesso arricchendosi, in maniera legale o illegale, grazie ad esso, vada di moda criticarlo, un po’ come lavarsi la coscienza sapendo di aver peccato e additando al contempo qualcun altro come peccatore.

Esiste un luogo comune, molto radicato, che vorrebbe le grandi imprese anche come le più cattive, orbene, non è che io voglia difendere le multinazionali, né tanto meno un capitalismo foriero di benessere ma anche di tante sciagure, non è mia intenzione, e penso inoltre che di avvocati e commercialisti, i magnati ne abbiamo pure a centinaia, ma credo che, in linea di massima, anche in questo caso si punti al fenomeno globale per non voler esaminare un molto più sommerso e compromettente fenomeno locale. Una cosa molto simile accade conseguenzialmente anche con l’inquinamento, strettamente legato al lavoro sommerso che, oltre a danneggiare l’erario, inquina come, e talvolta complessivamente più, delle grandi industrie, per risparmiare sullo smaltimento dei rifiuti e mettendo a repentaglio la salute pubblica e soprattutto quella dei propri dipendenti.

È ovvio che un grande marchio, usi tutti i mezzi a sua disposizione per pagare meno tasse ed ottenere maggiori profitti ma è anche vero che le attività dei grandi nomi del commercio e dell’industria nazionale e internazionale siano sotto gli occhi di tutti e pertanto stiano anche molto attenti nell’evadere il fisco illegalmente e al non rispettare i diritti minimi sindacali, perché loro, hanno sì stuoli di avvocati pronti a tutelarli ma soprattutto hanno un nome da difendere e un luogo comune contro.

Il pizzaiolo sotto casa invece, così come il salumiere, il meccanico, l’idraulico, l’elettricista, la ditta di lavori edili, per non parlare dei medici e degli altri professionisti, o dell’impiegato pubblico che fa il doppio lavoro a nero, fanno tutti di necessità virtù ed evadono tranquillamente, e non sempre per sopravvivere. Inoltre, molti di questi esercizi sottopagano, se non sfruttano, i propri dipendenti, spesso approfittando di un mercato del lavoro tendente al ribasso, soprattutto quando si tratta di determinati lavori come quelli agricoli, dove si rasenta la schiavitù allorquando il lavoratore è straniero e magari anche irregolare, in tal caso il ricatto, oltre che la necessità, è assicurato.

È la somma che fa il totale diceva qualcuno, e quindi, se dieci, venti, trenta, cinquanta ma pure cento grandi ditte evadono, queste non danneggeranno lo stato così come possono farlo milioni di piccoli e medi evasori. uindi un alibi quello dei grandi evasori, anche abbastanza sfruttato da un populismo trasversale a tutti i partiti politici, quello del puntare il dito verso di loro, è come sparare nel mucchio senza cogliere il centro e beccare solo il malcapitato di turno e senza scalfirlo più di tanto.

Mi piacerebbe allora mettere sullo stesso piano un impiegato di Amazon al primo contratto e un giovane garzone di una qualsiasi bottega italiana, oppure un dipendente di Carrefour e il cameriere di un ristorante, chi sarà il più sfruttato dei due? E dove preferirà lavorare nell’eventualità potesse scegliere? La retorica politica attacca tutto ciò che è potere, spesso perdendo d’occhio ciò che realmente potere è, e soprattutto ciò che è sostanziale e quindi più importante, ovvero abbattere lo sfruttamento dei lavoratori. Invece, secondo un andante, il piccolo evade e sfrutta per sopravvivere mentre il grande lo fa per aumentare i guadagni. Sarà anche così ma lo sfruttamento rimane sempre tale e per lo sfruttato non cambierà la situazione se a farlo sarà la FIAT o Ciruzziello a mare, anzi, ha più speranza di essere difeso dai sindacati nel primo caso che ne secondo.

Un altro diffuso luogo comune è poi quello del lavoro domenicale o quello festivo, ecco, anche qui in questo caso, credo che si confonda la sostanza con la forma. Certo, in un mondo idilliaco, magari più prossimo ad un nostro passato recente, la domenica i negozi erano chiusi, e si stava tutti in famiglia, un’immagine bella, nostalgica ma poco vicina alla nuova realtà socioeconomica in cui viviamo. Messa da parte ogni sovrastruttura ideologica, dobbiamo infatti renderci conto che abbiamo accettato, dal dopoguerra ad oggi, un’economia di mercato che, nella sua logica benché discutibile evoluzione, ci porta a fare i conti anche con la nostra coscienza, non che tutto vada accettato a prescindere, ma quando ci va bene il capitalismo perché ci conviene, non possiamo avversarlo a prescindere quando non ci piace. Se andiamo al bar la domenica o al ristorante nei giorni di festa potremmo accettare anche che i centri commerciali siano aperti. E questo è il punto focale della situazione, qual è il vero problema, il moloch del centro commerciale, o il lavoro festivo? Il problema è ideologico o pratico? Esistono tanti servizi che funzionano nei giorni festivi, certo, molti di essi essenziali per la vita sociale come la pubblica sicurezza o sanità, ma pur sempre di lavoro si tratta, e per questo opportunamente remunerati per il sacrificio del loro tempo libero; ed è qui che i nodi vengono al pettine, è più giusto che nei festivi non si lavori o che i diritti di questi lavoratori vengano rispettati? Ecco, è qui che si deve puntare l’attenzione da parte della società e dei vari portatori di interesse, sul rispetto dei diritti di chi lavora e che liberamente sceglie di lavorare nei giorni festivi e senza ripercussione alcuna sul salario e sull’orario lavorativo settimanale e non il dogma della festività.

Mi rendo conto che scrivere tutto ciò sia come andare contro corrente, nu parlà contra ‘a chiesa, come si suol dire dalle mie parti quando si fa un discorso apparentemente contro gli interessi del tuo gruppo di appartenenza ma, siccome io appartengo a tutti perché non appartengo a nessuno, me ne farò una ragione in virtù della mia libertà.

Per approfondire: https://www.vesuvionews.it/notizie/innocenti-evasioni-evasione-fiscale/

Nessun vocabolo inglese è stato usato a sproposito nella stesura di questo post. Né tanto meno mi interessa se qualcuno lo reputa troppo lungo, nessuno vi obbliga a leggerlo tutto.

Immagine creata con l'IA

venerdì 25 aprile 2025

Il cattivista


Dice il mio fraterno amico Francesco Napolitano che se esiste il tanto bistrattato "buonismo" dovrebbe esistere anche un ipotetico "cattivismo"! Ora mi chiedo chi ammetterebbe di esserlo realmente? Chi ammetterebbe di essere cattivista? Tutti pronti a dire che c'è qualcuno che sbaglia nei confronti degli stranieri (e lo si fa quasi sempre nei confronti dei deboli e dei ritenuti tali) ma nessuno si definisce razzista o quanto meno nessuno ammette che egoisticamente non gliene frega niente di quei poveracci che anneghino nel Mediterraneo. Apprezzerei molto più un vero cattivista invece di ascoltare chi si schiera dietro parole vuote, almeno saprei chi mi trovo di fronte: un fascista!

https://www.facebook.com/cteodonno/posts/pfbid02S16XLyAtsgGwP5oouT56AEsAzmbgdqwwPDAYCbtmDQEzYCRim3XTp5C7ozz5maU6l

Io sono antifascista

 


Io sono antifascista e lo sono nella misura in cui i diritti di tutti sono anche i miei.

 Sono antifascista perché, come dicevano gli antichi, combatterò per la libertà di tutti, anche dei miei avversari e col rischio che sia loro che i miei compagni non capiscano o non vogliano capire questo gesto.

 Sono antifascista perché ho capito dall’esempio di chi mi ha preceduto lottando per la libertà, che non puoi schiacciare l’avversario ma devi condurlo a te, e non per convincerlo, ma per ascoltarlo poiché, il tuo, non è un pensiero assoluto. La violenza non fa altro che generare altra violenza.

 Sono antifascista perché non posso combattere chi mi avversa diventando come lui, e sono antifascista perché chi mi sta di fronte mi è uguale e questo a prescindere il colore della pelle, del partito o della religione.

 Sono antifascista perché non seguo una bandiera ma un principio di libertà ed autodeterminazione.

 Sono antifascista perché non grido per un’idea come per una squadra di calcio e a maggior ragione non ucciderò per essa e per nessun altro principio, ma urlerò di sicuro per ogni oppressione e ogni coercizione che mi troverò davanti.

 Sono antifascista, e scusate il pregiudizio, perché non seguo una moda ma un ideale e quest’ideale non cambia con l’età ma si accresce con essa.

 Sono antifascista perché ho buona memoria e ho letto molti libri, quali memorie altrui e non dogmi da diffondere e dietro cui schierarmi; ma non ho letto solo i testi che mi piacevano, e così ho fatto anche con i giornali e così ho fatto ancora ascoltando chi la pensava diversamente da me e senza l’obbligo, né morale e né personale, di convincerlo ma con quello categorico di capire.

 Sono antifascista per la memoria di cui sopra che mi è stata trasmessa da chi, dopo massacri e deportazioni, ha permesso a tutti di poter parlare ed esprimere con ogni mezzo lecito la sua opinione, anche chi lo ha massacrato e deportato.

 Sono antifascista perché non nascondo i miei dubbi dietro finte verità ma li affronto a mente aperta e senza il timore di sembrare debole e con la convinzione della sincerità. Perché la mia forza è anche nel dubbio.

 Sono antifascista perché ho capito che non sarà il colore del partito o della bandiera a rendermi tale ma la coerenza delle mie azioni.

 Sono antifascista perché lo ero da ragazzo quando gli altri seguivano acriticamente la Pantera, così come oggi inseguono un’altra chimera e al contempo le mie azioni di oggi conservano la stessa forza di ieri perché convinte e non indotte.

 Sono antifascista perché da adulto mi sento più rivoluzionario di quei giovani che non sognano oggi come non sognavano ieri e che temo non sogneranno nemmeno domani, quelli che non osano essere diversi dai loro padri ma che non sanno neanche apprendere dai loro errori.

 Sono antifascista perché non ho bisogno di dar fuoco ai cassonetti e lanciare sampietrini per sentirmi vivo ma di lottare per un’ideale costruttivo.

 Sono antifascista perché non conservo rancore, perché riesco ad affrontare la vita col sorriso sulle labbra e senza il bisogno di dare la colpa ad altri se la vita mi oppone resistenza, perché quella resistenza stessa è vita.

 Sono antifascista perché non ragiono con altri organi se non col cervello e non entro nei letti altrui, perché valuto le persone per le loro azioni e non per chi le accompagna nella vita o nel talamo.

 Sono antifascista perché nelle forze dell’ordine non le devo vedere per forza un nemico ma anche un alleato e non identificare il male in base all’ideologia ma in base al contesto. Soprattutto non lancio sassi per sentirmi più uomo ma affronto a testa alta la vita e quello che questa mi presenta, senza casco, senza passamontagna solo con il mio sguardo di uomo libero.

 Sono antifascista perché amo e non odio, sono antifascista perché credo nell’uomo,

 sono antifascista perché lo dico!

https://www.ilmediano.com/io-sono-antifascista/ 

 

Il mio 25 aprile

 


“Se hai molto da dire sul passato hai poco da dire sul presente.”

Il 25 aprile ha acquisito negli ultimi decenni un valore diverso, è passato ad essere, da stanca ricorrenza primaverile a momento conflittuale. Tutto questo da quel 25 aprile del 1994 ovvero da quando, per la prima volta la destra arrivò al potere in Italia.

Per molti, me compreso, la Resistenza ebbe allora un nuovo valore ovvero quello di una sorta di resistenza contro quelle destre, lasciate fino ad allora ai margini della vita democratica del Paese e che temevamo fossero invece un rigurgito di quel fascismo che speravamo d’essercene liberati per sempre. Purtroppo gli Anni di Piombo, col terrorismo di matrice neofascista, ma anche con quello delle Brigate Rosse, ci avevano fatto ben capire che la nostra pacificazione non era poi così scontata e che la democrazia doveva pagare ancora un tributo molto alto per consolidarsi e che il nostro paese non aveva fatto ancora i conti con il proprio passato, lasciando aperti molti spiragli a quelle visioni totalitariste che allora, ma per certi versi ancora oggi, influenzano e mettono in pericolo il nostro vivere democratico.

Quella nuova resistenza mi sembrava l’unica strada per controbattere le destre, quelle che erano per me il male assoluto perché fin troppo vicine a quel passato fascista che aleggia ancora oggi su di noi. Un passato  fin troppo paventato da una sinistra che talvolta ha agito in maniera altrettanto fascistoide e spesso convergendo in quella parabola che avvicina tutte le realtà dogmatiche in una visione esclusivista del mondo. Non è quindi fascista chi lo è ma è fascista soprattutto chi lo fa, ed è anche per questo che ho dovuto rivedere radicalmente la mia visione politica del mondo.

Gli anni, la maturità, il vedere le cose senza i filtri della passione e con la cartina tornasole dell’esperienza, mi hanno fatto capire, benché le destre non fossero e non siano il mio ideale, che anche le sinistre incominciavano a mostrare il loro vero volto ed oggi, con il loro arcaico dogmatismo, una faziosità sconcertante e prese di posizione imbarazzanti davanti ai nuovi conflitti che la cupidigia dell’uomo ci ripropone, mostrano un anacronismo talvolta peggiore di quello dei conservatori, strizzando spesso l’occhio al complottismo e a un populismo solo apparentemente antitetico a quello della destra.

Ecco, questo rapido excursus degli ultimi trent’anni di Repubblica, si sovrappone con la celebrazione dei primi ottant’anni dalla Liberazione. Mi chiedo quindi se può l’immagine sbiadita della guerra partigiana essere ancora compresa dalle nuove generazioni? Che senso ha ricordare concetti che ormai travisano gli stessi epigoni della Resistenza? La libertà è la mia risposta, libertà e ricordo di chi ha lottato per conquistarla e donarcela, questo è il senso primario del 25 aprile, la libertà di pensarla in maniera differente e la possibilità di manifestarlo pubblicamente, liberando la democrazia da ogni altro vessillo che non sia quello della libertà e della parità tra gli uomini e che non sia vincolata ad un’appartenenza politica, che sia figlia della ragione e non del principio di appartenenza e questo è il valore che deve essere difeso e celebrato oggi, domani e sempre.


venerdì 18 aprile 2025

Il pregiudizio più antico del mondo.

 


Parto dal presupposto che ogni nostra azione, ogni nostro impegno, per quanto elevato e finanche gradevole e soddisfacente, se questo implica una coercizione, che sia economica o morale, non può essere considerato un vero e proprio piacere ma un obbligo da adempiere o una necessità per sopravvivere.

È notizia di questi giorni che l’ISTAT abbia rivisto i codici ATECO (quelli che fanno riferimento alle ATtività ECOnomiche) includendo anche quello relativo alla prostituzione per permetterne una identificazione dal punto di vista fiscale. Orbene, so di affrontare un argomento vecchio quanto il mondo, mi rendo anche conto del campo minato su cui mi accingo a muovere ma non è mia abitudine nascondermi dietro il proverbiale dito e cercherò anche di superare il mio pudore a riguardo.

Si usa dire che ognuno di noi abbia un prezzo, forse è vero ma in virtù di chi non si è mai venduto e che spesso si è immolato per una causa, mi sembra doveroso affrontare il concetto della prostituzione dal punto di vista morale. Si faccia bene attenzione, morale non vuol dire moralismo, con la sua accezione negativa ma di quell’insieme di regole necessarie che ci permettono di vivere assieme con norme comunemente accettate da tutti e che spesso forgiano anche le nostre leggi.

È mia convinzione pertanto che una donna, come qualsiasi altra persona, nel momento in cui decida di vendere il proprio corpo per soddisfare le voglie altrui, non lo faccia per puro e reciproco godimento ma per la necessità di vivere o sopravvivere, contrattando economicamente ciò dovrebbe essere invece un qualcosa di naturale come respirare o mangiare, e che purtroppo non lo è. Ciò vuol dire che, contrariamente al luogo comune, che vorrebbe l’esistenza di donne che amino fare questo mestiere, creando spesso immagini distorte di donne assatanate in cerca del maschio di turno, la moneta non nobilita l’atto e frustra l’essere umano e lo relega negli strati più bassi della società. Ritengo inoltre che fare sesso oggi, in maniera sana, consapevole e consenziente, non è difficile come una volta e quindi chi volesse praticarlo liberamente seguendo la propria indole non dovrebbe avere tanti problemi nel farlo, salvo determinati casi di esclusione sociale ma, se c’è la transazione economica allora sì che le cose cambiano, perché in quel momento nasce un bisogno, se non una necessità economica o addirittura un’imposizione; non è più naturale istinto e ricerca del piacere ma la posizione prevaricante di chi paga la prestazione e di chi deve svolgerla se non addirittura subirla.

Ma l’ipocrisia di un mondo misogino ha fatto sì che questa imposizione sociale, spesso delegata a quelle donne che un tempo erano state sedotte e abbandonate dai propri compagni o vittime di violenza carnale, divenisse un ruolo sociale ben definito e mal stigmatizzato, altro che libertà sessuale da romanzo rosa o appannaggio di ricche e libere nobildonne, il sesso era, e troppo spesso lo è ancora, un’imposizione dell’uomo sulla donna e a tutti i livelli sociali, non un naturale fluire delle cose. Oggi la situazione non è però cambiata più di tanto e, benché si pensi ancora che molte lo facciano per piacere, e benché anche in questo caso si utilizzino ormai parole inglesi per diluire ciò che altro non è che prostituzione, c’è un prezzo da pagare ed è risaputo che l’amore non si paga, a meno che non si voglia considerare anche il piacere come una merce di scambio e il corpo delle donne, ancora una volta il suo vettore.

Oggi si parla ancora di riapertura delle case chiuse, stile Paesi Bassi, ma anche lì come qui, benché in quei luoghi si sia provato a dare un ordine a questa “professione”, senza spazzare la polvere sotto al tappeto come si fa da noi, non solo non si è riusciti a togliere dalle mani della delinquenza organizzata lo sfruttamento di queste povere donne, ma non si è riusciti neanche ad elevare la posizione di queste da oggetto sessuale a persona, tanto da esporle in vetrina a mo’ di merce da vendere. E, come al solito, si prende dall’estero solo ciò che conviene e spesso decontestualizzando le situazioni che andrebbero invece calate nelle realtà culturali locali.

Mi sono sempre chiesto perché i perbenisti lamentino la presenza per le strade di quelle povere ragazze italiane, slave o africane che siano. Credo che, oltre al tabù del sesso, ostacolo all’apparenza insormontabile ed ancora una costante nella nostra civiltà occidentale, ci sia anche la coscienza sporca del cliente incallito od occasionale, che non accetta la commistione tra il suo mondo e quello dell’amore mercenario e ben conscio della sporcizia dei suoi atti.

Ritornato quindi al prezzario al quale dovrebbe sottostare ognuno di noi e quindi l’essere disposti a prostituirsi in un modo come nell’altro al migliore offerente, questo è vero ma fino a un certo punto, nel momento in cui c’è, come ho scritto più su, chi non s’è mai piegato a questo assioma e nel momento in cui chi fa il suo lavoro lo fa perché riconosce in questo una funzione sociale. Quali sono questi mestieri? Tutti, se fatti bene, ma di sicuro non quei mestieri che ti rendono cosa, oggetto, mercanzia nel corpo così come nella mente e, concedetemelo, anche nell’anima.

#prostituzione #prostituzionefemminile #casechiuse #Istat #sfruttamentodellaprostituzione

Per approfondire

https://www.ilmediano.com/Escort-o-sex-worker-Questo-e.../

https://www.ilmediano.com/Lamore-molesto/#google_vignette

Nessun vocabolo inglese è stato usato a sproposito nella stesura di questo post.

Immagini create con l'IA

martedì 15 aprile 2025

L’oppio dei popoli

 


Più volte all’anno le nostre città, le nostre autostrade, i nostri stadi diventano teatro di scontri tra tifoserie avversarie. Le immagini di devastazione delle infrastrutture, degli esercizi pubblici, del pubblico patrimonio e della proprietà privata sono uno sconfortante promemoria di ciò che il calcio produce da anni e spesso con conseguenze anche letali. Le stesse forze dell’ordine sono soverchiate, in numero e in forza, da queste orde animalesche che col calcio non avrebbero nulla a che vedere ma che in realtà sono una presenza ormai costante e fin troppo tollerata. Le stesse polizie, quelle che vengono difese ad oltranza quando in quelle piazze non ci sono gli ultras ma gli inermi e spesso sprovveduti studenti, ora prendono mazzate e cinghiate da energumeni che non lottano per la difesa un diritto costituzionale ma per una dipendenza indotta o un atto di prepotenza.

Ricordo, da ragazzo, quando accadeva qualcosa di grave allo stadio, le levate di scudi in favore di un mondo che aveva già da tempo mostrato il marcio che aveva dentro, e quando si asseriva, soprattutto per voce di una stampa asservita, che erano i soliti 4 cretini che andavano individuati e fermati nell’ambito di un contesto circoscritto e limitato nel tempo e nello spazio. Il minimizzare il fenomeno, ha invece fatto sì che ormai da decenni le nostre città siano in balia di orde di teppisti e veri e propri delinquenti. Inutile ricordare le cariche contro la polizia [1], gli assedi ai commissariati [2], i morti per accoltellamento, le percosse, la vicinanza delle tifoserie agli estremismi politici [3] e soprattutto alla delinquenza organizzata [4], vedasi le mafie; inutile, il fenomeno è stato da sempre, e lo è ancora, giustificato, in virtù di una sottintesa causa di forza maggiore.

La ragione è presto detta, il calcio non muove solo denaro, tanto denaro da essere una voce di rilievo nel nostro PIL [5] ma il calcio muove anche e soprattutto consenso. Il nostro populismo, di destra come di sinistra, coltiva il culto e il dogma del calcio. Non c’è politico italiano che non manifesti la sua passione calcistica o che osi mettere in dubbio l’eccessiva importanza data ad uno sport a discapito di tutti gli altri. Ecco perché, nonostante le tante parole al vento, non si è mai fatto nulla di serio per arginare la deriva del tifo calcistico, i tifosi sono funzionali alla macchina calcistica e a tutte le sue aberrazioni e nessuno, intellettuali inclusi, osano indicare il re nudo.

Il governo Meloni esordì, al suo insediamento, come primo atto politico della sua legislatura, con il “decreto rave party” [6], quasi come se la priorità assoluta di questo paese fossero quelle estemporanee feste campestri a suon di techno e pastiglie stupefacenti. Per carità, ogni eccesso, foriero di pericoli d’ogni genere, va contenuto e riportato negli argini della normalità e della legalità ma a questo punto, perché non è stato mai promulgato nessun decreto per arginare la violenza ormai quotidiana, legata al calcio?

Sembra chiaro che il “decreto rave” sia stato una strizzata d’occhio nei confronti di un perbenismo borghese e provincialotto e che spesso vota a destra, ma anche a sinistra, e quindi è stato come sparare sulla croce rossa nell’avversare un fenomeno, quello dei rave party, che sostanzialmente non piaceva a nessuno. Invece il calcio, in Italia, e non solo, è più importante della Madonna, è una sorta di religione e che coinvolge anche quest’ultima in una frenesia che va ogni altra logica, basti pensare l’abrogazione di ogni regola di decenza durante i festeggiamenti dello scudetto del Napoli Calcio [7], ma, ancor peggio, ciò che accadde a Torino qualche anno fa, con morti e feriti in una piazza senza regole e sicurezza [8].

Il mondo del calcio ha purtroppo una corsia privilegiata, ciò che viene criticato ad altri contesti, persino alla politica stessa che ne è spesso complice, viene giustificato al mondo del pallone. È notizia di questi giorni l’ennesimo scandalo delle scommesse [9], con implicazioni di calciatori, già coinvolti in altri scandali e inchieste e ciò nonostante li si giustifica ancora come ingenui ragazzotti ludopatici, fragili e annoiati e vittime di un sistema che, in un modo o nell’altro, alimentiamo anche noi e per questo non vogliamo sentircene complici ma semplici spettatori paganti e pertanto irresponsabili o sedicenti tali.

[1] https://roma.corriere.it/cronaca/diretta-live/25_aprile_13/derby-lazio-roma-diretta-stasera-risultati.shtml

[2] https://www.repubblica.it/2007/11/sezioni/cronaca/tifosi-morto/assalti-roma/assalti-roma.html

[3] https://roma.corriere.it/notizie/cronaca/25_aprile_15/derby-lazio-roma-una-guerriglia-pianificata-un-arresto-per-gli-scontri-ultra-7807291a-2e0f-4563-94be-77126f8e6xlk.shtml

[4] https://www.corrieredellosport.it/news/calcio/serie-a/2025/02/02-138055726/ndrangheta_e_curve_a_report_i_casi_di_juve_inter_e_milan

[5] https://tg24.sky.it/economia/2024/08/08/calcio-impatto-pil-report-figc

[6] https://pagellapolitica.it/articoli/rave-ergastolo-primo-decreto-legge-governo-meloni

[7] https://www.ilmediano.com/la-festa-scudetto-fa-gia-danni-camion-trancia-festoni-bassi-e-tubi-dellacqua/

[8]https://www.lastampa.it/torino/2022/01/22/news/tragedia_di_piazza_san_carlo_10_anni_alla_banda_del_peperoncino_-2837905/

[9] https://www.agi.it/cronaca/news/2025-04-13/scommesse-calcio-due-talpe-in-questure-roma-e-torino-30898043/  

Per approfondire:

https://www.vesuvionews.it/notizie/palloni-gonfiati-calciatori-tifoseria-napoli/

https://www.ilmediano.com/un-calcio-al-pallone/

Nessun vocabolo inglese è stato usato a sproposito nella stesura di questo post. Le tante note sono invece funzionali alla mia tranquillità per arginare (si spera) coloro che si ostinassero a negare la propria assuefazione al mondo del calcio.

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