martedì 20 aprile 2010
Eyafjallajokull? Eyafjallajokull!
Il famigerato vulcano islandese, dal nome impronunciabile ai più (soprattutto ai professionisti dell’informazione!) sembra aver messo in luce qualcosa di ben più evidente ma altrettanto sottaciuto dai media nazionali ovvero l’imperiosità del profitto su taluni valori, quali in primis la vita umana, che sembra incomincino a passare in secondo piano.
Da che mondo è mondo, l’uomo ha sempre cercato il benessere a tutti i costi, anche a scapito del bene supremo. La guerra, giustificata dalle più svariate scuse, ha fatto prevalere l’interesse economico sulle vite di civili e di soldati.
Dalla mitica guerra di Troia ad esempio o le crociate, scoppiate per il controllo dei traffici commerciali, e non certo per la concupiscenza della bella Elena o per la salvaguardia del Santo Sepolcro, fino alle più recenti guerre mondiali non s’è fatto altro. Così come nelle ultime guerre strategiche di Iraq e Afghanistan, dove si son fatte carte false per trovare il pretesto di dichiarare guerra a qualcuno.
Oggi, anche quando il conflitto bellico viene mascherato sotto i più rassicuranti nomi di polizia internazionale e operazione di pace o imbellettati con nomi da film americani, si continua a mortificare la carne e la coscienza umana.
L’interesse prevale anche quando gli aerei di mezza Europa, e non solo, rimangono a terra per sicurezza.
I mezzi di comunicazione di massa continuano a mostrarci immagini di viaggiatori frustrati per la loro mancata vacanza a “Sharm”, saltata per la nube di ceneri dell’Eyafjallajokull, turisti disperati per il prolungarsi delle loro vacanze negli States, gente che mostra tutta la sua criticità nei confronti della decisione dell’ENAC di non far decollare i loro aereoplani.
So bene che l’aereo ormai lo si usa sempre più rispetto al passato e che l’abbassamento dei costi ne permette un uso sempre maggiore e quindi alla portata di tutti, ma mi chiedo se gli interessi intaccati dal blocco aereo siano realmente quelli dei comuni mortali e non di chi specula con le esportazioni.
Qualcosa di simile era già successo quando qualche anno fa, a fare le bizze fu il più nostrano Etna, che bloccò con le sue ceneri l’aeroporto di Catania. E vai con le proteste, vai con le poco velate allusioni alla futilità degli interventi e giù via con l’accusa di far perdere soldi all’economia legata al flusso aereo; proprio come accade oggi. Ma nessuno dei mediatori o degli interpellati sembra aver voluto tener in conto dei rischi ai quali si sarebbe potuti andare in contro. Eppure la decisione è stata internazionale non soltanto italiana, e questo già dovrebbe essere eclatante per spiegare la necessità del provvedimento. Ma cosa varrebbero qualche centinaio di vite umane rispetto al blocco del commercio internazionale: the show must go on, no?
Il punto che si vuol toccare è dunque quello legato al profitto che prevarica ogni cosa.
Siamo infatti un paese dove in media, ogni giorno, più di un uomo muore sul suo posto di lavoro e purtroppo in tale triste computo non vengono elencati quei poveracci che per lavoro muoiono in viaggio e che vengono considerati “vittime della strada”. Non elenchiamo neanche i migranti che spesso, ignoti agli ispettorati del lavoro, in caso d’incidente, vengono depositati morti, sconosciuti e moribondi lungo le strade di campagna. Tutto questo in onore del profitto.
Lo stesso che permette che negli stadi italiani si celebri la domenicale cerimonia dell’esaltazione della violenza, in nome della futilità di un semplice gioco, ma all’ombra di interessi stratosferici, proprio come le ceneri dell’ Eyafjallajokull.
Vedere poi, i poliziotti, da noi pagati, soccombere alle masnade di teppisti, che sovente li soverchiano in numero e violenza. Vedere quei gallinacci chiamati tifosi picchiare selvaggiamente con le fibbie delle loro cinghie, o appiccare incendi dentro e fuori gli stadi o, ancor peggio, uccidere; rende lecito porsi la domanda, cos’è che giustifica tutto questo?
Lo spiegamento di uomini e mezzi è inoltre notevolmente minore durante le partite di calcio rispetto a quelli delle manifestazioni politiche. Spesso non si lesinano elogi quando i manganelli colpiscono operai in cassa integrazione, disoccupati e cittadini che protestano contro l’apertura delle discariche. Lì si che li si addita come facinorosi e politicamente collusi, mentre allo stadio sono sempre e solo quei “quattro” imbecilli che guastano lo spettacolo ai più. Provate a pensare se qualche disoccupato attaccasse un commissariato, si griderebbe al colpo di stato. Dei tifosi, se così li si vuol chiamare, invece l’hanno fatto, a Roma, qualche anno fa, ma provvedimenti e risultati latitano proprio come memoria e coscienza in Italia.
Ma ogni santa domenica, tanto da non darne più notizia, a meno che non ci scappi il morto, questo è lo scenario attorno i nostri stadi.
Il fior fiore dei giornalisti e senza dimenticare i politici che non disdegnano la curva, declamano la propria fede calcistica come voce fondamentale del loro curriculum vitae. I distinguo poi si sprecano: è lo sport più amato e praticato al mondo, non tutti sono ultras, il calcio dà lavoro, è cultura, etc. etc. etc…
Provate a dirlo a chi ci ha perso un proprio caro allo stadio. Il calcio, ho finito di vederlo così come ce lo si impone il 29 maggio dell’ 1985, all’Heysel. Tutto il resto sono chiacchiere e ipocrisia.
PS. Se foste interessati, questo è il link per la corretta pronuncia del “Gatto che cammina sui tasti del piano”:
http://oknotizie.virgilio.it/go.php?us=50f44859af8dbbdd
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