mercoledì 28 settembre 2011

GENNARO DI PAOLA, L’ULTIMO PARTIGIANO



Con l’avvicinarsi del sessantottesimo anniversario delle Quattro Giornate di Napoli, abbiamo deciso di parlare con chi ne fu partecipe e cercare di capire se oggi valga ancora la pena commemorare quel momento di riscossa di un popolo.
Commemorare gli eventi del secondo conflitto mondiale sembra oggi inutile, sterile o quanto mai passato all’oblio eppure lo scacchiere mondiale risente ancora dell’esito di quella guerra, dove le nazioni vincitrici dirimono ancora le questioni internazionali in base agli accordi che scaturirono all’indomani di quei tragici eventi.
L’Italia, com’è risaputo, non ne uscì bene ma esiste una pagina della storia di quegl’anni che risolleva ancora con orgoglio l’immagine di un paese e soprattutto di una città complessa come Napoli, regalandocela tutt’altro che imbelle, bensì orgogliosa, e combattiva.



Oggi, in una crisi dei rifiuti, dove il capoluogo langue tra i miasmi di una quotidianità indifferente e i roghi di un’opinione nazionale mercenaria, quella che invoca la soluzione finale e univoca dell’ira vesuviana, siamo partiti alla ricerca di qualcos’altro, qualcosa di più autentico, di onestamente costruttivo e che ci riportasse allo spirito dei giorni delle Quattro Giornate; siamo andati a trovare Gennaro Di Paola, classe 1922, ferroviere in pensione, poeta e cultore della storia locale ma più noto alle cronache come ex partigiano.

Gennaro è persona mite, affabile, nei suoi occhi non si avverte alcun turbamento e nessuna remora da compromesso, ma la certezza di un messaggio da portare avanti quello della pace e della consapevolezza.

Gennaro lo abbiamo incontrato nella sua casa di Massa di Somma, un’abitazione semplice come le sue storie, che ci offre da tramandare a chi verrà dopo di noi.
Il suo sguardo fiero guarda al di là di quella stanza, va oltre, verso l’orizzonte della sua vita, verso i ricordi di quand’era bambino, di quand’era balilla. Ci mostra la sua pagella, non per i voti ma per sottolineare il fatto che, allora, per superare l’anno scolastico, bisognava ottemperare agli obblighi “paramilitari” che l’organizzazione fascista demandava; aveva solo dodici anni.

La loro vita di ragazzi scorreva, tutto sommato tranquilla, sotto l’egida del regime fascista, guidati dall’ipocrita e antitetico motto del libro e del moschetto.
Solo nel 1941 Gennaro e i suoi amici incominciarono a scontrarsi contro una realtà diversa da quella totalitaria e alla quale erano da sempre stati abituati, conobbero Radio Londra, che da bravata giovanile, in cerca di qualcosa di nuovo, immise in quei giovani il seme del dubbio, che purtroppo non riuscì in tempo a germogliare perché prossimi all’arruolamento e alla guerra. Gennaro comunque ricorda i tentativi dell’antifascismo di irridere quel regime, quello che ancor oggi non si vuol riconoscere come autoritario e menziona le irriverenti interferenze radio a disturbo delle apologetiche trasmissioni dell’EIAR e la controinformazione proveniente da Milano e dal allora URSS.

Nel ’42 fu arruolato come aviere e visse la sua guerra sul fronte interno, sotto le bombe e nei fossati a difesa degli aeroporti. «per quel che valeva la vita umana all’epoca!» Il regime seguitava nella sua assurda propaganda «Quando si avanzava erano vittorie strepitose e quando si indietreggiava sul fronte erano definite ritirate strategiche!» Ma la realtà incominciava ad essere evidente, soprattutto quando gli amici incominciarono a non tornare più dal fronte e quelli che ci riuscivano erano feriti o con la malaria, così come quelli che dopo lunghe peripezie riuscivano a tornare dal fronte russo, acclararono uno scenario ben diverso da quello che la propaganda diffondeva. «Non esistevano morti o prigionieri li consideravano tutti dispersi! Erano quelli che non scrivevano più!»

«Il mio antifascismo nasce dal 25 luglio (1943, ndr.)! – esordisce Gennaro - Con la destituzione di Mussolini e lo sbarco degli americani in Sicilia, si pensava che la guerra volgesse al termine ma non fu così. C’era gente che da 5, 6 anni mancava da casa. Dopo quaranta giorni (l’8 settembre, ndr.) ci fu l’armistizio e i tedeschi già cominciavano a vederci come traditori e incominciavano a far entrare divisioni armate in Italia, fino a Napoli. A Napoli passavano con i megafoni fuori le caserme per intimare ai militari di consegnarsi senza le armi, e noi questo aspettavamo in fin dei conti, ma poi incominciarono a fare i prepotenti, incominciarono a distruggere i servizi pubblici, a fare esecuzioni indiscriminate, a saccheggiare, a fare rastrellamenti della popolazione civile. Noi soldati eravamo sbandati, i generali a Napoli erano scomparsi.

Il giorno 12 (settembre, ndr.) ci fu un primo proclama del colonnello Schöll (comandante della piazza militare di Napoli, ndr.) dove si dichiarava la presa della città e si intimava, pena la morte, la consegna di tutte le armi. Successivamente ci “invitano” a presentarci per il lavoro obbligatorio in Germania (il 23 settembre, ndr.), quelli dalla classe del “10 a quella del “25 (fra i 18 e 33 anni, ndr.) e presentarci alla sezione municipale. Già avevamo assistito al loro lavoro di distruzione, gli ospedali erano pieni di feriti, noi militari sapevamo i tedeschi come si comportavano! Allo scadere dell’ingiunzione, all’appello si presentarono solo 150 uomini dei 30.000 calcolati in base all’iscrizione allo stato civile (molte immagini del famoso manifesto portano la cifra di 3.000 e definita da più parti un errore di stampa, se non corretto, ndr.). Abbiamo cercato di nasconderci qualche giorno, le armi le avevamo lasciate nella caserme, e poi gli antifascisti ci informavano costantemente.

Sapere poi che assieme ai tedeschi c’erano anche i fascisti per noi fu una grande delusione, come dire? Sapere che eravamo stati i grandi conquistatori e poi vedere l’inganno! E allora abbiamo cercato di difenderci! Ogni quartiere era insorto, s’erano formati dei nuclei di discussione assieme agli antifascisti ma comunque non c’eravamo presentati, e per forza! Per non essere uccisi dovemmo ricorrere alle armi.

Quello che però metto in risalto, oggi! Quella Napoli di allora … lo sai la storia di Napoli è una cosa tremenda! Negano a questa Napoli tante cose e ‘a monnezza fa storia! Ma quando pensi che trentamila di noi, ma che è successo? Nun ce stevano i telefonini come oggi, nun ce steva niente per comunicare! Nei palazzi, ci si conosceva ed era facile comunicare, ma trentamila che non si presentano davanti alla chiamata tedesca … i napoletani! Si parla sempre dei napoletani ma c’è stato del coraggio o no? Io credo che l’atto più significante fu proprio quello del 26 settembre quando nessuno si presentò, un atto, a mio avviso, più importante delle stesse Quattro Giornate. Non potevamo poi accettare quello che facevano i tedeschi alla nostra città, è lì che nasce qualche cosa, eravamo stati costruiti come dei robot ma qualcosa di nuovo fece scaturire questa reazione. Purtroppo le Quattro Giornate sono state dimenticate per molti anni.»

Quali furono le vostre azioni in quei giorni?

«Mentre noi combattevamo, gli americani si godevano lo spettacolo da Capri. Quando poi vennero la fecero da padrone con le nostre autorità consenzienti. Combattevamo all’Arenella e al Vomero. All’Arenella bloccammo via Domenico Fontana dove ci scontrammo con degli automezzi tedeschi che venivano da nord.»

E le armi dove le prendeste?

«Le armi stavano un poco dappertutto soprattutto nelle caserme dei carabinieri, i tedeschi non riuscirono a prenderle tutte. Io stesso andai alle batteria antiaerea di Sant’Elmo a recuperare otturatori e munizioni per usare i fucili. Il Vomero era circondato e noi temevamo che i tedeschi potessero avere rinforzi da nord come per esempio dalla Pigna, dove c’era la strada che arrivava a Cappella Cangiani. Sentivamo le notizie ma non eravamo contatto tra i vari gruppi di resistenza.»

E i fascisti?

«I fascisti sono una razza peggio dei nazisti! Un episodio che è capitato a me personalmente fu quello della morte di Gennaro Iannuzzi a vico Trone a Materdei. I tedeschi stavano sgomberando una fabbrica e i partigiani li attaccarono, durante lo scontro due di questi morirono e uno era Gennaro amico di famiglia. Lo portarono a casa già morto, ma non potendo stare lì decidemmo di portarlo a Sant’Efremo, tra Via Salvator Rosa e Via Imbriani, dove c’era un convento di suore e dove poteva essere inumato, era il 30 settembre, verso la fine dei combattimenti. Ad un tratto dall’altro lato, da Via Salvator Rosa incominciarono a spararci contro, erano i fascisti!
Poi quando dicono le fucilazioni! Le fucilazioni! A Porro, a Materdei, all’angolo di Via Imbriani, lo fucilarono perché, mentre lo cercavano, incominciò a sparare dal balcone. Lo presero e lo portarono giù e lo fucilarono. Quindi, quello che ci sparava contro, se lo riuscivi a prendere, che gli facevi? Ce jammo a piglià nu cafè? Ti posso solo dire che parecchi di noi rimanemmo molto scossi, a casa tua a difenderti con le armi, non è una cosa semplice. Le famiglie che ti cercavano, i ragazzini sempre dietro …»

La guerra, in seguito, è continuata per voi?

«Lavorai nel porto per gli inglesi, poi fui richiamato, nell’aprile “44, facevamo servizio aggregati agli inglesi.»
Quindi la vostra esperienza partigiana è limitata alle Quattro Giornate …
«Sì, gli americani non ci vollero più, fu così anche con i partigiani del nord, erano convinti che fossero tutti comunisti ma non era così. E c’è stata molta amarezza per questo.»

Dopo le Quattro Giornate, com’è stato il ritorno alla normalità, la classe dirigente fascista per esempio …

«La classe dirigente è rimasta tale e quale! Per cacciare il prefetto ce n’è voluto! Mi ricordo che a Napoli, verso la fine del “46, dopo le prime elezioni amministrative, cercavamo lavoro e facemmo il concorso di vigile urbano. Dopo le visite di rito andammo a colloquio presso l’assessore alla fiscalità, un certo colonnello Verde, il quale pretendeva che il corpo dei vigili fosse un corpo accasermato, armato e monarchico! Denunciammo il tutto a un giornale dell’epoca, La Voce. Così decisi di rinunciare e feci solo per un po’ la guardia giurata, persi però ogni interesse per quel ruolo. Reagimmo a questo perché tutto ci sembrava come prima, soprattutto con gli accordi tra monarchici e democristiani. In tutto questo io ero ancora scosso, incominciavo ad avere una repulsione per le armi, mi ero trovato in situazioni così forti, ti vedi arrivare nu camion e tedeschi, accumience a sparà a tirà bombe, ti trovi davanti a carri armati che difendevano le cabine elettriche, ci sono cose che … non è possibile; la nostra natura ci porta a commettere cose che non penseremmo mai di fare, però le facciamo.»

Cosa direbbe a un ragazzo di oggi, quale monito lascerebbe a un giovane, così lontano da quei fatti?

«Mi auguro che a loro non succeda mai! La nostra infanzia era accompagnata dal moschetto. Dico solo che le guerre producono solo distruzione. Chiunque va alla guerra è un povero chiamato alle armi, all’epoca mia, si scriveva sui muri largo ai giovani e di spazio ne trovarono parecchio per morire nel deserto. Quanti miei compagni di giochi non sono più tornati e penso spesso con nostalgia a come saremmo potuti essere oggi. Ragazzi dite sempre di no alle guerre!»

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