Su quello che ognuno di noi dovrebbe sapere, se non provare, almeno una volta nella vita, prima di pensare all’altro come un’entità astratta.
Oggi 16 luglio 2015, Santa Maria del Carmelo, vigilia del mio intervento, non ho di meglio da fare che scrivere per ammazzare il tempo e, per non dare capate nel muro, decido di parlarvi dei
miei compagni d’avventura. Dei medici no! Non ve ne parlerò, perché ovviamente non li giudico tali, forse anche per un’innata antipatia verso chiunque veda la sua professione come il
mezzo per un’ascesa sociale, perché non li ho mai sentiti al mio fianco e perché l’ho già fatto nel precedente articolo (a proposito, ma i medici non si ammalano mai? O vanno tutti a
ricoverarsi in cliniche esclusive approntate solo per loro?), incomincerò quindi da chi mi è stato più vicino e più caro in questi giorni di degenza, gli altri pazienti.
Inutile dirvi che pur non essendo di primo pelo (purtroppo neanche per la mia patologia lo sono e così nella frequentazione degli ospedali) mi trovo, ancora una volta, ad essere il più giovane
e sprovveduto, in un reparto dove sono circondato da tanti simpatici vecchietti dagli occhi vividi e la battuta pronta e che, cateterizzati vagano rassegnati e barcollanti come zombie lungo la
corsia dell’ospedale. Lungi da me fare facile ironia su quest’immagine grottesca ma è purtroppo questa la scena premonitrice che i miei occhi vedono ogni mattina al mio risveglio nella stanza
232.
Il giorno del mio ricovero, sei giorni or sono, conosco i miei due compagni di stanza, Gennaro e Ciro che con me, omonimo di quest’ultimo si avviano a costituire un perfetto trio
austroungarico. Ciro è taciturno, con lo sguardo malinconico rivolto quasi sempre verso la finestra che affaccia su di un panorama, per quanto cittadino, abbastanza gradevole e verde e, grazie
alla prospettiva dal letto, riusciamo anche a non vedere quello che subito frustrerebbe le nostre illusioni di internati. Gennaro compensa con la sua loquacità la parsimonia verbale di Ciro
solitario dalla sigaretta pronta, le unghia lunghe di chitarrista classico e la pelle tostata del muratore, magrissimo ed evidentemente segnato dalla vita, quella che lascia segni ben più esplicativi
di qualsiasi tatuaggio. Gennaro è anch’egli alto e all’apparenza molto più giovane della sua sessantina e persona dalla vivacità coinvolgente quella di chi non s’arrende nemmeno davanti alla
malattia e t’intrattiene con i suoi racconti di vita pratica e di fasti borbonici.
Il terzetto, così costituito imperversa nella la corsia di urologia, e segna solchi con le sue ciabatte nel giallo linoleum. A spasso col catetere a mo’ di busta della spesa si va e si socializza con le
altre camere, a volte ci si abbatte per la preoccupazione ma ognuno tira su l’altro e tra battute e risate sproporzionate per luogo e situazione, si fa la spola tra i letti e la macchinetta del caffè
dove anche il suo prodotto, una ciofeca indicibile dal colore marrone, diventa un’ambrosia per l’allegra compagnia e l’imposta astinenza da caffeina. Il terzetto di fuoco fa incursioni ovunque,
mietendo talvolta vittime anche tra gli infermieri; nessun uomo è un’isola, per cui, pure loro, accantonato il ruolo professionale e lo sguardo acerrimo della caposala, solidarizzano con noi per
l’agrodolce destino che accomuna gli esseri umani. Tutto ciò aiuterà molto, anche quando le vicissitudini fisiologiche ti porteranno ad affrontare situazioni inusitate e purtroppo, se non
invalidanti, fortemente imbarazzanti per chi come me coltiva ancora il senso del pudore.
Per fortuna, oltre al corridoio e le finestre, sempre chiuse per dare un senso all’aria condizionata (unico baluardo tra noi e la pazzia), esiste un altro spiraglio sul mondo esterno, un varco al
momento invalicabile, tra i malati e la realtà esterna. La balaustra sulla scala d’emergenza, quest’ultima, una sorta di salottino fumoir dove appunto sigarette, chiacchiere e panorama smorzano
la monotonia degli ambienti interni, freddamente foderati di plastica e ferro cromato e permeati da quell’odore inconfondibile dei disinfettanti d’ospedale. Lo sguardo sul mondo, lì dalla
balaustra, pare quasi quello da una nave quando salpa o così lo voglio vedere io, una nave che solca onde di cemento, asfalto e rachitici cipressi, che si apre la sua strada tra i binari della
RomaCaserta per confluire poi nell’Asse Mediano e andare oltre per circumnavigare un Somma notturno con la luce del Ciglio a far da faro e sfociare finalmente all’alba dietro al Vesuvio e
magari, perché no? Prendere definitivamente il largo, in mare aperto, quello vero e raggiungere spiagge lontane e incontaminate.
Ma come ogni bel sogno, il risveglio è duro e deludente perché la nave sta sempre là, ferma in quel porto di anime e corpi in pena e pure quel cerbero della caposala ci mette del suo, mettendo
l’allarme alla porta antipanico che dà alla balaustra, per evitarci di uscire e godere un caldo che solo noi, al fresco di queste mura, sappiamo ancora apprezzare; un sole piacevole come può
esserlo per un carcerato, un prigioniero di qualcosa, che può essere se stesso, il proprio corpo o la propria anima.
Una sorta di Alcatraz a quattro stelle, un hotel dove nessuno, anche se comodamente non vorrebbe restarci più di tanto, e neanche il paragone con gli standard degli altri ospedali partenopei
non rincuora il nostro stato di pazienti impazienti.
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