venerdì 24 settembre 2010
Viscount
Nelle cose umane è a volte così difficile stabilire le priorità delle cose che facciamo. É realmente difficile valutare l’importanza dell’impronta, più o meno grande, che lasciamo al nostro passaggio su questa nostra piccola terra, grande come le nostre aspirazioni, ma anche ridotta come le nostre vedute. É anche vero, che se non ci fossimo, questa non sembrerebbe più desolata o meno autosufficiente di quanto non lo sarebbe in assenza di ogni altra sua parte. Ma resta il fatto che pur sempre le apparteniamo come ogni sua piccola particella e quindi segniamo il nostro passaggio per chi voglia carpirne l’eventuale significato.
Abbiamo dunque la tendenza di registrare ciò che, talvolta soggettivamente, ci risulta essere degno di memoria, esaltando, in maniera spesso acritica o parziale, eventi storici, o che noi definiamo tali, forse più per commemorare noi stessi che l’evento stesso.
Spesso, i piccoli eventi quotidiani, quelli che ai nostri giorni, vengono rapidamente archiviati per l’eccessiva rapidità della cronaca, non conservano per più di una settimana quell’orma che meriterebbe un ricordo ben maggiore di quanto la velocità tecnologica e commerciale le riserva, se non altro perché legata a quel valore fondamentalmente condiviso che è la vita umana.
La nostra presunzione ha spesso relegato, per pratica tassonomia, al computo delle unità o all’altisonante nomenclatura le vite passate dei nostri simili. Sotto il nostro sterile sguardo sono scorsi antecedenti e paralleli gli altrui fremiti, le altrui passioni. Spesso però la nostra tenera corazza epidermica e quella meno tangibile sintetizzata nell’anima è risultata ben più coriacea all’altro e al microcosmo che questi rappresentava.
Prima, prima che la televisione s’imponesse a tutti noi, come il verbo assoluto, e molto più avanti della presunta infallibilità di internet, c’era la memoria a dare valore al ricordo di un evento. C’era infatti la possibilità di prolungarlo ai posteri, che, magari sotto forma edulcorata, talvolta sostanzialmente modificata, trasmetteva al futuro una storia. Questa però manteneva, nonostante le modifiche, quel valore umano che lo rendeva universalmente accettabile a tutti e per questo prezioso e degno d’esser trasmesso.
Del fatto di cui vorrei parlarvi, molto più recente rispetto alla storia delle genti partenopee a cui appartengo, ha di importante l’umana pietà verso chi c’è simile e le altrettanto umane bassezze che costellano le nostre vicissitudini.
È un evento, accaduto nel 1964, che se non fosse per la memoria di quegl’uomini che ne furono testimoni, oggi se ne sarebbe persa quasi ogni traccia.
Infatti la pur utile rete, nuova frontiera dell’informazione, ha trattenuto ben poca roba tra le sue maglie e solo il ricordo di chi era bambino o poco più che un uomo all’epoca dei fatti di cui vi narrerò, potrà dare la dignità della memoria a coloro che persero il loro bene più prezioso.
Pasqua dalle nostre parti, alle pendici del Vesuvio, dove il tempo imita la variabilità dei umori locali, non è sempre sinonimo di primavera e quell’anno l’inverno s’abbarbicò con quel che gli rimaneva e con tutta la sua enfasi all’incipiente primavera.
La notte del 28 marzo 1964 era Sabato Santo e su Napoli imperversava una tempesta in piena regola. Si sa che quando piove, da noi, sia in città che in campagna non c’è da scherzare, i canali, i lagni che i lungimiranti Borbone, ebbero a costruire lungo le pendici del Somma, possono divenire più che torrenti in piena ed essere perciò molto pericolosi. La città poi, col suo sottosuolo di groviera, ha ben che temere, e guardare dove mettere i piedi, per il cittadino napoletano, risulterà più che utile, opportuno.
La quiete vesuviana di quel Sabato Santo era scossa solo dal fragore del temporale, e solo i pochi anziani che s’apprestavano alla funzione di mezzanotte scrutavano il cielo sperando in una schiarita. Qualcun altro s’affrettava a tornare a casa per festeggiare la Pasqua in famiglia, altri invece, come pochi ragazzini sfaccendati e sereni per le vacanze scolastiche, s’attardavano sotto una grondaia gocciolante a chiacchierare con gli amici più grandi della piazza.
Questo era lo spaccato della quotidianità di paesi come Massa, Pollena Trocchia o San Sebastiano all’epoca del boom economico, quando sperare aveva ancora un suo fondamento.
Ben poca cosa rispetto a chi invece lo viveva già a pieno regime, sfruttando l’onda lunga che dalle tenebre del dopoguerra ci conduceva verso un mondo nuovo e la speranza di esservi partecipe, almeno in un sua piccola parte, era la cosa più gratificante.
L’aeroporto di Capodichino, sabato 28 marzo, era anch’esso bersagliato dagli strali di Giove pluvio e come se ciò non bastasse, a dimostrazione del nuovo clima cosmopolita che vivevano la città e la nazione, il traffico aereo era notevole. I voli di linea cedevano il passo a quelli militari degli statunitensi che richiedevano un ordine di priorità per snellire il traffico dello scalo napoletano.
La montagna, ‘a Muntagna, come la chiamano i locali, il Monte Somma come è normalmente denominato, per differenziarlo dal più recente Gran Cono del Vesuvio (anche se in realtà non è che la parte più antica del medesimo vulcano), quella sera era coperta da una spessa coltre di nubi, che ne avrebbero celato l’esistenza a tutti coloro che non ne avessero memorizzato l’arcigna sagoma nella memoria marchiata a fuoco dalla linea crestata dei Cognoli.
Quella sera quando Aniello s’accingeva a riposare dopo una serata tranquilla in compagnia d’amici, agevolato da qualche bicchierino riposava. Verso mezzanotte fu però svegliato dal suono delle sirene.
Aniello si precipitò in piazza e nel trambusto capì che era accaduto qualcosa di grave, molto grave, ma da dove proveniva quel bagliore? «da chiana de resinare!» La stessa gravità che intesero tutti quelli che ebbero udito il sordo boato, come le donne fuori la chiesa dell’Assunta a Massa, stupite davanti il bagliore delle fiamme intervallato dalle nubi e gli scrosci d’acqua, così come a San Sebastiano, Raffaele, investito della sua carica istituzionale avvertì i carabinier della locale stazione, anche Guido, comandante della stazione dei carabinieri di Cercola, capì tutto vedendo la striscia di fuoco squarciare il fianco del Somma. Ben presto s'intese che il fragore che aveva scosso la notte vesuviana era stato causato dallo schianto di un aereo, un bimotore Viscount dell’Alitalia col suo carico umano di quarantacinque persone.
Nelle prime ore del mattino intervennero “le autorità”, i carabinieri, i vigili del fuoco, ma nessuno sapeva come giungere là dove l’aereo o quel che ne rimaneva ardeva ancora nonostante la pioggia incessante. La zona in questione, identificata all’epoca col toponimo, ormai in disuso della Cresta del Cardo, era situata a circa 670 metri, presso le sorgenti delle Chianatelle, polle pressoché prosciugate dalla natura e dall’umana incuria, sul versante pollenese del Somma. Un luogo impervio e la notte di tempesta non ne agevolava certo l’accesso. Fu necessario allora la guida di persone esperte del per raggiungere il luogo del disastro.
Aniello, esperto cacciatore di beccacce, lo era, lo era quando ‘a Muntagna era parte integrale della vita sociale ed economica dei paesi del comprensorio e non un’appendice sconosciuta o il riflesso di una storia raccontata troppe volte per sentirla propria. Quelli come lui la frequentavano con rispetto, si muovevano in un contesto che conoscevano perfettamente e non perché gli fosse stato inculcato sterilmente da qualcuno ma perché vi erano nati e l’amavano come qualcosa di proprio, di visceralmente sentito e di conseguenza amato, era il loro mondo insomma.
Aniello, allora trentenne, si propose di accompagnare le avanguardie dei soccorsi sfruttando la sua conoscenza dei luoghi. Alla luce delle fotocellule ci s’incamminarono verso il punto dell’impatto, le fiamme guidarono poi il cammino verso il triste scenario che i soccorritori trovarono sulle pendici della caldera.
Brandelli di carne umana apparivano tra le lamiere contorte e fumanti di quel che rimaneva del velivolo, corpi semicarbonizzati pendevano dalla folta vegetazione, un caos di bagliore e tenebra, di carne e metallo di acqua e fuoco.
Non era certo lo scenario che i presenti s’aspettavano di vedere quel Sabato Santo, e che avrebbero ricordato sicuramente per tutta la vita.
Luciano, quel mattino non avrebbe infatti immaginato di presenziare, oltre a quello strazio di membra umane, anche a qualcosa di meno truculento ma ben più raccapricciante della stessa morte, benché drammatica come quella che s’era prefigurata quella notte di Pasqua del “64. Era la morte della dignità umana che s’era abbassata ad infimi atti di sciacallaggio, stimolati dalle notizie del ritrovamento di denaro e preziosi tra le carcasse. C’è chi racconta che qualcuno avesse addirittura tagliato le dita ai cadaveri per privarli degli anelli, Luciano, allora primo appuntato, fu costretto a usare la sua pistola d’ordinanza per intimorire coloro che, neanche il rispetto per la morte, frenava nella loro bassezza.
C’è chi li maledice ancora, più che per l’ignominia apportata alla comunità, per l’abisso al quale s’era portato l’animo umano.
Le prime luci di quel giorno di Pasqua non rasserenarono l’animo di Aniello e Luciano, e Michele e Luigi, così come quello di tutti coloro che speravano di trovare un superstite in quella che sembrava essere la più grande delle tragedie per l’empatia del momento.
La boscaglia di castagni e lecci, sconvolta si apriva davanti i loro occhi, i monconi carbonizzati delle robinie, le roverelle spezzate, come le vite di quegli uomini e quelle donne, non aprivano alcuno spiraglio alla comprensione di quella tragedia, incomprensibile come fu al momento del ritrovamento del cadavere di una bambina tra le ginestre ancora fumanti, intatta, nel suo vestitino, nel suo sonno letale, stigmatizzato da quel rivolo di sangue che le colorava il ceruleo viso di bambola, Luciano si commuove ancora al ricordo di quella visione, forse ancora più angosciante perché ancora non toccata e non consunta dalla morte.
I giornali del 31 marzo svelarono le dimensioni del disastro e incominciarono a porre le prime domande.
L’aereo, proveniente da Torino Caselle, dopo uno scalo a Roma Ciampino, era diretto proprio a Napoli e portava il suo carico umano di speranze, sogni e aspettative. Molti dei passeggeri infatti si recavano nella città partenopea per trascorrere le vacanze pasquali, ma non tutti erano semplici turisti, c’erano Tom e Robert graduati della marina statunitense, ma anche Lawrence con sua moglie Fay e i loro figli Jill e Steven e molti altri che per lavoro o per seguire i propri cari trovarono la morte sul volo AZ-45.
Pasquale era il comandante ed era uomo esperto e ben conosceva la rotta, tanto da lasciare quella sera la procedura strumentale d’atterraggio (Instrumental Landing System) e virare manualmente sulla baia di Napoli per dar tempo agli aerei dell’aviazione statunitense d’atterrare. Cosa sia accaduto non ci è dato sapere, probabile l’errore umano, ma come spiegarlo? Allora non esistevano le scatole nere che solo di lì a poco saranno istallate sugli aerei, il tutto rimane quindi avvolto nel folto mistero di quella notte.
Chiacchierando con un amico toscano, durante un’escursione sul Somma, appresi che sull’Amiata, antico cratere vulcanico, è interdetta la navigazione aerea proprio a causa delle forti variazioni magnetiche dovute alla natura del terreno. È plausibile allora un’ipotesi del genere anche per quest’incidente? Che sia impazzita la strumentazione di bordo del Viscount quella sera?
Non sono un esperto e non voglio neanche paventare tesi alla Voyager ma voglio solo registrare un evento e una possibilità che spero, qualcuno più esperto di me possa acclarare. Aggiungo a queste notizie anche la testimonianza di Umberto che con gli ultimi bagliori del secondo conflitto mondiale, era al seguito degli alleati. Umberto notò strane interferenze elettromagnetiche sulle strumentazioni radio questo man mano che saliva verso il cono, passato Colle Umberto.
Altro elemento di non secondaria importanza è quello di un altro incidente aereo, precedente al disastro di Pasqua. Qui le notizie sono però più scarne poiché l’aereo in questione apparteneva alle forze aeree degli Stati Uniti d’America e se si escludono i comunicati stampa e le romanzate cronache dell’epoca anche in questo caso ci si può solo affidare ai testimoni diretti dell’avvenuto e comprovare la rischiosità, almeno statistica, del Somma di quei tempi.
Il Dakota C47 delle forze armate USA era giunto alle ore 22.02 di sabato 16 febbraio 1958 presso l’aeroporto di Capodichino, proveniente da Wiesbaden e diretto a Instanbul. Dopo aver fatto regolare scalo per il rifornimento di carburante riprendeva il suo viaggio alla volta del prossimo scalo greco. Ma alle ore 22.30, secondo il Mattino del 20 febbraio, si perdevano i contatti col bimotore e con il suo carico di 16 uomini a bordo.
In questo caso la cronaca combacia con la testimonianza del nostro Aniello, caro amico e fonte infinita di ricordi, che ci immette d’improvviso in un passato recente quando possedere un binocolo significava ancora avere un oggetto da tramandare ai propri figli e non di facile reperibilità. Mercoledì 19, uno strano luccichio che proveniva dal lato nord-est dei Cognoli aveva attratto l’attenzione di un altro Raffaele, vigile urbano di Pollena, che procuratosi l’allora raro strumento ottico era riuscito a scorgere, tra la neve che da un paio di giorni ricopriva la Montagna, il timone dell’aereo, a mo’ di banderuola sventolava mosso dal vento e rifletteva la luce solare.
Fu così che, dopo quattro giorni di inutili ricerche congiunte Italia/USA, si era finalmente trovato l’aeroplano. Inutile dire che la curiosità dei locali era tanta e tale che spinse in molti lungo le pendici del Somma. Aniello ricorda ancora che i più si sistemarono, a riverente e prudente distanza sugli speroni rocciosi dell’antica caldera per osservare le operazioni di recupero delle salme dei militari, tutti deceduti nell’impatto e descritti da un cronista di allora come i calchi di Pompei. Un’altra cosa che attrasse l’attenzione dei presenti fu il recupero di alcune strane sacche la cui visione collegata alla sproporzionata reazione dei militari che indirizzarono a scopo intimidatorio dei colpi d’arma da fuoco verso i curiosi, lasciò supporre che fosse qualcosa di prezioso o sicuramente importante.
Delle 45 vittime del Viscount tre erano bambini, cinque i membri dell’equipaggio, sei di loro non furono mai identificati, tre non furono mai trovati, probabilmente annientati dalla forte esplosione e dando adito a storie di strane scomparse che mai potranno essere spiegate se non con la fantasia. I sei corpi e i nomi dei tre dispersi dimorano probabilmente ancora al cimitero di Poggioreale e sopravvivono ormai solo nel ricordo di Aniello, Luciano, di Stefano e di quei ragazzini che, increduli e incuriositi, affrontarono l’iniziazione del contatto con la morte, che li avrebbe portati nel mondo dei grandi, della dura realtà, ma, allo steso tempo, sarebbero stati i vettori del ricordo, il vincolo che unisce ogni uomo alla storia di tutta l’umanità.
Le foto dei quotidiani dell'epoca sono state gentilmente concesse dalle emeroteche Vittorio Emanuele II e del Banco di Napoli. La medaglia da Stefano Sorrentino, bambino all'epoca dei fatti e che ricevette l'oggetto da uno zio intervenuto tra i primi sul luogo del disastro e pietoso custode dei resti dimenticati delle vittime.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento