venerdì 18 maggio 2012

SASSI






La precipite gravina come serpente scava il friabile tufo. Anfratti, forre, grotte, chiese, loculi, abituri sprofondano nelle viscere della terra in un interminabile dedalo dalla dinamica altimetria, sconnessa, imprevedibile, mai uguale a se stessa, che si articola in volumi ipogei dissimili l’un l’altro: pilastri dallo scabro e ingenuo capitello, lacunari sgombri d’ogni immagine, rari affreschi dalla tremula mano bizantina (certo il mosaico per queste povere popolazioni era tecnica più onerosa), vasche, cantine, stalle, rivoli di umidità che scavano ed impregnano, spugnosi strati che si sovrappongono. E su tutto questo si costruiscono volumi e rare modanature, impreviste e calligrafiche, che seguono la linea di un torrente e di due colline dirimpetto: il Sasso Barisano e il Sasso Caveoso. Saliscendi, scale, portali, cortili, vicinati in un reiterato accostarsi di forme in un’unica indistinta materia: tutto questo riprende vita con i pochi abitanti che non hanno mai lasciato la loro casa. È un grande cantiere che coinvolge le case, le strade, la città con ‘medievale progettualità’. E l’incaico Sebastian Matta espone in quegli antri rupestri la sua fittile poetica.

Pietro Mario Lacanna, 5 Agosto 1995


Milano Trenta Maggio 1993

All’inizio degli anni Sessanta frequentavo la quarta elementare in un grosso paese dell’estremità settentrionale della provincia di Cosenza. L’irascibile nostro Maestro non perdonava nessuna delle nostre piccole e rarissime mancanze e ricorreva ogni giorno all’uso della bacchetta: godeva ogni qualvolta decideva di arrossare le palme delle nostre esili mani con le sue sibilanti e vigorosissime vergate. Eravamo costantemente terrorizzati, ed Egli, ancor di più, si accaniva di fronte ai tremebondi e, molto di più ancora, verso coloro che stoicamente cercavano di nascondere l’insopportabile dolore. In uno degli ultimi giorni di primavera di quell’anno, all’ora della ricreazione, al suono della campanella, mentre il nostro Educatore era intento a parlottare fitto fitto con il maestro Fornara, tutti noi ragazzi siamo usciti fuori dall’aula senza attendere il suo permesso. Le aule di quella scuola elementare erano al pianterreno di un palazzo rosso con le fasce segnapiani bianche, che, si raccontava, fosse stato costruito da un uomo solo. Il palazzo affondava le sue fondamenta nel fianco della collina e vi penetrava per molti metri; il tetto dagli accentuati spioventi nascondeva molti, per noi ragazzi, misteriosissimi abbaini, un po’ al di sotto del Paese Alto e dominante minaccioso la Marina Bassa; i tre piani dell’edificio, costruiti in laterizio locale, erano foderati da un intonaco ruvido e scabro ed erano coronati da un timpano nel quale si apriva un grande oculo con un grande orologio a contrappesi, con il quadrante bianco, le cifre in numeri romani e le lancette finemente decorate con motivi floreali, che lo stesso costruttore del palazzo aveva progettato e montato. Noi ragazzi trascorrevamo i pochi minuti di svago sulla pubblica via, a quel tempo percorsa da rarissime autovetture, facevamo le nostre frettolose minzioni scendendo in uno dei numerosi canali che dalla collina scorrono, ancora oggi, verso il vicino mare. Il nostro Maestro era un omaccione alto e grosso, sempre vestito con una consunta giacca di velluto a coste, che gli copriva le spalle larghe e un po’ incurvate. Il viso dalla pronunciata mascella quadrata era sempre rabbuiato da uno sguardo torvo e minaccioso: egli digrignava i denti, ti guardava fiammeggiante dritto negli occhi e, rivolgendosi a noi aveva sempre un tono adirato della voce, forte cavernosa terrorizzante. Al nostro ritorno, il Maestro ci ha schierato in fila fuori dalla porta e, facendoci entrare uno alla volta in classe, allorquando passavamo davanti a Lui, faceva pesantemente cadere, con la dura bacchetta di legno d’ulivo, sulle nostre mani protese e tremanti dei rabbiosi colpi, sonori e devastanti. Io, nella mia infantile ferita ingenuità, tornato a casa, ho raccontato l’accaduto a mia madre, la quale, benevolmente e con la sua solita dolcezza, mi ha consigliato che è sempre segno di vera educazione ascoltare tutto quello che gli adulti hanno da insegnarci, specialmente quei Maestri che ogni giorno lavorano con noi. Dall’altra parte, però, era per lei impossibile nascondere quei fatti a mio padre e, alla sera, al rientro del marito dal lavoro, ella, anche se a malincuore, ha vagamente raccontato l’accaduto. Ancor prima che la mamma avesse finito di parlare, il mio affaticato genitore mi ha, inseguendomi per la piccola stanza, ripetutamente percosso, urlando a mia madre che all’indomani avrebbe dovuto accompagnarmi a scuola e chiedere umilmente e rispettosamente scusa al Maestro, rassicurandolo che nient’altro di a Lui non gradito sarebbe mai più successo: e così sempre è stato in tutti gli anni a seguire della mia vita.

Pietro Mario Lacanna


























































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