venerdì 3 luglio 2009

Buscar el Levante (immagini e riflessioni)

























Domani, 19 luglio cade l’anniversario della strage di via D’Amelio. Casualmente, dall’estero, da un levante tanto prossimo quanto sconosciuto, intravedo, in un bar, le immagini satellitari di RAI 2 e di un programma che commemorava l’efferata strage, ammesso che si possa così definire e correttamente, entro i termini dell’umana precisione, l’uccisione, l’umiliazione carnale di tanti corpi.
La visione di quelle immagini di repertorio che lasciavano trapelare l’emozione di chi le girava, tremolanti, talvolta lievemente sfocate, da scenario bellico, le immagini di quelle auto degli anni novanta contorte dall’esplosione, sverniciate dalle fiamme, di quelle coperte bianche che coprivano ciò che rimaneva di Paolo Borsellino e i giovani corpi della sua scorta. Anche stavolta, la loro visione ha sollecitato la mia sorpresa indignazione perché mi coglie all’improvviso, nello statico torpore vacanziero come diciassette fa.
Da una quindicina di giorni infatti avevo ritratto gli artigli, avevo sotterrato l’ascia di guerra per entrare in un atmosfera di continentale normalità, muovendomi in una realtà dove per parcheggiare un auto è possibile farlo senza dar fastidio al prossimo e soprattutto senza subirne estorsione alcuna, e là dove, per avere ciò che ti spetta, basta chiedere, senza intercessioni di sorta.
Non credo che altrove esistano realtà paradisiache, prive di problemi o contraddizioni e credo, che, per conoscere realmente un paese, non basti visitarlo da turista, ma è giusto ch’io noti, e durante i miei viaggi, metta in luce i contrasti esistenti col luogo dove sono nato, dove vivo e dove stanno crescendo i miei figli.
Provo un brivido d’emozioni contrastanti, a stento trattengo lacrime di rabbia, cerco istintivamente di dissimulare (ma poi perché?) questa mia debolezza ai miei figli, digrigno i denti al rivalutare, senza il filtro di una lenonica nostalgia, l’immagine di una madrepatria edulcorata dalla lontananza. Avevo messo, come fa chi ama, da parte le immagini di degrado morale e materiale con le quali frequentemente mi scontravo prima di partire per l’agognata villeggiatura e che ora riaffioravano col ricordo di quegli eventi.
Ricordo l’apatica rassegnazione con la quale, il 23 maggio del 1992, fu accolta la notizia della strage di Capaci, che precedette di pochi mesi quella di via D’Amelio e che preannunciò quel cruento periodo della nostra Repubblica. Mi trovavo in un contesto familiare, come tanti, dove tra parenti e amici si discorreva del più e del meno, sempre davanti al televisore, che come spesso accade, è lì, apaticamente acceso a far da colonna sonora e scenografica presenza in tutte le case italiane. Il plateale e improvviso rombo dell’Edizione Straordinaria del Tg1 attrasse l’attenzione degli astanti, che temevano qualcosa di grave, e soprattutto di prossimo. Poi però, ritenuta la dislocazione geografica del fatto, opportunamente lontana, si ritornò tranquillamente al più e soprattutto al meno della discussione. Io rimasi lì, sbalordito a sottolineare la gravità della cosa, ma gli altri, tra cui alcuni che potevano vantare qualche primavera in più, mi fecero notare, tra l’infastidito e il rassegnato che c’era poco da fare, eravamo nati in Italia, lasciando trapelare l’idea che queste cose accadevano quasi naturalmente, così come le calamità naturali, e bisognava ringraziare che non era, almeno stavolta, capitato a noi.
Fermo restando che anche sulle intemperanze di madre natura andrebbe aperto un capitolo a parte, sulla loro prevedibilità o meno, non posso fare a meno di chiedermi se oggi, a distanza di tanti anni, sia viva ancora la concezione dell’eroismo di Falcone, Borsellino e di chi coraggiosamente li accompagnò fino alla fine. Mi chiedo se il loro nome viva solo nelle lapidi, talvolta deturpate, e nei nomi delle strade e delle scuole. Come accennavo sopra, i corpi di quegl’uomini e quelle donne che perirono così drammaticamente, furono umiliati in maniere atroce, ora però rischiano di morire ulteriormente, nell’oblio di una nazione che facilmente dimentica, anche il suo passato più prossimo.
Da persona mite, ma non arrendevole, e che soprattutto trasmette entro i suoi limiti e competenze l’amore per legalità, sono convinto nel valore didattico della memoria, perché è anch’essa che ci rende più liberi, ci eleva ad un rango superiore, a quello di coloro che non dimenticano, contrapponendoci alla non certo labile memoria malavitosa che mantiene bene a mente i suoi obiettivi e soprattutto le sue rivalse, anche a distanza di molti anni. Soffro quindi agli ammiccamenti e gli sfottò che legano la mia città, più che il mio paese, alla camorra e alla criminalità organizzata. Mi chiedo però cosa si faccia da noi per cancellare quest’infamante luogo comune, che ci precede ovunque si vada?







2 commenti:

  1. Mais uma vez tenho que dizer... Essa tua nova máquina fotográfica foi um ótimo investimento! Que cores, e que ângulos!

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