“Eroe: Chi sa lottare con eccezionale coraggio e generosità, fino al cosciente sacrificio di sé, per una ragione o un ideale ritenuti validi e giusti” dallo Zingarelli 2004, pag. 643
A freddo, lontano dal clamore e l’emotività di certi momenti dove a muoversi è più il cuore che la ragione, vorrei soffermarmi su un qualcosa che ha attanagliato non poco la mia coscienza, di uomo e di cittadino. Ho cercato di analizzare bene il mio pensiero, ripulendolo da ogni preconcetto. Ho spronato la mia voglia di capire il significato degli eventi, provando, qualora fosse possibile, a immedesimarmi anche in chi aveva perso i propri cari in maniera tanto barbara e cruenta. Ma in tutta sincerità non riesco ancora ad comprendere la retorica prodotta in occasione della morte dei soldati italiani delle nostre missioni all’estero.
Mi rendo conto che in uno stato, di qualsiasi tipologia socio-politica si tratti, ci sia il bisogno di punti di riferimento ben saldi, che nel migliore dei casi ne consolidano l’unità nazionale. Quindi sopratutto quando si verificano eventi tanto luttuosi come gli attacchi da parte di mafia e terrorismo o come quelli accaduti nei recenti eventi parabellici in oriente, è opportuno schierarsi in maniera compatta per far fronte alla complessa situazione. Rimango però perplesso allorquando lo stesso stato non sembra riuscire ad affrontare altre emergenze pur rilevanti come quella delle morti sul lavoro, che, contrariamente a talebani e soci, che in Italia non c’hanno mai messo piede, risultano offrire un necrologio di tipo bellico e inesorabilmente quotidiano. Tale accostamento, ventilato in sordina, lo scorso settembre, nei giorni dell’enfasi patriottica, paragonava la triste sorte dei giovani meridionali morti a Kabul con quella dei conterranei periti qui da noi, sul loro posto di lavoro.
Credo sia opportuno evidenziare due aspetti fondamentali della questione, il primo è quello legato al fatto che se i soldati italiani si trovano su quei fronti lo è stato perché qualcuno ve li ha mandati, e quel qualcuno (entità in vero alquanto trasversale) deve giustificarne la presenza, così come la loro morte in quelle destinazioni sperdute, così lontane dalla nostra cultura e dalla nostra quotidianità. Si noti inoltre che l’esercito italiano in giro per il mondo, ufficialmente per motivi di salvaguardia della pace (definita asetticamente e ipocritamente peacekeeping), non è appunto lì per proteggere il territorio italiano. Si combatte e si uccide non in nome del Popolo Italiano e della Costituzione che ci rappresenta e tutela, ma in virtù di accordi internazionali, che sembrerebbero imporre al nostro paese la presenza in quei luoghi tanto distanti da noi e forse dai nostri interessi. È opinabile quindi che l’apoteosi patriottica dello scorso settembre servisse a coprire, con la spessa coltre dell’emotività, l’anomalia tutta italiana delle cosiddette missioni di pace, che pace non portano, né agli altri né a noi.
Il secondo aspetto è quello della ragione per la quale questi ragazzi, in buona parte del sud, decidono d’arruolarsi nell’esercito e volontariamente decidono di partire per missioni tanto rischiose e inutili.
Il mestiere del soldato è da sempre vincolato al pericolo e quindi chi s’arruola, teoricamente, sa a cosa va incontro, ma è anche vero che il benessere del dopoguerra, salvo che in sporadiche occasioni, ci aveva abituati ad un esercito più dispensatore di posti di lavoro che effettivamente operativo sul campo. I ragazzacci di buona famiglia venivano mandati a completare i loro barcollanti studi sotto le armi e lì se ne forgiava il carattere ribelle e gli si garantiva una tranquilla carriera dallo stipendio sicuro e dagli scarsi rischi. Strada simile seguivano le classi meno abbienti ambendo al posto fisso nell’esercito o nell’Arma, ingrossandone le fila in cambio del salario e dell’elevazione sociale.
Il mutato scacchiere internazionale ha però voluto che anche l’Italia versasse il suo contributo di vite umane alla causa dell’ordine mondiale o di chissà quale altra ragione occulta. Va comunque notato che chi va volontariamente in missione (ma non sarebbero da escludere comunque eventuali pressioni interne, in un mondo che, si ricordi, solo da poco ha fatto i conti col suo “nonnismo” e con altre simili aberrazioni) lo fa anche per le indennità di rischio che rimpinguano il salario non propriamente florido del soldato (in genere le indennità ammontano al doppio dello stipendio normale, raggiungendo un compenso di circa 5.000 € mensili. Si veda comunque a tal riguardo la Legge 13 marzo 2008, n. 45 art. 4), fermo restando, che nessuno stipendio gratificherebbe il rischio tanto grande di ammazzare e farsi ammazzare. Infatti le fumose “regole d’ingaggio” che fino a qualche mese fa c’imponevano a limitarci ad azioni di legittima difesa ora sembra che siano cambiate o che si sia sul punto di farlo, sta di fatto che i nostri soldati sono stati più volte impegnati in vere e proprie battaglie negli ultimi tempi. Quindi l’immagine delle scuole e degli ospedali che pur fanno parte dell’operato italiano, dovranno fare i conti con le vittime, anche civili, degli scontri che si sono susseguiti quest’estate in Afghanistan, tra le nostre truppe e quelle dei talebani.
Mi rendo conto che questa mia opinione susciterà non poche critiche, tale è il dogma dell’intangibilità delle forze armate (mi son sempre chiesto perché davanti a tanta apologia per chi perde la vita in servizio, non corrisponda un inversamente proporzionale trattamento per chi infanga invece la divisa che altri portano con onore), mi chiedo comunque perché non meritino altrettanta celebrazione e ufficialità le vittime del lavoro.
Il lavoro che, in un modo o nell’altro, fa grande questo paese e visto anche che la nostra è una Repubblica fondata ancora su questo sacrosanto principio e non sulla ripudiata guerra.
Perché questo non è accaduto come invece è stato fatto col presentatore televisivo Mike Bongiorno, forse perché, contrariamente al re del quiz e alle missioni militari, il lavoro è un qualcosa di fisiologico per un paese e che quindi anche le vittime, tragico a dirsi, lo divengono automaticamente. Mentre, le bare col tricolore che rientrano in patria in diretta televisiva, risultano molto più cospicue nell’economia spicciola della propaganda, dei governi attuali e di quelli passati.
Ma un esecutivo che si rispetti, che non si nasconde dietro parole stantie come patria, onore e gloria, ingaggia battaglie ben più dure e realistiche di quelle che, lontanamente mediatiche, si svolgono ai quattro capi del mondo, affronta strategie in grado di risolvere i veri grandi problemi del Paese e non quelli della provincialistica visione del ruolo dell’Italia nel mondo.
Si risolvono prima i problemi a casa e poi s’affronta tutto il resto.
L’Italia dei primi del novecento vantava le sue prime colonie, e intanto, mentre Roma coltivava assurdi sogni di gloria, i suoi figli emigravano nelle Americhe perché a casa morivano di fame. Oggi allo stesso modo mentre disoccupazione e delinquenza organizzata spopolano lungo la Penisola, qualcun altro sogna un ruolo di prestigio internazionale per l’ennesima vittoria monca, per una nuova Versailles da ascrivere al novero della nazione.
Si resta comunque sconcertati davanti allo spot, dal sapore tutto hollywoodiano, allestito per la festa delle forze armate del 4 novembre. Meraviglia l’edulcorata immagine che s’offre al Paese, in aperto contrasto con la raccapricciante realtà di un fronte tanto lontano quanto inutile, almeno per noi persone comuni.
Noi persone comuni che però abbiamo bisogno di eroi, di santi, martiri e geni, per poter credere che esista un mondo migliore di quello in cui viviamo, e che esista qualcuno migliore anche di noi, capace di elevarsi dalle meschinità quotidiane e che, magari, allo stesso tempo, giustifichi anche le nostre di miserie, che rappresenti l’archetipo di ciò che bisognerebbe essere e che mai saremo e che quindi è giusto non emulare perché troppo lontano dalla realtà.
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