La dignità non può essere barattata in cambio di un salario, un’immagine edulcorata del lavoro non può e non deve svilire il sacrosanto diritto alla salute.
Quando ero ventenne e studiavo, supportavo il mio bilancio familiare lavorando come magazziniere a Pomigliano. Stavo tra i libri e questo mi andava più che bene ma la routine di quel lavoro non mi entusiasmava più di tanto. Un giorno, più caldo e demotivante degli altri, affranto dall’incertezza del mio futuro e dall’afa di quello scantinato, ebbi, come sussulto liberatorio la voglia di scrivere a pennarello, sul primo scaffale che immetteva in quel budello di impalcature metalliche, l’irrisoria frase che spiccava fuori il campo di concentramento di Auschwitz. Arbeit macht frei! Il lavoro rende liberi! La mia fu una reazione ironica, forse un po’ esagerata, ma non irrispettosa del suo carico storico. Volevo sottolineare che quel lavoro non mi piaceva e che, per una legge del contrappasso tutta personale, libero, appunto, non mi sentivo.
Oggi, più che quarantenne e da fannullone quale sono, faccio il professore, ma proprio per questo continuo a professare il mio disappunto sulla maniera di affrontare un problema fondamentale quale quello del lavoro.
Mai come in questi ultimi tempi sale alla ribalta la questione di questo raro bene di scambio, e mai come ora lo si usa come mezzo di ricatto più che di sviluppo. Facciamo ovviamente riferimento anche agli ultimi fatti di Taranto, dove, la decisione di un giudice di chiudere la più grande acciaieria d’Europa, ha creato il putiferio che è ancora sotto gli occhi di tutti.
L’ILVA di Taranto, 15.000.000 di m², una città nella città, doveva essere chiusa perché inquinava! E dire che questa fabbrica inquinava da anni ma ovviamente mai nessuno se n’era accorto, anche perché i proprietari, i Riva, quelli che avevano rilevato lo stabilimento che una volta fu dello stato sotto il nome di Italsider, se n’erano altamente strafregati di attuare quelle norme igienico-sanitarie che avrebbero garantito, in buona parte, un ambiente di lavoro più salubre e un’aria in città più respirabile.
Non l’avesse mai fatto il GIP di Taranto Patrizia Todisco, è successo il finimondo! Veterosocialisti e pidiellini, ma non solo, hanno colto l’occasione per rispolverare la loro ancestrale acredine nei confronti dei giudici, reiterando l’immagine inquisitrice, impunita e incurante degli altrui problemi e vicissitudini che da anni gli si appioppa. Il livore di questa accozzaglia trasversale di giudici dei giudici, cavalca la tigre dell’ira popolare, quella degli operai che vedono in crisi il loro posto di lavoro, in tempi tutt’altro che tranquilli. Questi sciacalli dell’informazione commettono però sempre lo stesso errore, dimenticano infatti che i magistrati non fanno le leggi ma le applicano, quando c’è una denuncia in atto e soprattutto quando c’è una perizia epidemiologica che sinteticamente afferma: “L'esposizione continuata agli inquinanti dell'atmosfera emessi dall'impianto siderurgico ha causato e causa nella popolazione fenomeni degenerativi di apparati diversi dell'organismo umano che si traducono in eventi di malattia e di morte”. Le leggi, quelle, le fanno coloro che reiteratamente mandano al parlamento.
Un’altra cosa è purtroppo spesso dimenticata, ed è quella del fatto che prima del lavoro, prima d’ogni altra cosa c’è la salute, l’unica ricchezza che, se posseduta, ci permette non solo di lavorare ma anche scegliere in piena tranquillità di come agire nel nostro vivere sociale.
Ed ecco il richiamo alla triste insegna del lager, l’esaltazione del lavoro, allora come oggi, nasconde a nostro modesto parere, la cupidigia di chi invece lucra, per tornaconto personale o di casta, sulle spalle dei lavoratori che, incoscienti dei loro reali interessi e dimentichi dei loro diritti, quello della salute e della dignità in primis, cedono davanti al peso di luoghi comuni e delle necessità, che da sempre pressano chi è, lavorativamente parlando, subalterno.
Durante la crisi di Taranto s’è sentito e visto di tutto, gli operai giustamente sono scesi in piazza, a loro interessa solo il lavoro, perché solo quello gli hanno insegnato; s’è però saputo del tentativo di corruzione di un perito dell’accusa da parte di Girolamo Archinà, direttore di fabbrica di quello stabilimento e prontamente ripudiato dall’azienda, anch’essa messa in causa dalle intercettazioni telefoniche della Guardia di Finanza; è anche intervenuto, come sempre accade lungo lo stivale, lo stato, nei panni del governo, a rintuzzare quello che i capitani d’industria nostrani, quelli che sanno solo omettere l’articolo davanti al nome della ditta, non sono stati capaci di fare, investire gli utili in sicurezza; e poi, infine, interviene mamma RAI, che con raro tempismo, degno dei tempi del miglior Minzolini, fa vedere che nel mare di Taranto, a testimonianza della salubrità del territorio e a salvaguardia del simbolo cittadino, c’erano ancora i delfini, senza però specificare a che distanza dalla costa e la precisa localizzazione degli avvistamenti. Ammesso che tutto ciò abbia funzione di indicatore biologico. Il potere dell’economia e della propaganda che annebbia le menti!
Certo il lavoro rende liberi, perché siamo liberi di comprare quei beni che ammortizzano le nostre coscienze, come telefonini, schermi piatti e altre simili amenità, quelli che ci illudono, durante le nostre passeggiate nei centri commerciali, di andarci a guadagnare nel baratto con i nostri diritti. Ma la salute, non è forse più importante? Ma quella purtroppo non si vede, non è un’amica che s’allontana o s’avvicina a seconda dei nostri comportamenti, l’iPad sì, quello lo si vede, lo si tocca e ci rende fessi e contenti, e chi se ne frega delle infrazioni del libero mercato e dei diritti dei nostri compagni lavoratori d’oriente, e con buona pace del pensare differente della bonanima di Bill Gates, tiriamo a campare.
Ma lo ripetiamo, sembra ancora che il lavoro renda liberi, liberi di suicidarsi, nel nome di non si sa quale ideologia od onorata società, quella che ci impone a camminare sulle impalcature senza alcun tipo di protezione, quella che ci impone di togliere le protezioni a seghe circolari e a mulazze per lavorare più velocemente e “più comodamente”! Quel luogo comune imposto da un’economia senza scrupoli che ci spinge ad avere il più alto tasso di mortalità sul lavoro di tutto l’occidente industrializzato; quella stramaledettissima ignoranza che ha fatto morire, a suon di miti sull’imprenditorialità emiliana, operai magrebini e meridionali, schiacciati dai capannoni lesionati durante le varie fasi del terremoto della scorsa primavera.
Qualcuno dichiarò, a denti stretti, che qualche proprietario impose di ritornare in fabbrica o andarsene al mare per sempre. Quelli che andarono al mare lavoreranno ancora!
(Immagine: fonte internet)
Quando ero ventenne e studiavo, supportavo il mio bilancio familiare lavorando come magazziniere a Pomigliano. Stavo tra i libri e questo mi andava più che bene ma la routine di quel lavoro non mi entusiasmava più di tanto. Un giorno, più caldo e demotivante degli altri, affranto dall’incertezza del mio futuro e dall’afa di quello scantinato, ebbi, come sussulto liberatorio la voglia di scrivere a pennarello, sul primo scaffale che immetteva in quel budello di impalcature metalliche, l’irrisoria frase che spiccava fuori il campo di concentramento di Auschwitz. Arbeit macht frei! Il lavoro rende liberi! La mia fu una reazione ironica, forse un po’ esagerata, ma non irrispettosa del suo carico storico. Volevo sottolineare che quel lavoro non mi piaceva e che, per una legge del contrappasso tutta personale, libero, appunto, non mi sentivo.
Oggi, più che quarantenne e da fannullone quale sono, faccio il professore, ma proprio per questo continuo a professare il mio disappunto sulla maniera di affrontare un problema fondamentale quale quello del lavoro.
Mai come in questi ultimi tempi sale alla ribalta la questione di questo raro bene di scambio, e mai come ora lo si usa come mezzo di ricatto più che di sviluppo. Facciamo ovviamente riferimento anche agli ultimi fatti di Taranto, dove, la decisione di un giudice di chiudere la più grande acciaieria d’Europa, ha creato il putiferio che è ancora sotto gli occhi di tutti.
L’ILVA di Taranto, 15.000.000 di m², una città nella città, doveva essere chiusa perché inquinava! E dire che questa fabbrica inquinava da anni ma ovviamente mai nessuno se n’era accorto, anche perché i proprietari, i Riva, quelli che avevano rilevato lo stabilimento che una volta fu dello stato sotto il nome di Italsider, se n’erano altamente strafregati di attuare quelle norme igienico-sanitarie che avrebbero garantito, in buona parte, un ambiente di lavoro più salubre e un’aria in città più respirabile.
Non l’avesse mai fatto il GIP di Taranto Patrizia Todisco, è successo il finimondo! Veterosocialisti e pidiellini, ma non solo, hanno colto l’occasione per rispolverare la loro ancestrale acredine nei confronti dei giudici, reiterando l’immagine inquisitrice, impunita e incurante degli altrui problemi e vicissitudini che da anni gli si appioppa. Il livore di questa accozzaglia trasversale di giudici dei giudici, cavalca la tigre dell’ira popolare, quella degli operai che vedono in crisi il loro posto di lavoro, in tempi tutt’altro che tranquilli. Questi sciacalli dell’informazione commettono però sempre lo stesso errore, dimenticano infatti che i magistrati non fanno le leggi ma le applicano, quando c’è una denuncia in atto e soprattutto quando c’è una perizia epidemiologica che sinteticamente afferma: “L'esposizione continuata agli inquinanti dell'atmosfera emessi dall'impianto siderurgico ha causato e causa nella popolazione fenomeni degenerativi di apparati diversi dell'organismo umano che si traducono in eventi di malattia e di morte”. Le leggi, quelle, le fanno coloro che reiteratamente mandano al parlamento.
Un’altra cosa è purtroppo spesso dimenticata, ed è quella del fatto che prima del lavoro, prima d’ogni altra cosa c’è la salute, l’unica ricchezza che, se posseduta, ci permette non solo di lavorare ma anche scegliere in piena tranquillità di come agire nel nostro vivere sociale.
Ed ecco il richiamo alla triste insegna del lager, l’esaltazione del lavoro, allora come oggi, nasconde a nostro modesto parere, la cupidigia di chi invece lucra, per tornaconto personale o di casta, sulle spalle dei lavoratori che, incoscienti dei loro reali interessi e dimentichi dei loro diritti, quello della salute e della dignità in primis, cedono davanti al peso di luoghi comuni e delle necessità, che da sempre pressano chi è, lavorativamente parlando, subalterno.
Durante la crisi di Taranto s’è sentito e visto di tutto, gli operai giustamente sono scesi in piazza, a loro interessa solo il lavoro, perché solo quello gli hanno insegnato; s’è però saputo del tentativo di corruzione di un perito dell’accusa da parte di Girolamo Archinà, direttore di fabbrica di quello stabilimento e prontamente ripudiato dall’azienda, anch’essa messa in causa dalle intercettazioni telefoniche della Guardia di Finanza; è anche intervenuto, come sempre accade lungo lo stivale, lo stato, nei panni del governo, a rintuzzare quello che i capitani d’industria nostrani, quelli che sanno solo omettere l’articolo davanti al nome della ditta, non sono stati capaci di fare, investire gli utili in sicurezza; e poi, infine, interviene mamma RAI, che con raro tempismo, degno dei tempi del miglior Minzolini, fa vedere che nel mare di Taranto, a testimonianza della salubrità del territorio e a salvaguardia del simbolo cittadino, c’erano ancora i delfini, senza però specificare a che distanza dalla costa e la precisa localizzazione degli avvistamenti. Ammesso che tutto ciò abbia funzione di indicatore biologico. Il potere dell’economia e della propaganda che annebbia le menti!
Certo il lavoro rende liberi, perché siamo liberi di comprare quei beni che ammortizzano le nostre coscienze, come telefonini, schermi piatti e altre simili amenità, quelli che ci illudono, durante le nostre passeggiate nei centri commerciali, di andarci a guadagnare nel baratto con i nostri diritti. Ma la salute, non è forse più importante? Ma quella purtroppo non si vede, non è un’amica che s’allontana o s’avvicina a seconda dei nostri comportamenti, l’iPad sì, quello lo si vede, lo si tocca e ci rende fessi e contenti, e chi se ne frega delle infrazioni del libero mercato e dei diritti dei nostri compagni lavoratori d’oriente, e con buona pace del pensare differente della bonanima di Bill Gates, tiriamo a campare.
Ma lo ripetiamo, sembra ancora che il lavoro renda liberi, liberi di suicidarsi, nel nome di non si sa quale ideologia od onorata società, quella che ci impone a camminare sulle impalcature senza alcun tipo di protezione, quella che ci impone di togliere le protezioni a seghe circolari e a mulazze per lavorare più velocemente e “più comodamente”! Quel luogo comune imposto da un’economia senza scrupoli che ci spinge ad avere il più alto tasso di mortalità sul lavoro di tutto l’occidente industrializzato; quella stramaledettissima ignoranza che ha fatto morire, a suon di miti sull’imprenditorialità emiliana, operai magrebini e meridionali, schiacciati dai capannoni lesionati durante le varie fasi del terremoto della scorsa primavera.
Qualcuno dichiarò, a denti stretti, che qualche proprietario impose di ritornare in fabbrica o andarsene al mare per sempre. Quelli che andarono al mare lavoreranno ancora!
(Immagine: fonte internet)
Ciru'... a me onestamente fa impressione pensare che nel 2012 questo disgraziato Paese ha ancora acciaierie e miniere di carbone , che in Germania sono diventati musei di archeologia industriale da svariati anni ( N.B: coi relativi lavoratori riconvertiti a fare un altro mestiere, non lasciati a pper..)
RispondiElimina.. e pure chest'è vero!
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