“in de col men seivuan
prisencolinensinainciusol ol rait” [*]
La locuzione “made in Italy” è di per sé un ossimoro poiché
contraddice, con l’uso stesso dell’inglese, il principio di italianità che
vorrebbe invece esprimere. Non mi soffermerò sull’uso spropositato e spesso
inutile degli anglicismi usati nella nostra lingua ma, con questa espressione,
non ne guadagna di certo il concetto di eccellenza italiana e neanche la stessa
comunicazione poiché, se un nome è sinonimo di qualità, e magari anche di
convenienza, può anche essere scritto in aramaico antico ma tu cercherai quel
prodotto per le suddette caratteristiche e non per l’inglese. Ora, paradossi a
parte, ma azzeccare qua e là vocaboli inglesi, spesso pronunciati male e fuori
luogo, indica solo il nostro provincialismo e non la padronanza di quella
lingua e neanche la qualità del nostro lavoro. Spesso irridiamo paesi come la
Francia per l’uso istituzionale e apparentemente poco elastico della loro
lingua ma in realtà questo lo fanno anche gli altri paesi e siamo invece noi fra
quei pochi che prediligono l’uso dei barbarismi o la impoveriscono con roboanti
parole ad effetto e che spesso non hanno nulla di funzionale se non l’estetica
e una dialettica fuorviante. La manifattura italiana una volta era rinomata nel
mondo e, a prescindere dall’inglese, si vendeva da sé. Non vorrei che oggi, in
assenza di questa tradizione che sta purtroppo svanendo, si badasse più alla
forma che alla sostanza poiché, se è pur vero che spesso è l’apparenza quella
che conta, è sempre il contenuto quello che si vende, e le scatole vuote non le
vuole nessuno, a meno che non si vogliano fare i famigerati pacchi.
[*] https://www.newyorker.com/.../sasha.../stop-making-sense
Nessun vocabolo inglese è stato usato a sproposito nella
stesura di questo post, né tanto meno ci si è dilungati oltremodo per non
ledere l'altrui idiosincrasia verso la lettura.
Immagine fonte web
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